Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

domenica 16 marzo 2008

Non solo Cina: il Tibet siamo noi!

Pubblico per intero un articolo di LaStampa.it apparso in rete oggi. Ritengo utile aggiungere, per chi comprende il francese (in attesa che qualche volontario possa tradurlo) l'intervento del ministro degli esteri francese citato nell'articolo. Per riflettere e capire il senso profondo nell'"oggi", del periodo liturgico che stiamo vivendo. Le sottolineature sono mie.


"Disfatta morale" di Barbara Spinelli
"La Stampa" 16/3/2008

Cinque anni di guerra in Iraq e una guerra afghana che nessuno osa riesaminare hanno cambiato il mondo radicalmente, danneggiando in misura non ancora calcolabile la sicurezza, la forza d'attrazione, la robustezza economica, infine la potenza morale dell'Occidente. Non siamo solo alle prese con la «fine della magia americana», descritta dal ministro francese Kouchner in una conferenza parigina dell'11 marzo. La magia che aveva sedotto lui e molti europei - a cominciare da Berlusconi nel 2001-2006 - ha avuto e continua ad avere effetti durevoli, che non scompaiono con l'evaporare dell'incanto e sui quali gli ex ammaliati tacciono, come ignorassero che questo tacere è un ennesimo, scandaloso peccato di omissione. Ovunque sulla Terra, la politica neo-conservatrice ha alimentato un sospetto deleterio: che qualsiasi nazione toccata dall'Occidente diventi fatalmente uno Stato fallimentare. Che la democrazia sia qualcosa di malato, di temibile. Che libertà, laicità, pluralismo siano da posporre, sempre, ai ben più essenziali imperativi di sicurezza. Quel che accade in Tibet negli ultimi giorni non è disgiunto dalla magia infranta: ne è il lascito, catastrofico. La carneficina di monaci buddisti a Lhasa (i tibetani in esilio parlano di 100 uccisi) è responsabilità cinese ma è stata facilitata da America ed Europa, che non a caso reagiscono con voce pallida, e sguardo cieco. Quel che essi non hanno visto è la lezione che gran parte degli Stati ha tratto dalla politica di Bush. Una lezione che possiamo riassumere così: per meglio difendersi dalle insipienze Usa, gli Stati hanno tutto l'interesse a presentarsi come Leviatani aggressivi, chiusi in sovranità assolute. Sovranità generalmente ingannevoli (tutti siamo immersi nell'economia-mondo), ma anche l'inganno è effetto delle guerre antiterroriste: dalle menzogne non si esce che con altre menzogne. I grandi profittatori dei conflitti odierni non sono solo i produttori petroliferi e le compagnie fornitrici di soldati che hanno contribuito a privatizzare le guerre. Tutti gli Stati che scelgono la forza - Cina, autocrati arabi o asiatici - sanno che la strategia Usa, al momento, non produce che failed states, incapaci di monopolizzare violenza e territori. Che l'America esca spezzata da tale esperienza è tragicamente confermato dalle stragi cinesi, dalla forza con cui i conservatori islamisti si presentano al voto iraniano. Basta guardare alla stupefacente coincidenza dei giorni. L'insurrezione tibetana comincia lunedì 10 marzo: da tempo ardeva nell'ombra. Nonostante questo il Dipartimento di Stato esce poche ore dopo, l'11 marzo, con un rapporto sui diritti umani che denuncia le lentezze della Cina ma la cancella dalla lista dei trasgressori. Le timide reazioni americane ed europee alle stragi tibetane testimoniano molto più di un'incongruenza: testimoniamo una rotta morale dell'Occidente. Una potenza imperiale che pretende fondarsi sulla democrazia non può ignorare gli effetti morali di quel che fa: è suo tratto distintivo, e proprio questo tratto è andato svanendo. La guerra in Iraq fu iniziata per mostrare la superiorità delle istituzioni libere - la democrazia avrebbe generato Stati stabili, plurali - ed è avvenuto il contrario. Dopo l'aumento di truppe deciso da Bush, i soldati Usa sono più sicuri ma la violenza resta. Non ce ne accorgiamo più, perché non apparendo in video sembra inesistente. Il premio Nobel Joseph Stiglitz ricorda nel suo ultimo libro che le tv accendono i riflettori solo quando gli attentati fanno più di 25 morti (The Three Trillion Dollar War, Norton 2008). Né sembra accorgersene il candidato repubblicano