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mercoledì 22 giugno 2016

XIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 19,16.19-21)

In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto». Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 5,1.13-18)

Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 9,51-62)

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio. Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa domenica sono molto dense, perciò è utile trovare un punto prospettico che ci orienti.

La seconda lettura può aiutarci. Contiene, infatti, un’espressione che potrebbe fare da sintesi a tutto il Nuovo Testamento: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”».

Ciò che colpisce maggiormente di questa frase, è il fatto che Paolo scelga di non nominare la prima parte del comandamento dell’amore: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.

Anche l’evangelista Giovanni aveva fatto la stessa cosa al capitolo 15 del suo libro, scrivendo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi».

Cosa vogliono dire queste omissioni? Non bisogna più amare Dio?

lunedì 20 ottobre 2014

XXX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro dell’Èsodo (Es 22,20-26)

Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési (1Ts 1,5-10)

Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne. Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

 

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 22,34-40)

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario, segue, saltando pochi versetti (l’episodio dei sadducei che interrogano Gesù sulla risurrezione, Mt 22,13-33), quelli delle settimane scorse. Siamo sempre a Gerusalemme e sempre nello stesso contesto di tensione con i capi religiosi ebrei.

Il brano di Mt 22,34-40, quello odierno, propone infatti nuovamente il tentativo di uno dei gruppi religiosamente più intransigenti di Israele, di mettere alla prova Gesù: tornano infatti alla carica i farisei, già messi a tacere – come ci raccontava la liturgia di settimana scorsa – in occasione della discussione sul tributo a Cesare (Mt 22,15-22): essi ripropongono ora capziosamente una nuova domanda a Gesù: «Qual è il grande comandamento?».

martedì 30 ottobre 2012

XXXI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 6,2-6)

Mosè parlò al popolo dicendo: «Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 7,23-28)

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore. Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso. La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.

 

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Il brano di vangelo che la Chiesa ci propone per questa Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario, è un testo fondamentale. Lo sono tutti, ovviamente, ma ce ne sono alcuni che hanno una capacità sintetica tale, da emergere quasi fra gli altri e funzionare come da icona.

Siamo ormai all’interno del racconto della passione (siamo infatti a Gerusalemme): «Chi ha seguito Gesù nel suo cammino, nel Vangelo di Marco, ha sentito con quale radicale determinazione annuncia una rivoluzionaria visione dell’uomo, riportandolo al progetto originario di Dio, nel cuore delle grandi relazioni che costituiscono la nostra umanità (sessualità e fedeltà nell’amore – economia e condivisione dei beni – politica e dono di sé, invece che competizione per il potere), fino a convincere chi lo ascoltava della totale incapacità (cecità) dell’uomo… a seguirlo. Ecco allora la preghiera del cieco di Gerico: Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me! … che io riabbia la vista!

proseguendo il viaggio Gesù, con i suoi discepoli, arriva in città, a Gerusalemme… dove inizia lo scontro finale con i capi dei sacerdoti, i farisei e gli erodiani sul “covo di ladroni” quale era divenuto il tempio, sull’autorità con la quale Gesù si propone, sulla drammatica infedeltà di Israele, sulla moneta di Cesare, sulla risurrezione… e sempre più la lettura che Gesù fa delle situazioni che vede e delle questioni che gli presentano è totalmente diversa dalla mentalità corrente. Sentendo la profondità delle risposte di Gesù, uno scriba, cioè uno specialista delle Scritture, con simpatia (secondo Marco), interroga Gesù: Qual è il primo di tutti i comandamenti? Come a dire… e DIO? Dove va a finire, cosa ne è? – in tutto questo “stravolgimento” della legge, del tempio, delle tradizioni, delle mediazioni culturali ed etiche, che si erano faticosamente sedimentate nei secoli? Qual è la chiave di volta di tutta la storia della salvezza raccontata nelle Scritture? L’asse portante della vita e della interpretazione – o senso – di essa?

È l’amore, replica Gesù:“più grande di questo, altro comandamento non c’è?”» [Giuliano].

L’amore per Dio e l’amore per il prossimo. Prima Dio, poi il prossimo…

Così sembra dire il vangelo di Marco, come anche quello di Matteo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Leggee i Profeti» (Mt 22,37-40).

