Dal libro del
profeta Zaccaria (9,9-10)
«Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia
di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile,
cavalca un asino, un puledro figlio d'asina. Farà sparire i carri da Efraim e i
cavalli da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle
genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra».
Dal Vangelo secondo Matteo (11, 25-30)
In quel tempo Gesù disse: «Ti
benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste
queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o
Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio;
nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il
Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti,
che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra
di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro
per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».
«Ti benedico, Padre, signore del
cielo e della terra, che hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e ai saggi
(= quelli che hanno esperienza di vita) e le hai rivelate ai bambini (= infanti)».
In verità anche su quel “ti
benedico” iniziale la traduzione potrebbe essere meglio precisata, ma in
generale “ti benedico” rende il senso dell’originale greco. È invece il resto
della frase che si discosta notevolmente da come solitamente viene tradotta. Perché:
un conto è porre il binomio intelligenti/semplici, un conto è porre quella
saggi (per l’età)/infanti.
Nel primo caso infatti ciò che fa
da discrimine tra i gruppi individuati è la capacità intellettiva: in questo
caso gli intelligenti sarebbero come svantaggiati rispetto ai tontoloni nella
comprensione del regno di Dio (in particolare, stando al capito in cui questo
brano è collocato, dovremmo dire meglio: sarebbero svantaggiati nella
comprensione dei segni del regno: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi
camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai
poveri è annunciato il Vangelo – Mt 11,5).
In questa accezione è spesso
proposta anche nella predicazione, dove ha alimentato nei secoli, un
tendenziale scetticismo per l’impiego del cervello all’interno della relazione
di fede. La fede era tanto più fede quanto più era cieca, semplice. E, per
converso, la fede era tanto più discutibile tanto più era discussa.
Cosicché al di là dei chierici –
che lo facevano di “professione” – la fede richiesta, proposta ed apprezzata
nel popolo era appunto quella “semplice”… sinonimo – tenendo il binomio
identificato precedentemente – di “tonta”.
Tra l’altro anche tra i chierici,
tranne qualche eccezione legata per lo più al mondo accademico, non è che l’intelligenza
della fede trovasse così largo spazio… anzi: alle soglie del XX sec. la Chiesa è
giunta con un apparato dottrinario e dogmatico formulato nelle alte sfere, già
tutto preconfezionato e – poiché considerato “eterno” – anche “immutabile”; un
formulario che poi a cascata veniva insegnato (per lo più a memoria) nei
seminari e nei conventi, quindi nelle chiese e nei catechismi, quindi nelle
case.
Questa eredità che la storia
della cultura ecclesiastica ci lascia, così come questa brutta traduzione del
v. 25 del cap. 11 di Matteo, ha portato e – purtroppo – continua a portare intere
generazioni di cristiani a credere che la fede vera sia la fede cieca, a essere
scettici di fronte a chi si interroga (non tanto interiormente, come spesso i
sacerdoti ci invitano – questo sì, sempre – a fare, sulla morale, sulla
preghiera, ecc… ma sulle questioni della fede e della vita della Chiesa), a
guardare con sufficienza chi si cimenta nell’esercizio della ragione anche
nella relazione con Dio.
Invece il quel v. 25 non si
parlava di intelligenza, tanto meno per stigmatizzarla; si contrapponevano piuttosto
due categorie generazionali: gli anziani (saggi) / i minorenni (quelli che non
hanno l’età per essere saggi). In qualche modo non è un detto di Gesù che si distanzia
da quell’altro che troviamo in Mt 18,3: «In verità io vi dico: se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli».
Siamo in questo contesto
semantico, non in quell’altro del presunto elogio dei tonti.
Il discrimine è cioè posto
altrove: Gesù – in questo cap. 11 di Matteo – ha appena visto che Giovanni
Battista (il più grande fra i nati di donna) non capisce i segni del regno
(tant’è che manda a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo
aspettare un altro?»), gli rimangono nascosti (come a tutti i “grandi” – che è
proprio la parola con cui i bambini identificano gli adulti).
Quei bambini
di cui parla ancora Gesù in questo cap. 11, che contiene anche la paraboletta del
“Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e
non vi siete battuti il petto!”. Nel paragone di Gesù sono i bambini che dicono
questa frase.
Subito dopo
questo episodio e immediatamente prima del brano di oggi ci sono poi i versetti
20-24 di rimprovero contro le città che non si sono convertite… con una
precisazione: erano le «città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei
suoi prodigi», cioè quelli che abbiamo indicato prima come i segni del regno.
Da tutte
queste considerazioni emerge che il problema del brano odierno consiste nel
riconoscimento dei segni del regno, cioè del fatto che quando l’uomo incontra
Dio nella sua storia, ne rimane umanizzato, liberato dal male (il regno è
infatti: occhi ciechi che ci vedono, gambe storte che camminano, ecc…) e mai il
contrario: non avviene mai che dall’incontro con Gesù qualcuno esca con un male
inflitto o con una disumanizzazione. Ecco perché i segni del regno sono
semplicemente un altro modo (oltre alle parole) di proclamare la medesima buona
notizia, di un Dio che è solo Padre per gli uomini, mai padrone.
Ebbene,
il testo di questa domenica pare dirci che a comprendere tutto questo sembrano
abilitati i bambini non i datati. Non si dice perché, e ognuno potrebbe
ricamarci sopra tutto un panegirico; a me viene da pensare solo che i bambini
sono più capaci di accogliere le novità – mentre i più grandi hanno sedimentato
tutta una serie di esperienze rispetto alle quali la novità spaventa o non
viene creduta («Non c’è niente di nuovo sotto il sole» Qo 1,9).
Gesù,
che non solo è una novità, ma è la novità e non una volta 2000 anni fa,
ma ogni giorno, ogni attimo della nostra vita chiede di essere accolto come la novità, coglie che i migliori
recettori di novità sono i bambini: per questo ci chiede di essere come loro.
Perché non
va mai dimenticato che le categorizzazioni di persone nei vangeli non sono
divisioni tra gruppi di persone, ma richiamano il cuore di ciascuno: siamo noi
che nella nostra interiorità abbiamo zone “datate” e altre “capaci di novità”.
Non a
caso immediatamente dopo nel nostro testo Gesù fa riferimento alla stanchezza,
all’oppressione e al ristoro… c’è un modo perché il nostro cuore indurito dalla
vita – come la pelle di un agricoltore anziano – rimanga – pur con lo spessore
delle esperienze di anni – capace di novità, della novità che è l’annuncio del regno: trovare ristoro in Lui,
consegnarglisi.
Gesù dunque
non solo non disdegna gli intelligenti, ma non pone nemmeno questa opposizione
per disdegnare gli anziani (di qualunque età): le sue parole hanno piuttosto il
senso di invitare alla capacità di accoglienza della novità che lui è, passando
dal ristoro delle sue braccia e del suo sguardo per quelli che la durezza della
vita ha reso un po’ meno avvezzi a credere che «C’è qualcosa di nuovo sotto il
sole».
Nessun commento:
Posta un commento