alla successione di Bush: pur di persuadere i neo-conservatori, McCain annuncia: «Se riusciamo a ridurre i nostri morti possiamo restare anche cento anni in Iraq. A me va benissimo». Né l'Iraq è divenuto più vivibile, con poche ore di elettricità al giorno e quasi 5 milioni di sfollati (2,5 dentro e 2 fuori, in Siria e Giordania). Ecco il cataclisma occultato per anni dalle bende della magia: l'America voleva esportare democrazia, e ha esportato invece insicurezza, violenza, immoralità. La sua posizione è talmente indebolita che non può reagire agli eventi cinesi. Anche per questo fanno tanta impressione i dibattiti elettorali italiani: un ex ministro del campo berlusconiano consiglia addirittura di tornare in Iraq, quasi non sapesse com'è diventato il paese nel quinto anniversario della guerra. Il cataclisma morale non viene fabbricato solo col cinismo, con la spudorata violenza di politiche avventate. Lo si fabbrica anche con questo non-sapere, quest'ignoranza singolarmente militante. È incompetenza tecnica, politica, militare. È l'ignoranza che nel vecchio dizionario Tommaseo viene distinta dall'inscienza: quest'ultima è di uomini che non sanno quello che fanno, mentre la prima è ignoranza colpevole, ignora quello che saremmo tenuti a sapere, è «crassa, rozza, indolente, superba». Fu ignoranza superba lanciare guerre senza conoscere i paesi occupati. È ignoranza superba la politica verso la Cina. Nell'amministrazione Usa, un gruppetto di finti esperti ha giocato col mappamondo alla maniera di Chaplin-Hitler nel Grande dittatore. Sarebbe bastato uno sguardo in terra per vedere che la violenza cinese si sarebbe abbattuta sul Tibet, incoraggiata dal rapporto pronto al Dipartimento di Stato da mesi. L'idea di Bush era semplice, dopo gli attentati del 2001: si trattava d'inventare una politica assolutamente nuova. Interessi e valori avrebbero coinciso, come nei sogni o nelle magie. Clinton stesso in fondo aveva provato, in Kosovo: con un certo successo, anche se contaminato dal veleno dei nazionalismi etnici. Ma l'Iraq non era il Kosovo, la Freedom Agenda dei neo-conservatori concerneva il pianeta e non una minuscola provincia. L'ultimo rapporto della Fondazione Carnegie (Nuovo Medio Oriente, 2008) sostiene che la Freedom Agenda è stata un totale fallimento: ha rafforzato l'Iran, regalandogli un Iraq turbolento ma ideologicamente fedele. Ha incoronato Ahmadinejad. Raccomandando infine una democrazia numerica (conta chi raccoglie maggioranze e non l'imperio della legge né l'equilibrio tra poteri, ambedue anteriori alla democrazia), ha aiutato non i pochi laici ma gli islamisti, ovunque e soprattutto in Palestina. A ciò si sono aggiunte condotte statunitensi accettate da parecchi governi dell'Unione Europea: le torture a Abu Ghraib, il trasferimento di prigionieri in centri di tortura europei oltre che arabi. Come dice l'ammiraglio William Fallon, appena dimesso dal Comando centrale Usa, ha prevalso la peggiore delle strategie: «l'imprevedibilità con gli alleati, la prevedibilità con gli avversari». Uscire da simili disfatte è difficile. McCain e Hillary Clinton quasi sembrano non scorgerne la natura. La scorge meglio Obama, forse perché conosce le diversità del mondo: soprattutto quando critica una politica filo-israeliana «schiacciata sul Likud». O lamenta il deteriorarsi mondiale dell'immagine Usa: «Per colpire pochi fondamentalisti (al massimo 50.000)», ha detto in un incontro con le comunità ebraiche a Cleveland, il 24 febbraio, «abbiamo provocato un disastro, trascurando 1,3 miliardi di musulmani». La questione morale è al centro. Accanto al disastro economico-strategico della guerra irachena (Stiglitz indica un costo di 3000 miliardi di dollari, pagato solo col deficit), c'è questo disastro etico: non meno esiziale. Un'etica che fallisce così miseramente è terribilmente simile al comunismo - e non sorprende che fra i neo-con ci siano tanti eredi del '68 marxista-cinese. Alla fonte l'ideale comunista è buono, ma i risultati sono tali che etica e ideale ne escono lordati irrimediabilmente. Lo stesso accade per le guerre etiche, così come son state imposte dagli esorcisti neo-con d'America ed Europa.