E in effetti ci sembra scontato: noi abitualmente pensiamo così. Un buon cristiano innanzitutto ama Dio e poi (di conseguenza – quasi per far piacere a Lui che l’ha “comandato”) anche il prossimo. Tant’è vero che nella storia della Chiesa hanno sempre più assunto maggior peso e “odore di santità” le persone che lasciavano il mondo (i prossimi) per “stare più vicini a Dio”, per amare Lui solo, ecc… Anche oggi, tra le varie scelte di vita che un cristiano può fare, si pensa sempre che la vita consacrata o sacerdotale sia “un po’ più cristiana” delle altre, un po’ più vicina a Dio, appunto…

Eppure… qualcosa non torna in questo modo di pensare… Innanzitutto perché Gesù, per primo, ha passato molto più tempo per le strade e nelle case, che nelle sinagoghe, al Tempio o in luoghi eremitici; inoltre – se si guarda alla vita dei primi cristiani (leggendo per esempio gli Atti degli apostoli) – ci si accorge di quanto anche questi fossero sempre in giro, sempre immersi tra la gente, nelle vicende quotidiane dei suoi problemi (pensiamo alle lettere di Paolo) e poco rivolti col naso all’insù. Anzi gli Atti degli apostoli iniziano proprio con l’invito dell’angelo a tirar giù il nasone: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

Forse allora quel “primo comandamento” e “secondo comandamento” non vanno pensati come se formassero una graduatoria… Forse lì dentro c’è qualcosa di un po’ più radicale.

Lo tratteggia l’evoluzione che questo passo ha avuto nei suoi paralleli di Luca e Giovanni.

Luca infatti, quando ripropone l’episodio di questo dialogo di Gesù con lo scriba, lo riscrive in questi termini (Lc 10,25ss): innanzitutto colui che si rivolge a Gesù è chiamato “dottore della legge” e formula questa domanda: «“Maestro che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”». È dunque in bocca al dottore della legge e non a Gesù che Luca mette l’associazione dei due passi dell’AT che formano il comandamento nuovo (Dt 6,5 e Lv 19,18), ma Gesù certifica quanto espresso dal suo interlocutore: «Hai risposto bene, fa questo e vivrai».

La cosa interessante è questo primo raccordo tra i due comandamenti, che – appunto – non sono più due, ma uno (manca infatti la dicitura “il primo è…”, “il secondo è…”, ma vengono espressi insieme con una “e” che li congiunge: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso).

Interessante poi che il prosieguo del testo di Luca si concentri sulla seconda parte di questo comandamento, quella che riguarda il prossimo. Il dottore della legge infatti disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?»; domanda alla quale Gesù risponde raccontando la parabola del buon samaritano, che si conclude con il contro interrogativo di Gesù: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?», ribaltando il problema della prossimità, che non è più vista come delimitazione di una categoria (“Chi è il mio prossimo?” – e quindi “E chi non lo è?”), ma come disposizione interiore di ciascuno (“Chi è stato capace di essere prossimo al povero Cristo bastonato?” – e quindi “Cosa devo fare per essere capace anch’io di essere prossimo a chiunque?”).

Questo concentrarsi sull’amore per il prossimo (invece che sull’amore a Dio) a seguito del comandamento nuovo, lascia intuire che «Ama il prossimo tuo come te stesso è una conseguenza o esplicitazione storica dell’unico comandamento. Il dialogo vitale di amore tra gli uomini è il luogo della crescita reciproca nell’amore “divino” tra noi – secondo una dinamica interna che matura  progressivamente… e ci fa ricadere in Dio Padre, il solo capace di accoglierci (tutti insieme) nel cammino (nell’esodo) dalla nostra tormentata storia, a partire da Israele.

prima: "Prossimo" è il parente quelli della stessa tribù o popolo, appartenenti alla stessa alla grande famiglia allargata, che condivide sangue, lingua, religione, struttura sociale

poi: "Prossimo è colui a cui mi avvicino, o che si avvicina a me. A poco a poco, il concetto di prossimo si allargò, con diverse interpretazioni fino al tempo di Gesù, quando alcune scuole pensavano si dovesse uscire oltre i limiti della razza. Fu così che un dottore rivolse a Gesù questa domanda polemica: "Chi è il mio prossimo?" Gesù rispose con la parabola del buon Samaritano (Lc 10,29-37), in cui il prossimonon è né il parente, né l'amico… ma colui che si avvicina a te, indipendentemente dalla religione, dal colore, dalla razza, dal sesso o dalla lingua.

infine: la misura dell'amore al "prossimo" è amare come Gesù ci ha amato» [Giuliano].

