In quella che sarebbe la trentesima domenica del tempo ordinario, quest’anno cade la commemorazione dei defunti. La Chiesa ritiene questa celebrazione tanto importante da farla “prevalere” sulla liturgia della domenica. Ironicamente verrebbe da dire: Come?!? Vince la morte sulla risurrezione?!? Ovviamente no, anzi... Le letture che ci vengono proposte dicono tutt’altro...
Si parte con il capitolo 19 di Giobbe, adatto alla situazione – verrebbe da dire – dato il suo essere uno di quei testi biblici che forse più di tutti esprime il dramma della sofferenza umana; vi si leggono infatti affermazioni quali: «Sappiate che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete. Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia! Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre [...]. Mi ha disfatto da ogni parte e io sparisco, mi ha strappato, come un albero, la speranza».
Testo adatto alla situazione, si diceva: in effetti, quale situazione più del mistero della morte getta l’uomo nell’angoscia, nel tormento, nello strazio? Quale situazione più della morte ci imprigiona nella sua rete, ci fa esclamare “non c’è giustizia”, ci sbarra la strada, distende su di noi le tenebre, ci fa sentire disfatti, spariti? Quale situazione più della morte ci strappa la speranza?
E infatti, è il fatto di sapere, ad ogni passo, che la morte da qualche parte ci aspetta, che ci toglie il fiato; è il terrore di pensarci destinati al niente, che ci agghiaccia; è il freddo eterno di sapersi dimenticati, che ci annienta...
È questo che fa della morte, non uno dei problemi dell’uomo, ma il problema, perché non si tratta tanto di dover morire, quanto di restare morti...
E Giobbe riesce a dire fin troppo bene lo strazio di questa vita, il tormento di chi si chiede se, in fin dei conti, ci sia davvero un senso, se ne valga veramente la pena, o se invece, semplicemente – come dice il Salmo 90, al versetto 10 – «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo».
In più questo personaggio – a differenza di quanto sostengono i suoi “amici”, che alla sua richiesta «Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici, perché la mano di Dio mi ha percosso! Perché vi accanite contro di me, come Dio, e non siete mai sazi di carne?», rispondono «Come lo perseguitiamo noi, se la radice del suo danno è in lui?» - non può essere liquidato annoverandolo tra la massa dei recriminatori cronici... anzi, è uno di quegli uomini che possono permettersi di protestare, anche contro Dio: nella finzione del racconto infatti ha perso figli e figlie e ha contratto «una piaga maligna dalla pianta dei piedi alla cima del capo».
La questione è dunque seria... si tratta di un uomo toccato a morte nell’anelito vitale che lo anima, senza che per questo ci siano motivi o colpe, né espliciti né nascosti... è la cieca perfidia del destino – direbbe qualcuno – quella stessa che anche oggi, e sempre per tutta la storia dell’umanità, ha colpito e continua a colpire uomini e donne, madri e padri, figli e figlie...
Eppure... il percorso di Giobbe non si arresta qui, alla disperazione senza senso. Gli rimane una sola, ma incrollabile, certezza: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!».
Quest’affermazione non va fraintesa: tutto il libro di Giobbe infatti si articola nella sua requisitoria contro Dio, a cui egli imputa di non essere giusto, di non rispettare il canone della giustizia retributiva, per cui ai buoni accadono cose buone e ai cattivi cose cattive. Giobbe è sicuro di non aver fatto nulla per meritarsi le sue disgrazie; è disposto anche ad ammettere di non essere ineccepibile, ma di sicuro, niente di ciò che può aver fatto, è comparabile al contraccambio che gli ha riservato Dio. Velatamente quindi (ma neanche troppo), l’accusa che l’autore di questo libro porta avanti è a una falsa immagine di Dio, a una falsa immagine della sua giustizia, a una falsa immagine della sua responsabilità nelle cause seconde... Il contraltare infatti è rappresentato da questi “amici” che a turno entrano nella discussione e che vorrebbero essere i difensori di dio... di quel dio che però Giobbe non riconosce più come dio.
Ma allora chi è il redentore a cui fa appello nel versetto 25?
È Dio, quello vero!
Questa è l’incrollabile certezza di Giobbe: che il dio della giustizia retributiva, il dio che entra a manovrare la storia dell’umanità, il dio che bisogna ingraziarsi per placarne l’ira, non è il Dio di Israele! Egli è Altro rispetto a queste spiegazioni troppo umane... è il redentore, che avrà l’ultima parola (ultimo, si ergerà sulla polvere).
Giobbe però non riesce fino in fondo a connotare questo vero volto di Dio, a trovare una risposta convincente al problema del male e del morire. Anche il finale del libro, lascia un po’ con la sensazione che ci deve essere di più...