_________________________________

Je suis très heureux d'être devant vous, non pas pour répondre au nom d'une nouvelle diplomatie, mais pour considérer le nouveau monde.
Je vous dirais très simplement que si j'ai pu participer d'un mouvement de ce nouveau monde, c'était avant d'être ministre.
Devenant ministre des Affaires étrangères de la France, on devient beaucoup plus conforme et même parfois conformiste. Je suis très heureux que vous vous aperceviez, maintenant, de la nécessité d'une nouvelle diplomatie. Nous allons en parler, ce n'est pas une affaire facile.
D'abord, je voudrais dire très généralement que nous avons l'habitude de nous lamenter sur l'état du monde. J'ai vu que Madeleine Albright disait : "je suis une spécialiste de l'observation de la vie internationale et je n'avais jamais vu tant de difficultés". Ce n'est pas vrai : il n'y a pas plus de difficultés maintenant, il y a plus de communication.
Il y a beaucoup plus d'intérêt pour les problèmes et il y a un mouvement du monde qui s'appelle la globalisation. Mais il n'y a pas plus de problèmes, il y a peu de mémoire.
Il y a vingt ans, l'Amérique latine était un continent de dictatures. Ce n'est plus tout à fait vrai maintenant. Je sais qu'il y a un certain nombre de contestations autour de M. Chavez, on peut en parler.
Il y a presque 35 ans, puisque c'était l'époque où nous avons fondé "Médecins Sans Frontières" - c'était en 1971 - dans les années 1970 et 1980, il y avait beaucoup plus de conflits et de guerres qu'il n'y en a à présent. Personne ne s'y intéressait, personne n'en tenait compte, ou très peu de gens.
Il était normal de se considérer dans un monde difficile, dangereux, en guerre. Maintenant, il y en a beaucoup moins. Je ne dis pas que ces conflits n'ont pas d'importance ; ils sont peut-être même beaucoup plus difficiles à comprendre ; ils sont plus difficiles à apaiser peut-être. Il y a le retour du nationalisme, un retour de la violence. Mais il y en a d'autres qui avancent. Madeleine Albright devrait considérer qu'il y a sans doute aussi une attention plus grande pour un monde en développement qui n'existait pas. On ne parlait sans doute pas autant de bonne gouvernance s'agissant des pays en développement. C'est difficile de parler de bonne gouvernance en général. Bien sûr, il y a des tas de problèmes de mauvaise gouvernance, chez nous aussi. Peut-être moins, certes, pas les mêmes peut-être, mais il y a des problèmes partout parce qu'il y a un monde nouveau.
Ce qui le caractérise, c'est la concurrence. C'est le fait que l'économie de marché, comme l'on dit, qui était censée régler tous les problèmes, ne les règlent pas tous. Elle les accentue, elle les exacerbe. Mais finalement, une direction est donnée, une direction très importante qui fait que nous sommes en concurrence avec des personnes qui sont payées moins cher, qui ont autant d'invention, autant d'énergie, autant de force de travail et qui sont concurrents avec les pays développés.