Non a caso l’ultimo evangelista completa la parabola della fusione dei due comandamenti, esprimendosi così: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35), dove ciò che emerge è che Gesù non dice «Amatemi come io vi ho amato»,

 

              DIO
                |
                |
UOMO

 

ma («Amatevi [tra voi!!!] come io vi ho amato»).

Il comandamento nuovo, cioè, invita ad un amore debordante (nel senso letterale: che deborda):

 

    DIO
                  |
                  |
UOMO ---- ALTRI UOMINI

 

Anche perché – ricorda ancora Giovanni nella sua Prima lettera – «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

La parabola evangelica sul comandamento nuovo ci ha condotto allora a questo: il modo in cui Dio vuole essere amato coincide con il dirottamento del nostro amore sul prossimo. Un amore che ha la misura del suo: «Amatevi, come io vi ho amato».

Mi piacerebbe che a partire da queste considerazioni, provassimo – a livello personale ed ecclesiale – a ripensare a tanti luoghi comuni sull’amore di Dio e del prossimo che ancora ci abitano.

E vi lascio con i pensieri di Annalena Tonelli che sei anni fa, Giuliano riportava nella sua lectio:

“ … la vita ha senso solo se si ama. Nulla ha senso al di fuori dell'amore. La mia vita ha conosciuto tanti e poi tanti pericoli, ho rischiato la morte tante e poi tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho esperimentato nella carne dei miei, di quelli che amavo, e dunque nella mia carne, la cattiveria dell'uomo, la sua perversità, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare.

Se anche Dio non ci fosse, solo l'amore ha un senso, solo l'amore libera l'uomo da tutto ciò che lo rende schiavo, in particolare solo l’ amore fa respirare, crescere, fiorire, solo l’ amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di chi ci colpisce, perché non sa quello che fa, che noi rischiamo la vita per i nostri amici, che tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto speriamo... Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Ed è allora che la nostra vita diventa bellezza, grazia, benedizione.

Ed è allora che la nostra vita diventa felicità anche nella sofferenza, perché noi viviamo nella nostra carne la bellezza del vivere e del morire”.

martedì 18 ottobre 2011

XXX Domenica del Tempo Ordinario

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa Trentesima Domenica del Tempo Ordinario, segue, saltando pochi versetti, quelli delle settimane scorse. Siamo sempre a Gerusalemme e sempre nello stesso contesto di tensione con i capi religiosi ebrei.

Il capitolo 22,34-40, quello odierno, propone infatti nuovamente il tentativo di uno dei gruppi religiosamente più intransigenti di Israele, di mettere alla prova Gesù: dopo i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo che nel Tempio avevano messo in discussione la sua autorità (Mt 21, 23 ss) e dopo i sadducei che lo avevano interrogato sulla risurrezione dei morti a cui non credevano (Mt 22,23-33), ecco ritornare alla carica i farisei, già messi a tacere – come ci raccontava la liturgia di settimana scorsa – in occasione della discussione sul tributo a Cesare (Mt 22,15-22): essi ripropongono ora capziosamente una nuova domanda a Gesù: «Qual è il grande comandamento?».

La domanda non è neutrale, anzi, il Vangelo stesso sottolinea come essa sia stata fatta «per metterlo alla prova»

Eppure essa contiene anche uno sfondo di curiosità sincero: «Nelle scuole teologiche del tempo ci si chiedeva [infatti] quale fosse il comandamento da porre in testa all’elenco.

Uno scriba pone la domanda a Gesù per metterlo alla prova; vuole cioè saggiare la capacità del nuovo maestro e conoscere la sua opinione su un dibattimento alla moda.

Gesù cita anzitutto due testi dell’Antico Testamento.

Un passo del Deuteronomio (6,4-8): “Ascolta Israele, Jahvè è il nostro Dio. Jahvè è uno solo. Ama Jahvè tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Le parole che oggi ti ordino siano nel tuo cuore. Le inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti trovi in casa, quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. Le legherai quale segno sulla tua mano, saranno come pendenti tra i tuoi occhi. Li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.

E un testo del Levitico (19,18): “Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo, ma ama il prossimo tuo come te stesso”.

I due passi erano al centro della spiritualità di Israele, soprattutto il primo, che veniva recitato mattina e sera, ricamato sulle maniche delle vesti, scritto sugli stipiti delle porte.

