Il vangelo che la liturgia ci propone per questa trentatreesima domenica del tempo ordinario (Mt 25,14-30) è costituito interamente da una parabola: quella famosa dei talenti. Come ogni volta che ci si trova davanti ad un testo biblico molto conosciuto, anche in questo caso il rischio è quello di dare per scontato il senso delle parole di Gesù e dunque di non riuscire a lasciarsene interpellare veramente.
In effetti non appena si legge questo brano, immediatamente e simultaneamente giungono alla memoria le parole che usualmente lo interpretano (prediche, commenti...), quasi che il testo ormai sia confuso con la sua spiegazione, che solitamente suona più o meno in questi termini: l’uomo che parte è Dio e i suoi servi sono gli uomini; i talenti che affida loro sono le doti che ognuno ha, le sue capacità, o anche le sue responsabilità e possibilità (c’è chi ne ha di più e chi di meno...) e il succo dell’insegnamento sarebbe che ognuno deve far fruttificare le sue potenzialità; non importa da che punto si parte: ciò che conta è dare il meglio di sé. Questo porta infatti alla buona riuscita di una vita o al suo fallimento (che generalmente noi associamo al paradiso e all’inferno).
Il problema di questa lettura è che lascia inevase molto domande che il testo suscita, se si prova a leggerlo senza precomprensioni... Per esempio: è davvero corretto identificare quest’uomo che parte e affida i suoi beni ai suoi servi, con il Dio che ci ha rivelato Gesù? Corrisponde al suo volto il fatto che “in partenza” creerebbe arbitrariamente distinzioni tra i suoi figli? Perché a qualcuno 5 ad altri 2 ad altri solo 1?
È vero che la storia ci mostra con fin troppa evidenza che è così (non tutti i cuccioli d’uomo che nascono su questa terra hanno le stesse possibilità – capacità – doti), ma è davvero imputabile a Dio questa discriminazione?
Certo, da come Gesù considera ognuna delle persone che incontra appare chiaro che il modo di Dio di rapportarsi alle persone non sia quello della omologazione (del “siamo tutti uguali davanti a Dio”), anzi il suo è il modo della salvaguardia della singolarità (per Dio non è importante il genere umano, ma ogni singolo uomo – e donna – nella sua unicità irripetibile). Ma dire che nessuno davanti a Dio può prendere il posto di un altro, perché nella relazione con Lui è chiamata in causa l’intimità singolarissima di ciascuno, è diverso dal dire che a priori Dio darebbe possibilità – doti – capacità quantitativamente misurabili arbitrariamente diverse all’uno o all’altro dei suoi figli... L’unica possibilità che dà Dio – e questa a tutti, seppur poi con un darsi storico di volta in volta irripetibile – è quella della gioia piena (Gv 15,11) di una vita fondata su Lui e dedita agli altri. Tutto il resto non viene da Dio, ma dalla storia, dalla natura, dalla cultura, dai condizionamenti affettivi, psicologici, sociologici...
Dunque, forse, bisogna essere un po’ più cauti nell’identificazione di quest’uomo della parabola con il Dio di Gesù e dei talenti con le doti – capacità – responsabilità intese quantitativamente...
Senza contare poi che, pensando al Dio di Gesù, è un po’ sbalorditivo il modo in cui si comporta quest’uomo al suo ritorno... e soprattutto che accetti la definizione che il servo dà di lui: «sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso»... Questo non è Gesù, né il Padre suo!
Forse allora, è necessario rivedere le modalità classiche e un po’ troppo pacificatorie con cui interpretiamo questo testo e tentare di lasciarcene interrogare mettendo a tacere ciò che istintivamente – perché l’abbiamo succhiato praticamente dal seno materno – ci verrebbe da pensare.
Soprattutto va corretto il pregiudizio per cui lo stile parabolico sarebbe una modalità espressiva che Gesù usava per farsi capire meglio, come se si trattasse di un linguaggio facile e dunque accessibile a tutti...
Questo infatti è anche quello che invitano a fare gli studiosi del testo biblico, i quali proprio a proposito delle parabole evangeliche identificano una doppia classificazione:
- ci sono sì “le miniparabole del Regno”, che proprio per la struttura che le caratterizza (sono brevi e dirette) hanno lo scopo di rendersi immediatamente comprensibili a tutti;
- ma ci sono anche “le macroparabole” in cui prevale la forma della narrazione lunga – raccontano una storia («Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti...», Mt 10,30ss; «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano...», Lc 19,12ss) – e per questo non sono immediate, ma anzi richiedono un lavoro ermeneutico più impegnativo.
Le parabole di quest’ultimo tipo infatti oltre ad avere un’estensione narrativa più elaborata, si presentano spesso anche come enigmatiche e difficili da capire (Gesù stesso dice di raccontarle perché non capiscano: «Parlo loro in parabole perché non comprendano» (Mt 13,13)!). Anche le tematiche che affrontano, confermano questa sensazione di complessità: non si tratta più semplicemente dell’annuncio diretto dell’arrivo del Regno di Dio, ma si intavolano argomenti quali la ricchezza, la giustizia di Dio, il giudizio, il perdono...
Anche quella di questa domenica difatti è collocata nell’ultimo dei 5 discorsi in cui Matteo organizza il suo vangelo, quello escatologico, che sta proprio a ridosso dell’inizio del racconto della passione.
La nostra parabola rientra dunque proprio in questo secondo gruppo delle macroparabole e richiede perciò un percorso più impegnativo per essere capita fino in fondo.
Abbandonate dunque le varie precomprensioni, proviamo a lasciarci guidare dal testo nel percorso che la parabola vuol farci fare, «queste parabole infatti non sono state costruite per niente: dato il loro congegno, la loro complessità, il loro carattere paradossale, devono avere un significato specifico, tanto più che Gesù stesso mette in guardia, quando dice che ci sono delle parabole che racconta precisamente perché non capiscano. Che vuol dire appunto che in realtà sono parabole che mirano a tenere in sospeso la comprensione. E quando si mira a tenere in sospeso la comprensione? Quando si ha il fondato timore che una spiegazione più diretta produca l’automatismo che coincide col fraintendimento, col prevalere del luogo comune. Quando io, cioè, discorrendo di un argomento delicato temo che, se adopero parole troppo dirette, esempi troppo elementari, quell’altro dica “Ah, ecco sì lo so già cosa vuoi dirmi...” ed invece sto cercando di aprire un varco nel luogo comune, per farlo evolvere, istintivamente adotto un congegno, un apparato di comunicazione che riesca a frenare quel suo approdo immediato (“Ah sì, so già questa cosa...”), in modo che l’altro debba pensare un attimo e forse pensandoci gli venga in mente che forse quello che ha in mente è uno schema un po’ semplificato, che forse l’argomento che voglio proporgli contiene qualcosa di più di quello che lui sa già» [P.A. Sequeri].
Proviamo allora con la nostra parabola a frenare il luogo comune e, lasciandoci interpellare dalle sue “stranezze”, ad aprire un varco per un’ulteriorità di senso che forse ci era sfuggita: quello su cui la parabola (anzi Gesù attraverso la sua parabola) ci vuole convertire è la mentalità con cui pensiamo al Regno.
Istintivamente noi abbiamo identificato l’uomo della parabola con Dio e il suo contesto che quello della fine (del mondo o della vita), quindi in un’atmosfera di giudizio. Il modo in cui quest’uomo giudica l’operato dei suoi servi nella nostra testa è immediatamente identificato col modo in cui Dio giudicherà la nostra vita...
Pensiamo che la vita sarà giudicata in base al nostro comportamento: secondo una giustizia retributiva perciò i buoni saranno premiati e i cattivi castigati. Ma nel momento in cui facciamo il passo di accettare che quest’uomo sia l’immagine di Dio, iniziamo ad ascoltare la parabola con un’inquietudine che prima non avevamo... Ovviamente prima pensavamo di essere dalla parte dei buoni, dalla parte dei pii cristiani, di quelli sicuramente “dentro” al paradiso, perché “Va bene tutto – io sarò anche un peccatore... Ma gli altri...”! Sentendo poi le parole di gratuità con cui Gesù ha parlato anche ai samaritani, alle prostitute, ai pubblicani... beh... a esser cristiani allora, c’è proprio da star sicuri...
Questo pensavamo... ma appena sentiamo questa parabola qualcosa nella nostra sicurezza si incrina... pare che Dio (quest’uomo) abbia posto una soglia nuova per l’accesso al paradiso... Non basta più neanche essere suoi servi... bisogna pure saper trafficare i talenti... Ridargli il suo non basta... Serve raddoppiare... Ma se domani cambiasse ancora idea e la soglia si alzasse di nuovo? Se Dio dal 2008 in avanti decidesse che i talenti debbano essere triplicati invece che raddoppiati? Chi potrebbe obiettargli qualcosa... è Dio...
Ma che cosa abbiamo fatto per arrivare fino a queste conclusioni con il nostro ragionamento? A che cosa abbiamo acconsentito di passaggio in passaggio:
- al fatto che la giustizia di Dio sia retributiva;
- e al fatto che essa sia imperscrutabile.
Cioè al fatto che Dio sia un calcolatore e che il suo volto sia equivoco (da Lui ci può venire tanto il male quanto il bene).
Ma queste sono proprio le 2 affermazioni su Dio che dopo Gesù non si possono più fare: Gesù non rende male per male, ma muore lui per il male degli altri, rende cioè bene per male, vita per morte, perdono per peccato, salute per malattia, tenerezza per violenza... Altro che retribuzione... e altro che imperscrutabilità: chi «è morto per gli empi» (Rm 5,6), rivela che il Nome di Dio per l’uomo è solo cura, anche – anzi soprattutto – quando non se la merita. Perché il suo cuore è come quello di una madre, anzi di più, perché: «Anche se mio padre e mia madre mi avessero abbandonato, l’Eterno mi accoglierebbe» (Sal 27,10).
La parabola dunque ci chiede di uscire dal tranello che ci ha fatto, per ritornare alla parola di Gesù e ricordarci chi è Dio.
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