Cela, c'est la globalisation. Et la grande difficulté, c'est d'accepter cela nous-mêmes. La grande difficulté, c'est d'accepter ce nouveau monde alors que pour les pays en mouvement, pour les pays en marche, pour ceux qui font des efforts terribles pour parvenir à élever ce fameux niveau de vie dont nous nous plaignons ici et qui, c'est vrai, n'est plus le même qu'avant, qui en effet accentue les difficultés des uns et des autres dans les pays développés, le monde en développement qui ne se plaint pas, il est tout au contraire extrêmement dynamique.
Le vrai problème est d'expliquer cela aux gens riches. Allez leur expliquer que la richesse est très mal répartie dans nos pays, entre ceux qui gagnent beaucoup d'argent, de plus en plus d'argent et les personnes qui sont dans une difficulté quotidienne et qui pensaient vivre dans des pays où l'avenir était assuré, ce qui n'est plus très vrai. Il faut leur faire comprendre que nous avons encore beaucoup d'avenir et finalement, beaucoup de chance lorsque nous considérons notre façon de vivre par rapport à ceux qui aspirent au minimum, qui aspirent à cette manière de vivre.
Cela, c'est très difficile. Je prendrais un exemple avant de m'arrêter car je souhaite dialoguer et je pense que c'est ce que vous souhaitez également.
Prenons le vrai marqueur, ou l'un des vrais marqueurs, du changement du monde : la santé publique.
Nous qui considérions que dans ce pays béni qui s'appelle la France, il était normal, avec une petite carte verte, de rentrer dans n'importe quel hôpital, sur tout le territoire français, pour être accepté aux urgences, pour y être soigné sans rien payer. Dans la presque totalité du monde, il n'était même pas question d'avoir un hôpital. Cela a changé, c'est en train de changer. Evidemment, lorsque nous demandons aux Français de payer un peu plus pour leur santé, ils ne sont pas contents et ils disent que c'est une régression, je les comprends.
La difficulté est d'expliquer le changement du monde
. Je sais que ce n'est plus tout à fait "rond", que c'est "plat". Je sais, c'est très difficile mais c'est cela qu'il faut faire. Nous avons fait des progrès immenses, globalisés. Nous devons une compréhension plus globale mais pas parfaite de la santé publique du monde. Ce sont des progrès considérables. Mais bien sûr, ils ont nécessité des sacrifices de notre part, de la part des pays riches évidemment. Et ce sont des progrès imparfaits. Nos sacrifices furent également imparfaits. Mais quand même, quelle différence !
Vous savez, je me souviens, c'était en 1997 - ce n'est pas loin, onze années -, lorsque à Abidjan, avec le président Jacques Chirac, nous avons décidé, nous les Français - j'en suis très fier, je fus ministre de la Santé à l'époque -, que nous allions prendre en charge les malades qui n'étaient pas nos malades mais qui étaient malgré tout des malades.
Nous en étions finalement comptables, aussi. Bien sûr, c'était le sida. Bien sûr c'est contagieux, bien sûr c'était l'un des dangers publics, si j'ose dire, en termes, de santé publique. C'était un problème majeur et c'était un problème pour la sécurité nationale de tous mais d'abord des pauvres.
Et maintenant, voyez-vous, il est devenu presque normal, non pas de consacrer assez d'argent, mais il est devenu presque évident, que nous, les riches, malgré nos difficultés, malgré le chômage, mais en tenant compte de ce que l'on appelle la vie chère, nous assurions, l'ensemble de la santé globale du monde.
Nous avons pris le sida en charge, c'est vrai. Pouvons-nous prendre en charge tout le reste des maladies qui sont au moins aussi importantes, je ne le sais pas, je ne crois pas ?
Voilà un exemple de la globalisation. Il est très mauvais, on peut en trouver d'autres. On peut penser que le terrorisme est un exemple de globalisation, qu'il présente des dangers. C'est exact, c'est complètement vrai !
Aujourd'hui, je viens de passer sept heures avec Sergueï Lavrov. Je l'aime beaucoup mais c'est un autre monde.
Nous avons parlé de drogue, mais il n'y a pas que cela. Il y a 15 ans, à peine un peu plus, que la représentation-même du communisme international s'est effondrée. 15 ans, ce n'est rien !