Ma pur citando nella sua risposta testi noti e preesistenti, Gesù si mostra – nei confronti delle opinioni correnti – nuovo e originale. Per lui il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non è semplicemente il comandamento da mettere in testa all’elenco, neppure soltanto il comandamento più importante: è il centro da cui tutto deriva [cui tutta la legge e i profeti sono sospesi dice il testo greco!], e che tutto informa e permea: ogni altra legge, se vuole presentarsi come volontà divina, deve essere espressione di questo duplice amore» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 20044, 282-283].


Ancora una volta, allora, Gesù, sottoposto ad una domanda-tranello dai suoi oppositori – domanda dalla quale avrebbe dovuto uscire screditato – assume l’interrogativo tendenzioso che gli viene proposto, ribaltandolo come un calzino… e smarcandosi dalla malizia di chi glielo propone!

Per loro infatti si tratta solo di un “assalto alla sua credibilità”: è un tentativo di “metterlo alla prova su un argomento alla moda”, sperando che risponda qualcosa che lo faccia entrare nella polemica con gli altri maestri… quindi che lo “tiri dentro” al mucchio e lo disperda tra i tanti! Dunque che annulli la sua pretesa di avere una parola inaudita…

Per lui invece la questione è serissima; le loro “chiacchiere leggere” sono occasione per porre una parola pesante: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Quindi: tutta la Legge e i profeti (cioè tutta la Parola di Dio nella/sulla storia) va “fatta dipendere da”, “è sospesa a”, “è appesa a”, “va intesa a partire da” la relazione d’amore con Dio e con il prossimo.

Questa è la “parola pesante” che Gesù pone e che fa ammutolire (come sempre più spesso accade) i suoi oppositori. Un silenzio sul quale poi Gesù porrà una contro domanda (vv. 41-45, che la liturgia non propone) che chiuderà la polemica verbale (per aprire poi quella omicida dell’arresto e della croce) perché: «Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo» (Mt 22,46).

A noi oggi, lontani da quel contesto di discussione mortale in cui Matteo inserisce le parole di Gesù, resta in mano soprattutto la domanda sul loro significato: Cosa intende dire/fare Gesù, appendendo la Legge e i profeti al duplice comandamento dell’amore a Dio e al prossimo?

Io credo istituire il criterio orientativo della vita: a noi continuamente incerti sui passi da porre, ad ogni livello, continuamente arrabattati nella ricerca di risposte, di certezze, di “manuali delle istruzioni” per questa vita che ci si propone sempre più come complessa… a noi continuamente preoccupati di far bene o almeno di cercare il modo per far bene e così frastornati dalle migliaia di chiacchiere su cosa sia questo “far bene”… a noi, il Signore sopraggiunge con una parola pesante: il criterio è l’amore.

È vero che ci sarebbe da discutere cosa si intende per amore, che spesso nel concreto chiamiamo amore qualcosa che invece che far bene all’altro, lo uccide, che ci sarebbe da pensare bene a cosa ciascuno di noi intende per “tenere insieme amore per Dio e per il prossimo”, ecc… ecc… ecc…

Sono tutti argomenti su cui ci sarebbe da pensare e da dire molto… e sui quali è bene che ciascuno pensi e dica molto…

Ma io credo che prima di tutto questo, il vangelo di oggi ci inviti a deciderci per un’opzione vitale per l’amore: un’opzione rispetto alla quale invece mi pare rischiamo sempre di stare un po’ come sulla soglia… autogiustificati da tante altre considerazioni di buon senso, di imprescindibile calcolo, di inevitabile equilibrismo tra le tante istanze della nostra vita… salvo poi ritrovarci smarriti nel moltiplicarsi delle considerazioni, dei calcoli e delle istanze, senza saperci più raccapezzare nell’individuazione di una via che orienti la sensatezza della nostra vita.

È la situazione in cui spesso mi ritrovo io… è la situazione in cui a volte mi pare di ritrovarmi con la gente con cui vivo… è la situazione in cui a volte mi pare annaspi la Chiesa e la società tutta…

Forse è allora il caso di ripartire da qui… da quello cui tutto il resto è appeso, che dunque sta o cade in base alla sua capacità di essere espressione d’amore.

venerdì 24 ottobre 2008

Il comandamento più grande… è lui!

Un comandamento a più voci
In genere si “comanda” solo ciò che altrimenti non si farebbe. Per esempio, non c’è una legge che ordina di respirare… Eppure, amare è importante, alla fine, come respirare. Solo che, nonostante sia il desiderio e il compito più grande dell’uomo, l’uomo, non lo sa fare di suo. Deve impararlo e ci impiega una vita, e se non gli riesce, spreca la vita! Ma, allora, delle innumerevoli prescrizioni, norme, leggi, comandamenti da osservare (613 secondo i farisei, tra grandi e piccoli), qual è il più “grande”? Gesù non ha dubbi e risponde legando indissolubilmente tra loro i due comandamenti più “grandi”, già contenuti nella Bibbia ( Dt 6,5 e Lv 19,18), frutto maturo e punto d’arrivo del lungo cammino di Israele. Li riporta alla loro intima dinamica, come proposta di unificazione della vita dell’uomo, partendo dal primo. Non solo meta della sua vita, ma sorgente e compiutezza, e il senso di tutta la sua umanità: dei suoi affetti e sentimenti, del suo capire e pensare, delle sue azioni e della sua gioia. “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te… Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica. … io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità” (Dt 30,11ss).
Il secondo comandamento è simile al primo, secondo Gesù, perché in questo l’uomo rispecchia e avvera la sua somiglianza con Dio, che l’ha creato ed amato per primo, rinnovando, con “il più vicino”, altro da lui, ciò che Dio “fa” con lui! Dio si ama (si impara ad amare) con la totalità del proprio essere, che entra tutta in movimento: cuore, anima, mente… La misura è dunque un’irraggiungibile totalità, perché Dio è senza misura! Ma anche l’uomo, che in questo gli somiglia, ha un desiderio di amore smisurato, e in questo si perde e annega e sembra uscire da sé, ma se ha il coraggio e la grazia di tuffarsi, ritrova se stesso, come raccontano i mistici e… come succede ai piccoli, che sono mistici senza saperlo!
… come te stesso! …il motore della propria irrepetibile originalità!
Nel secondo comandamento, dunque, la misura è diversa: ama il prossimo tuo come te stesso! Viene introdotto un terzo comandamento, che sembra rimanere in ombra, come fosse scontato. La nuova misura del tuo comportamento è tutto ciò che c’è dentro di te, come desiderio di bene, quello che tu vorresti come espansione del tuo benessere e fioritura della tua personalità. Tutto questo, che è spontaneo dentro di te, deve diventare la norma del tuo comportamento con il prossimo, dunque con chiunque a cui tu sei, o ti fai, vicino. L’insegnamento del nuovo Testamento è chiaro e insistente: “Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,14). “Non abbiate nessun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti…- qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso". (Rom 13,8ss). Infatti è questo “il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: amerai il prossimo tuo come te stesso” ( Gc 2,8)- Dunque, non si tratta soltanto di una norma in più, cioè un prezioso criterio globale del tuo sguardo e del tuo comportamento nei confronti dell’altro, per custodirlo e accudirlo secondo la misura e la qualità che tu desideri per te stesso. Ma fornisce un principio interiore dinamico, come una forza propulsiva che c’è già dentro di te, e deve orientarsi verso il fratello e la sorella (l’altro più vicino), senza più alcun limite o misura, se non il crescere di te stesso. Man mano, dunque, che tu prendi coscienza di te, patisci le tue esigenze e le tue tristezze, capisci l’attenzione e la tenerezza di cui avresti bisogno, man mano che si dilata il tuo cuore e ti si acuisce la sensibilità e la solitudine… cresce sempre più la capacità di fare bene a tuo fratello, di volere per lui ciò che senti premere sempre più dentro di te, in una dinamica senza arresto. Sempre più forte!... perché tocca la sorgente più intima della vita, dove lo spirito geme la voglia di amore che ci morde per tutta la vita e da cui siamo nati,. Che è l’inventività incoercibile dell’amore. Questo mio desiderio inventivo di bene per me è da assumere come spinta interiore dinamica, sfruttandone la creatività, sempre pronta a intuire e inventare nuove situazioni e impensati spazi di bene e di bello per me, e riversarla sull’altro! Non si tratta di donare o insegnare una cosa o un'altra… ma di investire la propria creatività inventiva, così inesauribile per noi stessi, in questa dedizione senza fine, che proprio perché esalta le potenzialità dell’amore, come voglia efficace di bene, è “il pieno compimento della legge”.

… ma non ne siamo capaci!
… a inoltrarsi un poco su questa strada, si fa in fretta a sperimentare che … l’amore proposto da Gesù, è umanamente impossibile, come fa rilevare lo stesso vangelo, nelle diverse frontiere dell’esistenza. Seguire Gesù a questo modo, nella disponibilità radicale dei beni di questo mondo (vendili e dalli ai poveri!...); nell’indissolubilità della promessa coniugale (ciò che Dio ha congiunto l’uomo non separi, se vuole uscire dalla durezza del cuore!); nella dedizione esaustiva fino al dono totale (il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita a liberazione di tutti…); nell’irreversibilità della sequela di lui (chi pone mano all’aratro e poi si volta indietro, non è degno di me…); nella precarietà di ogni umano riparo (il figlio dell’uomo non ha ove posare il capo…) … non siamo proprio capaci! Ed è giusto e comprensibile che cerchiamo di difendere questa “inattitudine” radicale con leggi e istituzioni, preghiere e devozioni, riti e paramenti… per renderla vivibile, quanto possibile… purché tutto ciò non diventi poi, come per i farisei, il discrimine per ritenersi giusti e giudicare gli altri… L’amore – il comandamento che è lo statuto costitutivo e costruttivo dell’uomo è sempre proporzionale alla libertà raggiunta, non alle pratiche espletate. Per questo si distingue per la benevolenza degli occhi e la mitezza del cuore… La legge o l’autorità, se non sono frutto dell’amore, sono invece inversamente proporzionali alla libertà, e contraddistinguono i loro cultori per l’atteggiamento giudicante e discriminate e quindi per l’aggressività verso… chi non li segue.
Questo discorso è duro…
ma bisogna riportarlo alla sua radicalità evangelica, perché il sale rimanga salato e non si appanni la luce del vangelo, senza la quale tutto si confonde nel grigio scuro dell’incertezza pendolare tra le due tentazione del cristiano di oggi (più che mai!): tornare indietro nelle sicurezze confortanti della legge e delle norme, delle prescrizioni e dei rituali, senza più ricordarsi che è per la durezza del nostro cuore che ne abbiamo bisogno, e che, da sole, non ci convertono, ma piuttosto giustificano le nostre discriminazioni., Ci esimono dal primato dell’amore, per insegnarci quando amare e quando no… quando l’altro è prossimo e quando no… e quando potremo chiudere la porta di casa, senza colpa (Gc 2,15)! Rifugiandosi in un’interiorità idolatrica, perché lì non si sente più il grido di quelli di fuori: del povero, dell’orfano e della vedova… o dello straniero, “che invocano il mio aiuto” – dice il Signore. Non si deve però neanche cadere, per disperazione, nell’altra tentazione: di sbattere la porta tentando di costruirsi, da soli, strade e case proprie, allontanandosi dall’ambiguità delle istituzioni, ma di fatto anche dai fratelli che pensano diverso. (Ancora una volta, è dunque la stessa tentazione mascherata!). Se non si mantengono in cuore, sotto lucida custodia, queste due eterne tentazioni, ci si abbandona alla logica cieca e tendenzialmente omicida del meccanismo immunitario, che elimina l’altro come un ostacolo alla propria salvezza.
Il comandamento più grande … è lui!
I due comandamenti vanno invece in senso contrario. Perciò nella prassi cristiana, sono invertiti o rimane solo il secondo. Ne è prova incontrovertibile la croce di Cristo, icona scandalosa della nuova gerarchia dei comandamenti: l’essenziale è non tradire mai l’amore, che nella storia non ha il volto di dio ma del fratello. Abita nei cocci di un’umanità infranta… vigliacchi, traditori, invidiosi, crudeli, come le folle, i discepoli, i capi… ognuno di noi! Alla fine rimane Gesù solo, ma lui sa che non siamo capaci di amare… anche se ne avremmo tanta voglia! Così inventa un nuovo criterio che va la di là della misura del secondo comandamento… Ad amare il prossimo “come sé stesso” è rimasto solo lui, inchiodato nudo tra due delinquenti! Adesso non ha più niente: ci regala il suo futuro, il paradiso – e il perdono del Padre! E in più, quando tutto è consumato, perché non avessimo ormai più fughe possibili, una nuova ultima correzione: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12).

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici (Gv 15,13)

Il Vangelo che la liturgia ci propone per questa trentesima domenica del tempo ordinario, propone nuovamente il tentativo di uno dei gruppi religiosamente più intransigenti di Israele, di mettere alla prova Gesù: dopo i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo che nel Tempio avevano messo in discussione la sua autorità (Mt 21, 23 ss) e dopo i sadducei che lo avevano interrogato sulla risurrezione dei morti a cui non credevano, ecco ritornare alla carica i farisei, già messi a tacere in occasione della discussione sul tributo a Cesare (Mt 22,15 ss), e che ora ripropongono capziosamente una nuova domanda: «Qual è il grande comandamento?».
La domanda non è neutrale, anzi, il Vangelo stesso sottolinea come essa sia stata fatta «per metterlo alla prova», eppure contiene anche uno sfondo di curiosità sincero: è come se questo dottore della Legge, trasgredendo del tutto la dinamica del Regno, invece di interrogare Gesù perché ha visto in lui qualcosa di promettente, lo interrogasse proprio per vedere se c’è almeno qualcosa di sensato in quest’uomo così strano...
È lo stesso meccanismo malato che già l’Antico Testamento metteva in luce, parlando di Israele nel deserto: l’uomo nella prova, non si fida di nessuno, tanto meno di Dio, e reagisce alla situazione mettendo tutto in discussione, mettendo alla prova ciò che lo circonda, Dio per primo. La prospettiva del Regno invece è contraria: è il dar credito a una promessa iscritta nella vita (presente o passata), per cui val la pena spendersi, comunque.
Ma tornando al Vangelo... Questo dottore della Legge dunque vuol sì mettere alla prova Gesù, ma non tanto o non solo per metterlo in difficoltà («per coglierlo in fallo», Mt 22,15), quanto forse più per vedere se ha veramente qualcosa di interessante da dire. Gli propone perciò una questione “alla moda” nelle scuole teologiche del tempo, cioè quale fosse il comandamento da porre in testa all’elenco.
Gesù, da buon ebreo, risponde citando due testi dell’Antico Testamento:
- Lo šema` Yisrä´ël di Dt 6,4-5, «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, con tutta la forza», che è uno dei testi fondamentali della spiritualità ebraica;
- e Lv 19,18: «Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo, ma ama il prossimo tuo come te stesso».
Conclude poi la sua risposta con un’espressione dalla portata straordinaria: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Quest’ultima affermazione infatti non è una semplice aggiunta incolore o addirittura tralasciabile: essa piuttosto dà il tono anche a quanto precede, chiarendo soprattutto e indiscutibilmente che, pur citando testi antichi, Gesù vuol dire qualcosa di nuovo e originale.
Dire infatti «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti», vuol dire cambiare, nella risposta, il senso della domanda che gli è stata posta. Lo scriba infatti gli chiedeva quale fosse il comandamento da mettere in cima alla lista dei vari precetti ebraici, ma la prospettiva di Gesù è un’altra: egli pone l’amore (per Dio e per il prossimo) fuori dalla lista degli obblighi e dei doveri dell’uomo religioso. Per Gesù siamo su un altro piano. L’amore infatti non può essere comandato; per definizione non può essere imposto! Esso è dunque di altra natura: non fa parte della lista; piuttosto le dà senso.
Detto altrimenti: con queste parole Gesù prende le distanze dal legalismo, da quella forma deviata della pratica religiosa che vincola la bontà o meno di una persona (e dunque della sua vita e dunque del suo destino post mortem) all’adempimento di precetti e all’assolvimento di regole, senza che l’interiorità si trasformi da cuore di pietra in cuore di carne («Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità», Mt 23,27-28).
È il pericolo più grande di qualsiasi forma religiosa (anche del cristianesimo), di qualsiasi tentativo cioè di regolare il rapporto uomo-Dio secondo parametri universalizzanti. Non che questo non vada fatto, in una certa misura è inevitabile (dovremo pur darci qualche regola: foss’anche solo il mettersi d’accordo per l’orario in cui trovarci per celebrare la messa), ma è un procedimento che va continuamente sottoposto a verifica critica: Gesù infatti è stato chiarissimo nel mostrare come questo sia il pericolo più grande per allontanare gli uomini da Dio. Fargli credere che il loro rapporto con Lui si possa liofilizzare in forme stereotipate, in itinerari spirituali, in precetti morali... Gesù invece ribadisce sempre come questo annichilimento della singolarità di ciascuno sia l’ostacolo più grande per un rapporto autentico col Signore. È ciascuno che il Signore vuole incontrare, per quello che è e là dove è: non quando tutti avranno finito il catechismo, si saranno confessati e saranno in stato di grazia! Tant’è che sono sue le parole «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), quasi che questi ultimi, privi di qualsiasi impalcatura legalistica (anzi, reietti dai ben pensanti) gli appaiano meno difesi di fronte al venire di Dio, meno “impalcaturati” e dunque più aperti.
