In questa ventunesima domenica del tempo ordinario, il brano di vangelo arriva a concludere il lungo itinerario che la liturgia della Parola ci ha fatto seguire in queste domeniche estive: la lettura del capitolo sesto di Giovanni.
L’epilogo del lungo discorso di Gesù lì contenuto sul pane della vita è duro: «Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui»; e lo è a maggior ragione se posto – come accade nelle letture odierne – accanto all’episodio raccontato al capitolo ventiquattresimo di Giosuè: lì – al di là della questione sulla storicità del testo – è presentata infatti la grande adunanza delle tribù di Israele che dopo i quarant’anni nel deserto al seguito di Mosè, l’ ingresso nella terra di Canaan, la terra promessa, al seguito di Giosuè e la spartizione dei territori fra le dodici tribù, si raduna per rinnovare l’alleanza al Signore, Dio di Israele.
Il contrasto col Vangelo è evidente perché da un lato è presentato il consenso di massa al rinnovamento della fedeltà al Signore attuato da tutte le tribù di Israele nei loro massimi rappresentanti, e dall’altro l’abbandono di quasi tutti i suoi che Gesù subisce.
Evidentemente i due brani non si possono paragonare in modo semplicistico, soprattutto perché il primo ha chiaramente enfasi nazionalistica e dunque tradisce una certa idealizzazione dei fatti, eppure nonostante queste considerazioni il contrasto appare pungente, perché sottolinea ancora più fortemente la disfatta comunicativa di Gesù: di certo da questo testo emerge che Gesù non sa farsi pubblicità…
Ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze… andando a scavare un po’ dietro e oltre i versetti presentatici, scopriamo infatti che anche questa grande adunata di Israeliti devoti, in realtà nasconde grandi elementi di fragilità nel suo rapporto col Signore: innanzitutto è un unanime consenso a seguire il Signore, che però è frutto di un esperienza molto gratificante e confermante (la conquista della terra promessa) e che dunque assume il carattere della facile osannazione di chi ci è favorevole, di chi ci dà da mangiare (come era successo allo stesso Gesù, immediatamente dopo la moltiplicazione dei panie e dei pesci, che è l’episodio che inaugurava il capitolo 6 di Giovanni e a cui era conseguito addirittura il tentativo degli ascoltatori di farlo re); inoltre la storia di Israele che precede e soprattutto che segue questa altisonante alleanza con Dio, mostrerà che, se Dio rimane fedele, il popolo invece tornerà continuamente a tradire il consenso dato e ad adorare gli idoli.
Alla luce di queste considerazioni assume allora forse valore diverso il metro di giudizio con cui si misura la capacità comunicativa di Gesù: non è detto che il consenso di massa sia sinonimo di vera comprensione del messaggio e di autentica adesione a colui che lo proclama…
E di questo Gesù è più che consapevole, dato che – come si ricordava poc’anzi – ha appena fatto esperienza del travisamento del suo gesto di dare da mangiare: lentamente allora il suo parlare diventa sempre più chiaro, esplicito, “duro”, lo definiscono gli ascoltatori. All’audience basata sul fraintendimento o su una facile illusione, preferisce la decisione libera di fronte a un messaggio chiaro. Sembra cioè che l’intento di Gesù sia molto più quello di dirsi in verità, che quello di creare consenso.
Questa annotazione, che potrebbe suonare come molto edificante quanto a contenuto virtuoso dell’atteggiamento che suggerisce (essere se stessi senza preoccuparsi del giudizio altrui), in realtà nel caso di Gesù crea un problema ulteriore: qui infatti non si sta parlando di uno dei nostri figli preso in giro dai compagni a cui insegniamo che deve “fregarsene” di quello che pensano gli altri… Qui si tratta del Figlio di Dio, venuto a rivelare il Suo volto… si sta parlando perciò di Qualcuno a cui dovrebbe – almeno un po’ – interessare la problematica dell’audience, la problematica del farsi conoscere e riconoscere dai più, se non addirittura da tutti, come già auspicavano i profeti…
In gioco cioè c’è il serio problema del non riconoscimento di Gesù come il Messia, la possibilità del fallimento della rivelazione di Dio, la perdita – da parte dell’uomo – dell’appuntamento col Signore che viene…
Eppure nonostante questa alta posta in gioco, il Signore non cede alla tentazione di cadere nel ricatto della paura: per paura che vadano via tutti, abbassare il tiro della sua verità, annacquarla o mitigarla… Anzi, man mano il dibattito si fa sempre più serrato, fino al rilancio estremo del «Volete andarvene anche voi?», cioè fino al rischio di rimanere del tutto solo.
Ma cosa c’è dietro a questa “dura” ostinazione che è disposta ad accettare anche l’abbandono totale? Perché per salvaguardare un po’ più di pubblico – e dunque non rischiare che la sua verità non avesse più orecchie che l’ascoltassero – Gesù non accetta di cedere su qualche punto?
