Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno…
In tre parole si condensa la dinamica della nostra salvezza: la “volontà” del Padre (una passione fattiva: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il figlio suo!...); “l’accudimento” del figlio per i fratelli che gli sono affidati (non butta via nulla contro ogni nostra paura e angoscia); “la risurrezione nell’ultimo giorno” (cioè partendo da questa vita, ma fino alla nostra intima verità definitiva, o come lui dice, eterna). La liturgia non si perde in lamenti, perché non celebra la paura della morte, che pure ci addolora, ma la speranza della risurrezione. Ma la nostra ragione (il pensiero, il dono grande fatto all’uomo, “Solo Dio ne è degno”, dice Giovanni della Croce!) non sa andare più in là della morte. È capace di inventariare l’universo, indagarne il funzionamento, domandarsene il senso, che vuol dire anche guardare oltre, da lontano, senza poter decidere se c’è o non c’è un “oltre”! Il cuore (e il suo motore, il desiderio), dice invece: se Tu sei qui, i miei cari non moriranno per sempre... l’uomo non può finire così!
… chiunque vede il Figlio e crede in lui ha la vita eterna!
Gesù ha una buona notizia sulla morte, ed è questa: che davvero Dio “è qui”, sempre! Ma non come esenzione dalla morte… ma come vittoria sulla morte. Per Gesù l'essenziale non è il non morire, ma il non lasciare che la vita sia corrosa dall’incubo della morte. Su questo misterioso incontro, questo appuntamento scritto, nostro malgrado, nel più intimo della nostra carne, la promessa è questa: la morte, come Gesù stesso l’ha sperimentata, è una porta, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre (Gv 13,1). Dunque, un passo misterioso, nel quale imparare a vedere l’amore del Padre, perché proprio a questo amore il Figlio si è affidato una volta per tutte, ed ha vinto anche lui la sua paura della morte, con forti grida e lacrime, ma con tutta la forza della sua libertà. Qui si è cementata una solidarietà infrangibile tra noi e lui, tra la sua morte e la nostra morte: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo né è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). Gesù non risponde dunque alla nostra brama di spiegazioni, ma al nostro bisogno di speranza certa. Rimane che per la ragione scientifica, ma anche per gli affetti, per il cuore, per gli occhi… per tutta l’esperienza di dolore che provoca il distacco dai nostri morti, insomma, la vita è un cammino verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che noi possiamo invertire il senso del cammino e passare da un destino di morte alla vita: l'eternità è già entrata in noi, seminata nella nostra carne molto prima che la morte arrivi, nei gesti e nella benevolenza dell’amore quotidiano. Le beatitudini evangeliche sono una dichiarazione di congratulazioni del Padre su questa nuova condizione dell’uomo povero, mite, affamato di pace e di giustizia, capace di vedere da per tutto, anche nella sofferenza e nella persecuzione, la possibilità dell’amore l’unica realtà umana che ha dalla sua parte il futuro. Credere è affidarsi! …Credere in Dio e affidarci costantemente alla sua Parola senza opporre resistenza. E imparare a scoprire che la morte non ha più alcun potere su chi si affida a lui.
Colui che viene a me, non lo respingerò!
È in questa luce che accogliamo la promessa di Gesù contenuta nel brano evangelico odierno, per i nostri morti e per noi! Una promessa che dobbiamo ripeterci nel cuore per vincere ogni amarezza sconsolata e ogni timore, affidando ogni uomo alla misericordia del Figlio. Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, e il Figlio non lo butta via, perché l’amore del Padre gli ha insegnato a non perdere nessuno, anche se ferito o insozzato dal peccato e dall’infedeltà, caduto e rialzato, nella fatica di riprendere con fiducia il cammino di sequela. Gesù ribadisce la sua fede biblica nel Dio del roveto ardente, un Dio che non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui. Già adesso, dunque – di qua, non dopo morte – proprio mentre si è sprofondati nei problemi e difficoltà della famiglia, della comunità, della vita sociale, del lavoro … mentre si cerca affannosamente un senso della vita in questo nostro mondo, che si viene “ritenuti degni” di ottenere quell’altro “eone” (un tempo “altro”, ultimo, cioè definitivo!), cioè la resurrezione dai morti.