Alors, d'accord, ce n'est pas assez, c'est imparfait, c'est vrai. Mais, quand même, quelle rapidité, quel progrès, quel changement !
Il y a à peine 20 ans, il y avait en Afrique, un grand continent à l'abandon. Maintenant, ce n'est plus vrai, ils ont 6 % de croissance et nous, combien en avons-nous ? 1,5, 1,6 % en France.
Un dernier exemple, c'est l'exemple magique car tout le monde demande plus d'Europe. Tout le monde, le monde entier. Bien sûr, les pays en développement. Et encore, ce sont eux qui en demandent le moins. Mais le modèle est là. L'Union africaine, déjà, se manifeste entre l'Afrique du Sud et la Libye, par deux modèles complètement différents, centralisés ou non. Le modèle quel est-il ? C'est l'Europe.
Nos amis américains, que demandent-ils ? Ils disent que c'est l'Europe qui doit proposer un nouveau plan dans un nouveau monde.
C'est très bien, merci beaucoup, ils sont très demandeurs mais ce n'est pas si facile car nous nous heurtons aux même obstacles. La globalisation des espérances, c'est bien. Mais accepter de faire des sacrifices pour les autres, considérer que cela ne va pas se poursuivre de la même façon, accepter l'idée, très répandue, très dangereuse que nous sommes les perdants, nous les pays riches, particulièrement les pays européens, et la France également, apporte un regard pessimiste sur la globalisation. Nous portons un regard extrêmement sombre sur la globalisation et c'est cela qui les choque.
Il nous faut leur prouver que ce n'est pas facile en ce moment. Cela prendra encore cinq ou dix ans, on ne sait pas, pour que les réformes réussissent pour que nous puissions dégager une énergie suffisante pour agir. Il nous faut reprendre notre marche en avant !
En attendant, le reste du monde marche mieux qu'avant. Bien sûr que nous parlerons des crises. Bien sûr que le terrorisme existe et qu'il progresse, d'une certaine manière. Bien sûr que pour l'Afghanistan rien n'est réglé.
C'est vrai qu'avoir vu M. Ahmadinejad à Bagdad, entouré de 145.000 soldats américains, c'est quand même assez surprenant, n'est-ce pas ?
Il y a là quelque chose qui fonctionne mal dans les visions du monde.
En tout cas, et je voudrais en terminer, la démocratie d'il y a 20 ou 30 ans était un rêve. Un rêve difficile à caresser, à concevoir même. C'est devenu la règle imparfaite, la démocratie, une règle imparfaite mais une règle quand même ! Il n'y a plus d'autres modèles et au contraire, l'on se demande si un peu de rigueur, un peu de brutalité, un peu moins de considération pour les opinions publiques, pour la société civile, pour les ONG, ce ne serait pas plus facile. Eh bien, non, il faut tenir compte de l'opinion de chacun. C'était inimaginable il y a 20 ou 30 ans. Je ne suis donc pas vraiment pessimiste.
Comme vous, je pense qu'il faut établir une nouvelle diplomatie. Mais pour cela, le grand obstacle, c'est soi-même, le grand obstacle, la difficulté, c'est d'accepter que les autres existent, pas comme nous certes, différemment de nous. Et je vous assure que sept heures passées avec M. Lavrov m'ont fait réaliser que nous ne sommes en effet pas complètement pareils, c'est certain, mais, nous ne sommes pas non plus identiques aux pays arabes, nous sommes différents de l'Afrique, nous sommes différents de l'Asie, nous ne sommes pas pareils.
Accepter l'autre, ce serait cela la nouvelle discipline qui formerait une nouvelle diplomatie et nous ne serions pas toujours certains d'avoir raison. Vous savez, la nouvelle diplomatie - je l'expérimente tous les jours, pour moi aussi contre moi-même - c'est de considérer que l'on n'a pas toujours raison. C'est se demander si, après tout, les autres n'auraient pas, de temps en temps, un peu raison aussi, au moins avec nous.
Je vous remercie./.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter