Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa tredicesima domenica del tempo ordinario è di un coinvolgimento emotivo tale, da rendere difficile ogni sua esplicitazione verbale. Come scriveva Rainer Maria Rilke infatti «la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato» [Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980, 13].
Questo – credo – dipenda innanzitutto da alcune pennellate narrative che l’evangelista pone nel testo e che vanno a stendersi proprio là nell’intimo delle nostre strutture antropologiche fondamentali, nelle corde scoperte (e per questo così sensibili) della nostra interiorità: si ha a che fare infatti con la morte e con la malattia. Ma non con una morte qualunque, ammesso che ne esista una definibile così; perlomeno non con una morte codificata, “normale”, naturale; qui non si parla di qualcuno che «spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati» (Gn 25,8)… si parla di una dodicenne, di una figlia, della figlia di un capo, della figlia di un uomo, di una figlia dell’umanità.
E non si parla di una malattia qualunque, ammesso che qualche malattia si possa definire “qualunque”, ma in particolare viene sottolineato il tratto estenuante, isolante, dis-umanizzante della malattia: si parla di una donna che «aveva molto sofferto», «da dodici anni», che aveva speso «tutti i suoi averi» e che – proprio perché la sua era una malattia legata al sangue (ecco perché inizialmente sarà così intimorita da Gesù) – era condannata alla condizione e alla considerazione di impura e dunque emarginata, esclusa dalla vita sociale e civile del suo popolo.
Ecco perché questo brano non può essere ridotto a un paio di semplici miracoli, i cui racconti sono abilmente intrecciati dall’Autore in un’unica storia (cfr per esempio il richiamo per entrambe le donne ai “dodici anni”), ma che sostanzialmente possono essere archiviati nella cartella: “Belle cose che ha fatto Gesù”. Qui implicati infatti ci sono richiami impliciti – eppure affettivamente fortissimi – alle nostre dinamiche umane più profonde: per un verso, la paura della morte, la paura della morte dei propri cari, la paura della morte dei propri figli; lo sgomento che questo provoca (un figlio infatti non è mai solo un figlio… è la promessa per l’umanità del futuro, della vita che continua anche dopo la morte degli ormai “sazi di giorni”, è la speranza in un mondo nuovo…); la domanda su Dio che questo implica; per l’altro, la paura della sofferenza, della solitudine, dell’esclusione, dell’inabilità, della perdita della possibilità di determinarsi nella vita… con la domanda inevitabile sul senso della vita alla luce del male, dunque nuovamente la domanda sull’identità di Dio…
E – come se ancora non bastasse – a rendere ancora più contorcente le nostre viscere sta il fatto che qui in gioco accanto alla disperazione accorata di un padre (Giairo), le protagoniste siano due donne. Ciò rende il quadro ancora più toccante, non tanto, o non solo perché l’essere donna rimanda alle sfumature antropologiche più legate alla fragilità, al bisogno di custodia, al bisogno di casa… e neanche solo perché nell’essere donna è implicato l’essere fonte della vita, anche se anche questo cordone pulsante dell’umanità rifluisce in questo brano: non a caso muore una ragazzina appena entrata nell’età della fertilità e si ha a che fare con un’emorroissa. Piuttosto ciò che è così pregnante del fatto che in gioco ci siano due donne lo si può rintracciare facendo lo sforzo di uscire dalla – pur necessaria – generalizzazione, provando a entrare a vivere la situazione dal di dentro.
Questo è il passo fondamentale nell’ascolto della Parola: essa non è infatti un manuale di istruzioni o la presentazione di un modello di vita. Non ci dobbiamo approcciare ad essa cercando risposte preconfezionate alle nostre domande sui massimi sistemi (che pure sono implicate come mostravamo più sopra), né con l’immediato interrogativo “Cosa devo fare in questa o quest’altra situazione?”… Non è questa la dinamica sua propria che la Parola sprigiona: essa è infatti non un manuale, non un ricettario, ma la testimonianza scritta di una storia, cioè del dipanarsi temporale delle libertà dei protagonisti, tra cui la libertà storica del Figlio di Dio, l’uomo Gesù.