Questa, infatti, la volontà del Padre per noi… la vita eterna
La vita “dopo” la morte non era scritta nel DNA dell’uomo, che pure sembra essere il vertice dell’affermazione più piena della vita, nel cammino immenso dell’universo! E l’uomo continua ad impazzire lungo i millenni, per questo irreprimibile desiderio di non morire, che lo tormenta e lo divora. Ma non c’era scritto nel rotolo interminabile dei segreti della sua specie il gene dell’immortalità: è roba da dio! O fantasma del desiderio, senza nessuna prova che l’abbia mai resa credibile La Resurrezione dai morti, infatti, non si dimostra, se ne riceve solo la semente, che lievita la vita del discepolo, se l’accoglie. La resurrezione di Gesù Cristo ha indotto, dunque, una mutazione nel codice genetico dell’umanità, con un nuovo atto creativo del Padre, che “lo ha risuscitato, (l’uomo Gesù!) sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,24). Non è diritto di natura, né un rappezzo aggiunto, è piuttosto un dono affidato alla libertà degli uomini, seminato nel loro cuore. Una partecipazione alla grazia di Cristo, che svelenisce e guarisce la paralisi dell’amore, la paura di perdersi, alla quale l’incubo della morte ci tiene invincibilmente avvinghiati. E ci fa divenire, invece, capaci di oblatività e tenerezza… fino a donare la vita per i fratelli. Come Gesù, che ha lasciato nella sua vita pieno spazio all’amore.
la risurrezione dell’ultimo giorno
Gli atteggiamenti che Gesù ci testimonia sono necessari a tutti, non tanto per essere in grado di morire, ma per imparare a vivere pienamente. Questo criterio si identifica con quello del Vangelo, dove ciò che dura è “il nome scritto nei cieli” (Lc. 10,20), è la vita eterna, è ciò che trasforma il cuore conformando gli uomini come veri “figli della risurrezione” (Lc 20,37). La morte, infatti, ci chiederà di avere acquisito in modo così completo e definitivo il nostro proprio nome (la propria identità matura) da saperla abitare, senza necessità di altri riferimenti fallaci. L’uomo, infatti, nasce materiale e diventa spirituale, nasce carne e diventa spirito. Questo processo coincide con il divenire persona: l’uomo nasce natura e diventa persona. Nasce necessità e diventa libertà, cioè capacità di amare. La morte chiede di avere raggiunto un tale distacco dalle cose che ci sono servite per crescere, da essere capaci di lasciare tutto senza portare nulla con noi. Mentre le persone debbono essere interiorizzate per potere “partire”, le cose debbono essere “consegnate” perché servano ad altri. La morte quindi chiede ad ogni uomo di imparare a vivere i rapporti con amore gratuito e disinteressato, al punto da consegnarsi interamente, senza trattenere nulla per sé, neppure il proprio corpo, ma di consegnare tutto al fluire della vita. La vita perciò sollecita da ogni persona la disponibilità a lasciare senza riserve tutto ciò che è stato acquisito o accumulato durante l’esistenza. Non è un’imposizione morale, ma un’esigenza fondamentale della vita stessa, affinché possa continuare. L'attaccamento alle cose è come un ostacolo che impedisce il fluire della vita in noi. La vita perciò richiede che si impari a fare a meno di tutto, per concentrare tutta l’attenzione all’essenziale, che consiste nella interiorità.
La capacità di offrire la vita, vuol dire infine imparare a donare la propria morte. Questa è la condizione di una vita di amore: "Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Mc 8,35). Questo è reso possibile in virtù delle progressive interiorizzazioni delle persone che, amando, stabiliscono in modo definitivo la loro presenza dentro di noi. La morte è perciò una solitudine abitata da molte presenze, se l’esistenza è stata nutrita di amore…
In tre parole si condensa la dinamica della nostra salvezza: la “volontà” del Padre (una passione fattiva: Dio ha tanto amato il mondo da mandare il figlio suo!...); “l’accudimento” del figlio per i fratelli che gli sono affidati (non butta via nulla contro ogni nostra paura e angoscia); “la risurrezione nell’ultimo giorno” (cioè partendo da questa vita, ma fino alla nostra intima verità definitiva, o come lui dice, eterna). La liturgia non si perde in lamenti, perché non celebra la paura della morte, che pure ci addolora, ma la speranza della risurrezione. Ma la nostra ragione (il pensiero, il dono grande fatto all’uomo, “Solo Dio ne è degno”, dice Giovanni della Croce!) non sa andare più in là della morte. È capace di inventariare l’universo, indagarne il funzionamento, domandarsene il senso, che vuol dire anche guardare oltre, da lontano, senza poter decidere se c’è o non c’è un “oltre”! Il cuore (e il suo motore, il desiderio), dice invece: se Tu sei qui, i miei cari non moriranno per sempre... l’uomo non può finire così!