La risposta sembra stia in questo: se – come già accennato – per Gesù prevale la verità sul consenso, sarebbe assurdo ridurre la verità per mantenere il consenso; se la verità deve andare persa (morirà solo in croce!), meglio che lo sia per il cuore duro dell’uomo (che può sempre convertirsi), che per la sua mancata proclamazione da parte di chi la conosce; se essa infatti per paura viene censurata o annacquata non ha speranza di essere accolta in verità…
La scelta di Gesù allora, qui come in tutto il Vangelo, è sempre quella di correre il rischio di non essere capito ma di “dire la verità”, meglio di dirsi come verità: e ogni volta che nel vangelo c’è qualche reazione negativa al suo dire o agire è sempre perché scatta questa dinamica (controversie sul sabato, sulla vicinanza a certe categorie di persone, sull’autorità che si attribuisce, ecc, ecc, ecc; fino all’emblematico episodio della morte: Gesù non rinuncia alla sua verità, alla verità che lui è, a costo di morire – solo e nel fraintendimento!).
Il punto allora sta nel comprendere quale sia e di che tipo sia questa verità che Gesù difende strenuamente con le unghie e che pare sovrapporre a tutte le altre istanze della sua vita (l’avere dei discepoli – l’uomo a cui comunicare la Verità; il desiderio di essere compreso; il desiderio di vivere…).
Innanzitutto va liberato il campo da quella mentalità pre-conciliare che si era irrigidita sulla formulazione dottrinalistica, per cui Gesù avrebbe rivelato le verità (al plurale) su Dio, rimandando quasi inconsciamente a pensare al rapporto con Dio in termini intellettualistici (le verità sono cose che si capiscono e conoscono con la razionalità) e estrinseci (quasi che Dio non avesse altro relazione con l’uomo che spedire dal cielo il manuale che racchiude le definizioni che lo riguardano – pensiamo al Catechismo di Pio X – e l’uomo, da parte sua, non avesse che da imparare tali definizioni).
Ciò che allora è assolutamente da evitare, è la riduzione della verità di Gesù alle verità (al plurale) intese in questo senso. Quella di Gesù è la verità!
Ma ancora una volta: non cambierebbe niente il passaggio dal plurale al singolare se non convertissimo l’idea di verità che abbiamo in testa. Essa nella sua matrice intellettualistica, dottrinalistica, estrinsecistica, è una riduzione assolutamente inadeguata per dire Dio.
Può invece instradare la celebre auto-identificazione di Gesù con la verità stessa: «Io sono la verità» (Gv 14,6). Qui infatti è evidente come la verità di cui parla Gesù non sia riducibile ad una definizione, ad un concetto, alla risoluzione di qualche enigma… Essa coincide con la sua persona, cioè con la sua libertà storica, con l’esperienza terrena di quegli anni vissuti in una piccola porzione di spazio.
La verità allora – quella che Egli difende così strenuamente – è il suo determinarsi così all’interno della Vita. E proprio perché è di questa “qualità”, che rimane una verità assolutamente non sintetizzabile: non basta raccontare la storia di Gesù per incontrare la verità; non basta tradurla in indicazioni morali; nemmeno in un percorso di imitazione; non basta cioè dire che Gesù è colui che ha creduto all’affidabilità del Padre, ha vissuto di questa fede e per questo ha proposto l’amore incondizionato tra gli uomini come realizzazione piena della vita di ciascuno… Perchè dire questo, è ancora tentare di dire la verità saltando la storia: cioè dire in parole più aggiornate, più pregnanti ed emozionanti, quello che prima del Concilio dicevano i dogmi in maniera un po’ fredda e incomprensibile…
Per incontrare la verità di Gesù non si può allora saltare la relazione personale con Lui: ogni tentativo di prescindere da questo mettersi in gioco personalmente, elaborando anche la sintesi più particolareggiata di Lui è ancora mancare il bersaglio. Non a caso tutto lo scandalo del capitolo 6 di Giovanni, fino alle dure conseguenze di questi versetti finali, ruota intorno al suo proporsi come pane e carne e sangue da mangiare… che sono i termini forti per richiamare alla necessità di una “assunzione” di Lui, di una relazione personale e autentica.
Ecco perché la domanda che pone ai Dodici non è “Non mi avete capito neanche voi?”, ma “Volete andarvene anche voi?”: perché è l’interruzione della relazione che impedisce l’accesso alla Verità.
E questo – credo – sia molto significativo per giudicare anche della nostra religiosità…
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2 commenti:
Ottimo. Grazie
anche se dal nickname non ti riconosco e forse davvero non ti conosco, ti ringrazio a mia volta per il commento gratificante
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