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venerdì 24 ottobre 2008

Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici (Gv 15,13)

Il Vangelo che la liturgia ci propone per questa trentesima domenica del tempo ordinario, propone nuovamente il tentativo di uno dei gruppi religiosamente più intransigenti di Israele, di mettere alla prova Gesù: dopo i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo che nel Tempio avevano messo in discussione la sua autorità (Mt 21, 23 ss) e dopo i sadducei che lo avevano interrogato sulla risurrezione dei morti a cui non credevano, ecco ritornare alla carica i farisei, già messi a tacere in occasione della discussione sul tributo a Cesare (Mt 22,15 ss), e che ora ripropongono capziosamente una nuova domanda: «Qual è il grande comandamento?».
La domanda non è neutrale, anzi, il Vangelo stesso sottolinea come essa sia stata fatta «per metterlo alla prova», eppure contiene anche uno sfondo di curiosità sincero: è come se questo dottore della Legge, trasgredendo del tutto la dinamica del Regno, invece di interrogare Gesù perché ha visto in lui qualcosa di promettente, lo interrogasse proprio per vedere se c’è almeno qualcosa di sensato in quest’uomo così strano...
È lo stesso meccanismo malato che già l’Antico Testamento metteva in luce, parlando di Israele nel deserto: l’uomo nella prova, non si fida di nessuno, tanto meno di Dio, e reagisce alla situazione mettendo tutto in discussione, mettendo alla prova ciò che lo circonda, Dio per primo. La prospettiva del Regno invece è contraria: è il dar credito a una promessa iscritta nella vita (presente o passata), per cui val la pena spendersi, comunque.
Ma tornando al Vangelo... Questo dottore della Legge dunque vuol sì mettere alla prova Gesù, ma non tanto o non solo per metterlo in difficoltà («per coglierlo in fallo», Mt 22,15), quanto forse più per vedere se ha veramente qualcosa di interessante da dire. Gli propone perciò una questione “alla moda” nelle scuole teologiche del tempo, cioè quale fosse il comandamento da porre in testa all’elenco.
Gesù, da buon ebreo, risponde citando due testi dell’Antico Testamento:
- Lo šema` Yisrä´ël di Dt 6,4-5, «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, con tutta la forza», che è uno dei testi fondamentali della spiritualità ebraica;
- e Lv 19,18: «Non vendicarti e non serbare rancore verso i figli del tuo popolo, ma ama il prossimo tuo come te stesso».
Conclude poi la sua risposta con un’espressione dalla portata straordinaria: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Quest’ultima affermazione infatti non è una semplice aggiunta incolore o addirittura tralasciabile: essa piuttosto dà il tono anche a quanto precede, chiarendo soprattutto e indiscutibilmente che, pur citando testi antichi, Gesù vuol dire qualcosa di nuovo e originale.
Dire infatti «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti», vuol dire cambiare, nella risposta, il senso della domanda che gli è stata posta. Lo scriba infatti gli chiedeva quale fosse il comandamento da mettere in cima alla lista dei vari precetti ebraici, ma la prospettiva di Gesù è un’altra: egli pone l’amore (per Dio e per il prossimo) fuori dalla lista degli obblighi e dei doveri dell’uomo religioso. Per Gesù siamo su un altro piano. L’amore infatti non può essere comandato; per definizione non può essere imposto! Esso è dunque di altra natura: non fa parte della lista; piuttosto le dà senso.
Detto altrimenti: con queste parole Gesù prende le distanze dal legalismo, da quella forma deviata della pratica religiosa che vincola la bontà o meno di una persona (e dunque della sua vita e dunque del suo destino post mortem) all’adempimento di precetti e all’assolvimento di regole, senza che l’interiorità si trasformi da cuore di pietra in cuore di carne («Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità», Mt 23,27-28).
È il pericolo più grande di qualsiasi forma religiosa (anche del cristianesimo), di qualsiasi tentativo cioè di regolare il rapporto uomo-Dio secondo parametri universalizzanti. Non che questo non vada fatto, in una certa misura è inevitabile (dovremo pur darci qualche regola: foss’anche solo il mettersi d’accordo per l’orario in cui trovarci per celebrare la messa), ma è un procedimento che va continuamente sottoposto a verifica critica: Gesù infatti è stato chiarissimo nel mostrare come questo sia il pericolo più grande per allontanare gli uomini da Dio. Fargli credere che il loro rapporto con Lui si possa liofilizzare in forme stereotipate, in itinerari spirituali, in precetti morali... Gesù invece ribadisce sempre come questo annichilimento della singolarità di ciascuno sia l’ostacolo più grande per un rapporto autentico col Signore. È ciascuno che il Signore vuole incontrare, per quello che è e là dove è: non quando tutti avranno finito il catechismo, si saranno confessati e saranno in stato di grazia! Tant’è che sono sue le parole «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), quasi che questi ultimi, privi di qualsiasi impalcatura legalistica (anzi, reietti dai ben pensanti) gli appaiano meno difesi di fronte al venire di Dio, meno “impalcaturati” e dunque più aperti.
Quanto è attuale anche nella nostra vecchia e stanca chiesa cattolica italiana questa presa di distanza di Gesù dal legalismo formale... Lo stesso che denuncia anche il cantautore Jovanotti, quando codice: «c'è qualcuno che va alla messa e si fa anche la comunione e poi se vede un marocchino per strada vorrebbe dargliele con un bastone».
Ma c’è un secondo aspetto di novità che Gesù mette in campo, pur rispondendo semplicemente citando testi dell’Antico Testamento: a ben guardare infatti, mentre il Levitico (al capitolo 19) identifica il prossimo con «i figli del tuo popolo», Gesù, nel Vangelo, pronuncia solo la seconda parte del versetto 18, «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Universalizza cioè il concetto di prossimo! Prossimo non è solo il correligionario, quello della nostra razza o quello del nostro partito; non è solo il nostro connazionale, o il nostro familiare o amico; non è neppure quello che semplicemente la pensa come noi o a cui vogliamo bene... prossimo è chiunque per Gesù... non nel senso scialbo e inverosimile del cattolicissimo “amare tutti”, che troppo spesso equivale ad amare nessuno; ma in quello di Lc 10,29-37, dove a un dottore della Legge che gli chiedeva «Chi è il mio prossimo?», Gesù, dopo avergli raccontato la parabola del buon samaritano, chiede, ribaltando il problema: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti?».
Mio prossimo allora è chiunque perché io sono chiamato a farmi prossimo di tutti!
E anche questo quanto è attuale nella cattolicissima Italia, che da qualche mese si è svegliata razzista?
Ma ancora non è tutto... C’è un ultima novità che Gesù mette in campo nella sua risposta sul grande comandamento: il fatto che tenga insieme come in un’incandescente polarità indivisibile l’amore per Dio e l’amore per il prossimo.
Egli prende cioè le distanze tanto da un sempre serpeggiante spiritualismo gnostico, quanto da un altrettanto alienante pragmatismo efficentista.
Cosa vuol dire tutto ciò? Che se per Dio ci si dimentica l’uomo (spiritualismo gnostico), si svaluta la carne, si disprezza il mondo e ci si estranea dalla storia, beh, quel dio, non è il Dio di Gesù. È lui infatti che ammonisce in Mt 7,21, che «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore", entrerà nel regno dei cieli»; ed è uno dei suoi a ribadire ancora più radicalmente che «Se uno dice: “Io amo Dio” e poi odia il proprio fratello, è mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».
Ma è vero anche il contrario: chi si dimentica di Dio per l’uomo (pragmatismo efficentista), chi crede che sia sufficiente riempire le pance per fare di un uomo un Uomo o chi pensa che è con lo sforzo volontaristico che si costruiscono le coscienze, beh, ha in mente un uomo, che non è l’Uomo Gesù... Non è l’efficienza a misurare la qualità di una vita: Gesù non ha guarito tutti gli storpi del suo tempo, non ha risuscitato tutti i morti, non si è fatto accarezzare da tutte le donne. Mc 1,34-38 in questo senso è chiarissimo: «Egli guarì molti malati di varie malattie e scacciò molti demòni, ma non permetteva che i demòni parlassero, perché lo conoscevano bene. La mattina dopo, molto presto, alzatosi uscì e si ritirò in un luogo solitario, ove rimase a pregare. Allora Simone con i suoi compagni si mise a cercarlo; e, avendolo trovato, gli dicono: “Tutti ti cercano!”. Dice loro: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, per predicare anche là. Per questo, infatti, sono uscito”». Sta altrove dunque la “misura” dell’Uomo.
Forse proprio nel senso di questo tenere insieme questi due poli dell’amore umano: quello a Dio e quello all’uomo.
Ma cosa vuol dire tenerli uniti?!? Pensare un po’ a Dio e fare ogni tanto l’elemosina che mette apposto la coscienza?
No di certo!
Forse si tratta semplicemente di ricordarsi una verità elementare: che il cuore dell’uomo non è fatto a cassetti; non è che in uno scompartimento c’ho la scorta dell’amore di Dio e nell’altro quello al prossimo. Il cuore amante dell’uomo è uno, lì rifluisce tutta la sua capacità di amare, la sua passione, la sua incondizionatezza, la sua tenerezza; ma anche la sua vigliaccheria, il suo risparmiarsi, il suo tradire... sia Dio che l’uomo!
Ma proprio questa unità del cuore è la possibilità per l’uomo di dire la sua identità: dimmi come ami e ti dirò chi sei...
Lì infatti è iscritta la “misura” dell’uomo. Un uomo è un Uomo quando ama. E amare, com’è ovvio, non è un generico senso di benevolenza o di attrazione, ma è «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13), siano essi uomini o persone divine.

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