Eppure già in questa sua incrollabile certezza, si può intravedere come in un germoglio, quello che Gesù rivelerà in pienezza: l’inaudita identità di Dio Padre, la cui volontà è che «chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna».
Va subito specificato che questo versetto 40, appena citato, del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, può correre il rischio di essere frainteso... prima di ogni altra riflessione vanno dunque poste due precisazioni, due cattive interpretazioni che vanno evitate:
- la prima è quella che riduce quel «chiunque vede il Figlio e crede in lui» ai cristiani cattolici battezzati, cresimati e comunionati... Quasi che la volontà di Dio sia circoscrivibile ai nostri confini ecclesiali. È vero che ci sono stati periodi storici in cui la posizione della chiesa è sembrata coincidere con questa riduzione, ma va detto che mai è venuto totalmente meno il riconoscimento della libertà di Dio e della sua assoluta possibilità di percorrere altre vie per conquistarsi il cuore dell’uomo;
- la seconda, che quel «abbia la vita eterna», sia immediatamente ricondotto alla vita dopo la morte.
Se fosse vera questa prospettiva, dovremmo dire che la risposta di Gesù a Giobbe, sarebbe quella martiristica – purtroppo spesso in circolazione negli ambienti cattolici – per cui: la vita nell’aldiqua è tutta sofferenza e dolore, per poi però avere una ricompensa nell’aldilà...
È la risposta, che al dramma della sofferenza e della morte, suona come la classica e fastidiosa mano sulla spalla di chi non sa che dire, perché sceglie di non attraversare la drammaticità del problema e quindi al massimo si accontenta di accennare un poco convincente “Vedrai che poi passa”, “Il tempo cura tutti i mali”, “Il Signore scrive dritto anche sulle nostre linee storte”, e via discorrendo... Senza accorgersi che il problema per chi soffre (e dunque per ogni uomo, se non altro perché destinato alla morte) è “Chi sono io di fronte a questa cosa?”, “Che ne sarà di me?”...
La risposta di Gesù invece pare proprio avere la pretesa di arrivare al nucleo incandescente della drammatica mortale dell’uomo. Egli non ha paura di confrontarsi con l’uomo; non ha paura di risultargli – nelle sue risposte – estraneo (come una pacca sulla spalla); non ha paura di non essere all’altezza della profondità della cosa (sa di essere «colui che viene da Dio e ha visto il Padre», la vera identità di Dio così difforme da tutto ciò che l’immaginario umano ha prodotto...); non ha paura neanche di non essere convincente: parla agli uomini da uomo; parla di morte da crocifisso; parla di Vita, da risorto!
Ecco perché ciò che dice risulta credibile: perché la sua vita lo è stata... tanto che un ateo anarchico come De Andrè arriva a dire: «sovrumano è pur sempre l’amore, di chi rantola senza rancore», dove quel sovrumano non vuol dire solo eccezionale, ma divino.
Se Gesù fosse stato uno dei tanti santoni che ogni tanto compaiono sulla scena della storia a proclamare che la morte non è la parola definitiva sull’uomo, tutti avrebbero ritenuto che volesse semplicemente vendere un “buon prodotto”, un’illusione che andava incontro alla paura di morire dell’uomo...
Lui invece ha dalla sua il fatto di avere una credibilità data dalla vita storica che ha vissuto... Acconsentire a questa credibilità è la fede! Dare cioè ragione a quell’uomo (che era anche il Figlio di Dio) che ci ha fatto vedere che la faccia di Dio non è quella così banale e così troppo umana del giudice col bilancino che castiga e premia; e non è neanche quella che inspiegabilmente riduce a non-vita l’aldiqua per approdare alla Vita nell’aldilà... La vera identità di Dio – in Gesù – è quella di chi tiene in mano la vita dei suoi figli; non nel senso che la dirige (Dio non tocca le cause seconde, ma solo l’intimità del cuore umano), ma che le custodisce («questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quanti egli mi ha dato»). Custodisce appunto l’intimità di ognuno, l’identità personalissima di tutti, anche di chi – colpevolmente – la smarrisce («Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»): un’intimità e un’identità che hanno luogo nell’aldiqua! Nascono infatti e si sviluppano nella trama relazionale che sperimentano nella storia... perché cosa può esserci di eterno di mio nell’aldilà, se non quello che vivo, patisco e amo nell’aldiqua?!?
E allora la festa dei morti, diventa davvero la festa della Vita... dell’eternizzazione di quella vita che nell’aldiqua, per ogni uomo e donna che è passato per la storia, ha acquistato uno spessore che Dio non ha lasciato si disperdesse nel nulla!
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