Ecco perché per entrare in dialogo interiore con essa e perché essa possa nutrire la nostra vita, è necessario che avvenga questo incontro di libertà, che avvenga cioè che noi riusciamo a entrare nelle dinamiche dei protagonisti – a coglierle, a sperimentarle, a lasciarcene plasmare – e a ritrascriverle nella nostra vita.
Per quanto riguarda il vangelo di oggi, questo vuol dire davvero “mettersi nei panni” di Giairo, dell’emorroissa, della figlia dodicenne, dei discepoli, dei parenti della ragazzina, di Gesù…
Come dicevo forse la pregnanza maggiore è quella delle due protagoniste femminili. Solo provando a entrare dentro al racconto, dentro al racconto dal loro punto di vista, si può capire la decisività di questa dominanza emotiva del femminile, che non è solo di questo brano, ma di tutto il vangelo. Gli uomini fanno disfano, vanno, vengono… ma gli affetti sono sempre e tutti al femminile (cfr la samaritana, la donna curva, la peccatrice perdonata, le lacrime sui piedi di Gesù, la Maddalena nel giardino del sepolcro, ecc…).
Per questo fanno trepidare così tanto questi brani… perché intercettano – nel femminile – il disvelamento dell’affettivo sul fattivo. Qualcuno dice sempre che una donna quando ama è atea, intendendo che di fronte all’amato (un figlio, un uomo, un fratello, un amico, un padre…) sparisce ogni legge, perfino quella della giustizia, perfino quella della religiosità: nella donna in modo emblematico appare la totalità della dedizione, presente e reale anche nell’uomo (non è certo questo un discorso sessista), ma indubbiamente più mediata. Ecco perché questi testi tirano fuori le coordinate profonde di tutti: perché nella trasparenza dell’affettività femminile mettono sul piatto della storia le fragilità di ciascuno, le passioni, le paure, i desideri, la fede, la speranza, le disillusioni, le trepidazioni…
Proviamo allora a entrare nel testo, a intercettare la libertà storica dell’emorroissa…
Essa vive la disperazione della malattia e delle sue conseguenze, in qualche modo ci “sbatte in faccia” nella sua carne, ciò che devasta di terrore il cuore di ogni uomo, la solitudine esistenziale, soprattutto nella forma definitiva della morte.
Di fronte ad essa il narratore ci informa che questa donna ha messo in moto tutta una serie di tentativi per salvarsi, richiamandoci vividamente alla quasi onnicomprensiva spinta che determina la nostra vita, le sue azioni, i suoi affetti, che non è altro che la ricerca di espedienti, per salvarci appunto dalle piccole e grandi morti che costellano il nostro percorso umano…
Fino a quando sente parlare di Lui… inizialmente lo vive come un ennesimo tentativo nella sua disperata rincorsa verso la guarigione (e quante volte anche noi, facciamo di Lui un “soluzione ai nostri problemi”…), tanto che gli si avvicina clandestinamente, consapevole di non poterlo nemmeno sfiorare per legge: toccare qualcuno sapendo di essere in uno stato di impurità, quindi sapendo di “contaminarlo” era infatti uno dei comportamenti più stigmatizzati in Israele che su questo campo ha sviluppato una delle legislazioni più precise e puntuali della storia. Spera infatti che Lui nemmeno si accorga del suo tocco… E quando invece si rende conto che Lui si gira e la cerca fra la folla rimane come impietrita, agghiacciata dalla paura che quello che lei considerava un amuleto per la vita, diventasse fonte di ulteriore disprezzo, condanna, solitudine…
Lui invece si gira, la guarda e si rivela… il Dio della vita, il Dio degli ultimi, il Dio delle donne… il Dio della relazione, il cui “effetto” salvifico “funziona” solo perché si acconsente ad un rapporto, ad un guardarsi, ad un cercarsi. Ciò da cui Dio guarisce non è infatti tanto un flusso di sangue, ma un flusso di morte e da questo ci si affranca solo se si ritrova la forza di dare credito alla vita… Ma ancora, una forza che l’uomo non può darsi da solo… è solo uno sguardo amante che ci raggiunge che può scardinare in noi i meccanismi mortali da cui siamo affetti e a volte pure affascinati: «Gli empi invocano su di sé la morte, ridendola amica» (Sap 1,16). Per quello è necessario lasciarsi guardare… un po’ come Luo Cuifen, l’emorroissa del 2000. «Luo Cuifen è una giovane donna di 29 anni nata a Kunming, nel Sud della Cina. Un giorno, stanca di dirsi passerà, domani vedrai che passa, è andata dal medico. C’era sempre sangue nella pipì del mattino e a parte il dolore, a parte la sottile preoccupazione crescente, non aiuta svegliarsi e per prima cosa vedere il tuo sangue: sangue sempre, sangue ogni giorno. Il medico le ha detto: sarà una disfunzione renale, faccia una radiografia. Ecco, la radiografia del torace di Luo Cuifen è una di quelle foto che spiega il tempo in cui viviamo. L’hanno pubblicati molti giornali. Merita di essere ritagliata e di stare attaccata coi magneti al frigorifero. Nel torace di Luo ci sono 23 aghi: alcuni sono lunghi anche 2,5 cm. Nella radiografia sono sparsi sullo scheletro come bacchette di shangai, il gioco dei bimbi. Sembra un fotomontaggio e invece no. Aghi nei polmoni, nei reni, uno rotto in 3 parti proprio sotto il cervello, aghi dappertutto. Luo non era mai stata operata in vita sua, non poteva trattarsi certo di un errore di un chirurgo né d’altra parte neppure il più distratto dei medici può scordare decine di aghi lungo un metro di corpo. E dunque? Dunque sono stati 23 tentativi di ucciderla. Luo era stata affidata ai nonni, appena nata. La madre lavorava, i nonni non volevano bambine in casa – le femmine sono solo un costo nella Cina rurale, le devi crescere e mantenere per vent’anni, poi passano alla famiglia del marito, non portano indietro niente. Così hanno pensato di ucciderla con gli aghi. Forse non avevano cuore di soffocarla né di abbandonarla in un campo, forse pensavano che un killer invisibile li avrebbe sollevati almeno dal peso di essere presenti al momento della morte: sarebbe morta nel sonno, poi l’avrebbero sepolta. Ma Luo era una bambina robusta e il suo corpo con gli aghi ha trovato un accordo: ha resistito. Certo da adolescente e poi da ragazza non ha avuto vita facile. Soffriva di ansia, di depressione e di insonnia, hanno raccontato poi i medici che da tutto il mondo sono accorsi a operarla. Tanti però, tante giovani donne soffrono di ansia e di insonnia, non è necessario che gli aghi si vedano nelle radiografie, ci sono aghi invisibili che bucano il respiro e quel che bisogna fare è resistere. […] A operare Luo sono arrivati 23 medici, uno per ago. […] I nonni sono morti, non possono più dire com’è andata ammesso che da vivi avrebbero avuto cuore e coraggio per farlo. Magari si sono rallegrati, nel tempo, dell’incredibile tempra di Luo. Magari la nonna, è bello immaginarlo, l’ha festeggiata a ogni compleanno ringraziando il cielo per non averla ascoltata. Magari no, invece. La ragazza dice che non ha ricordi dei momenti in cui le infilavano gli aghi. Dice che solo una volta ha origliato una conversazione che le era risultata incomprensibile, si diceva sottovoce di qualcosa avvenuto quando aveva tre giorni di vita. Dev’essere successo quindi in un solo giorno, in un momento, in culla, come fosse una bambola di quelle che si bucano nei riti del malocchio. Mio padre ha trovato la foto del torace di Luo e l’articolo che ne parla in un giornale straniero durante un viaggio, lo ha tenuto stropicciato nel portafogli e lo ha tirato fuori ripiegato in quattro. Tieni, mi ha detto, guarda fin dove si può vincere. Vincere il destino, vincere l’ignoranza e la violenza, vincere un corpo nemico, vincere gli aghi che bucano anche quando non sai cos’è che ti fa sanguinare. Combattere, spingere la sorte più in là. Finché si può, credo che intendesse dire con quel foglio conservato come un amuleto, finché si può resistere si deve». [C. DE GREGORIO, Malamore, Mondadori, Milano 2008, 143-145].
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1 commento:
Grazie anche a te, Chia di tutto quello che sei.
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