Quanto è attuale anche nella nostra vecchia e stanca chiesa cattolica italiana questa presa di distanza di Gesù dal legalismo formale... Lo stesso che denuncia anche il cantautore Jovanotti, quando codice: «c'è qualcuno che va alla messa e si fa anche la comunione e poi se vede un marocchino per strada vorrebbe dargliele con un bastone».
Ma c’è un secondo aspetto di novità che Gesù mette in campo, pur rispondendo semplicemente citando testi dell’Antico Testamento: a ben guardare infatti, mentre il Levitico (al capitolo 19) identifica il prossimo con «i figli del tuo popolo», Gesù, nel Vangelo, pronuncia solo la seconda parte del versetto 18, «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Universalizza cioè il concetto di prossimo! Prossimo non è solo il correligionario, quello della nostra razza o quello del nostro partito; non è solo il nostro connazionale, o il nostro familiare o amico; non è neppure quello che semplicemente la pensa come noi o a cui vogliamo bene... prossimo è chiunque per Gesù... non nel senso scialbo e inverosimile del cattolicissimo “amare tutti”, che troppo spesso equivale ad amare nessuno; ma in quello di Lc 10,29-37, dove a un dottore della Legge che gli chiedeva «Chi è il mio prossimo?», Gesù, dopo avergli raccontato la parabola del buon samaritano, chiede, ribaltando il problema: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Mio prossimo allora è chiunque perché io sono chiamato a farmi prossimo di tutti!
E anche questo quanto è attuale nella cattolicissima Italia, che da qualche mese si è svegliata razzista?
Ma ancora non è tutto... C’è un ultima novità che Gesù mette in campo nella sua risposta sul grande comandamento: il fatto che tenga insieme come in un’incandescente polarità indivisibile l’amore per Dio e l’amore per il prossimo.
Egli prende cioè le distanze tanto da un sempre serpeggiante spiritualismo gnostico, quanto da un altrettanto alienante pragmatismo efficentista.
Cosa vuol dire tutto ciò? Che se per Dio ci si dimentica l’uomo (spiritualismo gnostico), si svaluta la carne, si disprezza il mondo e ci si estranea dalla storia, beh, quel dio, non è il Dio di Gesù. È lui infatti che ammonisce in Mt 7,21, che «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli»; ed è uno dei suoi a ribadire ancora più radicalmente che «Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».
Ma è vero anche il contrario: chi si dimentica di Dio per l’uomo (pragmatismo efficentista), chi crede che sia sufficiente riempire le pance per fare di un uomo un Uomo o chi pensa che è con lo sforzo volontaristico che si costruiscono le coscienze, beh, ha in mente un uomo, che non è l’Uomo Gesù... Non è l’efficienza a misurare la qualità di una vita: Gesù non ha guarito tutti gli storpi del suo tempo, non ha risuscitato tutti i morti, non si è fatto accarezzare da tutte le donne. Mc 1,34-38 in questo senso è chiarissimo: «Egli guarì molti malati di varie malattie e scacciò molti demòni, ma non permetteva che i demòni parlassero, perché lo conoscevano bene. La mattina dopo, molto presto, alzatosi uscì e si ritirò in un luogo solitario, ove rimase a pregare. Allora Simone con i suoi compagni si mise a cercarlo; e, avendolo trovato, gli dicono: “Tutti ti cercano!”. Dice loro: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, per predicare anche là. Per questo, infatti, sono uscito”». Sta altrove dunque la “misura” dell’Uomo.
Forse proprio nel senso di questo tenere insieme questi due poli dell’amore umano: quello a Dio e quello all’uomo.
Ma cosa vuol dire tenerli uniti?!? Pensare un po’ a Dio e fare ogni tanto l’elemosina che mette apposto la coscienza?
No di certo!
Forse si tratta semplicemente di ricordarsi una verità elementare: che il cuore dell’uomo non è fatto a cassetti; non è che in uno scompartimento c’ho la scorta dell’amore di Dio e nell’altro quello al prossimo. Il cuore amante dell’uomo è uno, lì rifluisce tutta la sua capacità di amare, la sua passione, la sua incondizionatezza, la sua tenerezza; ma anche la sua vigliaccheria, il suo risparmiarsi, il suo tradire... sia Dio che l’uomo!
Ma proprio questa unità del cuore è la possibilità per l’uomo di dire la sua identità: dimmi come ami e ti dirò chi sei...
Lì infatti è iscritta la “misura” dell’uomo. Un uomo è un Uomo quando ama. E amare, com’è ovvio, non è un generico senso di benevolenza o di attrazione, ma è «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), siano essi uomini o persone divine.
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