… chiunque vede il Figlio e crede in lui ha la vita eterna!
Gesù ha una buona notizia sulla morte, ed è questa: che davvero Dio “è qui”, sempre! Ma non come esenzione dalla morte… ma come vittoria sulla morte. Per Gesù l'essenziale non è il non morire, ma il non lasciare che la vita sia corrosa dall’incubo della morte. Su questo misterioso incontro, questo appuntamento scritto, nostro malgrado, nel più intimo della nostra carne, la promessa è questa: la morte, come Gesù stesso l’ha sperimentata, è una porta, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre (Gv 13,1). Dunque, un passo misterioso, nel quale imparare a vedere l’amore del Padre, perché proprio a questo amore il Figlio si è affidato una volta per tutte, ed ha vinto anche lui la sua paura della morte, con forti grida e lacrime, ma con tutta la forza della sua libertà. Qui si è cementata una solidarietà infrangibile tra noi e lui, tra la sua morte e la nostra morte: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo né è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per paura della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). Gesù non risponde dunque alla nostra brama di spiegazioni, ma al nostro bisogno di speranza certa. Rimane che per la ragione scientifica, ma anche per gli affetti, per il cuore, per gli occhi… per tutta l’esperienza di dolore che provoca il distacco dai nostri morti, insomma, la vita è un cammino verso la morte. La fede cristiana dichiara invece che noi possiamo invertire il senso del cammino e passare da un destino di morte alla vita: l'eternità è già entrata in noi, seminata nella nostra carne molto prima che la morte arrivi, nei gesti e nella benevolenza dell’amore quotidiano. Le beatitudini evangeliche sono una dichiarazione di congratulazioni del Padre su questa nuova condizione dell’uomo povero, mite, affamato di pace e di giustizia, capace di vedere da per tutto, anche nella sofferenza e nella persecuzione, la possibilità dell’amore l’unica realtà umana che ha dalla sua parte il futuro. Credere è affidarsi! …Credere in Dio e affidarci costantemente alla sua Parola senza opporre resistenza. E imparare a scoprire che la morte non ha più alcun potere su chi si affida a lui.
Colui che viene a me, non lo respingerò!
È in questa luce che accogliamo la promessa di Gesù contenuta nel brano evangelico odierno, per i nostri morti e per noi! Una promessa che dobbiamo ripeterci nel cuore per vincere ogni amarezza sconsolata e ogni timore, affidando ogni uomo alla misericordia del Figlio. Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, e il Figlio non lo butta via, perché l’amore del Padre gli ha insegnato a non perdere nessuno, anche se ferito o insozzato dal peccato e dall’infedeltà, caduto e rialzato, nella fatica di riprendere con fiducia il cammino di sequela. Gesù ribadisce la sua fede biblica nel Dio del roveto ardente, un Dio che non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui. Già adesso, dunque – di qua, non dopo morte – proprio mentre si è sprofondati nei problemi e difficoltà della famiglia, della comunità, della vita sociale, del lavoro … mentre si cerca affannosamente un senso della vita in questo nostro mondo, che si viene “ritenuti degni” di ottenere quell’altro “eone” (un tempo “altro”, ultimo, cioè definitivo!), cioè la resurrezione dai morti.
Questa, infatti, la volontà del Padre per noi… la vita eterna
La vita “dopo” la morte non era scritta nel DNA dell’uomo, che pure sembra essere il vertice dell’affermazione più piena della vita, nel cammino immenso dell’universo! E l’uomo continua ad impazzire lungo i millenni, per questo irreprimibile desiderio di non morire, che lo tormenta e lo divora. Ma non c’era scritto nel rotolo interminabile dei segreti della sua specie il gene dell’immortalità: è roba da dio! O fantasma del desiderio, senza nessuna prova che l’abbia mai resa credibile La Resurrezione dai morti, infatti, non si dimostra, se ne riceve solo la semente, che lievita la vita del discepolo, se l’accoglie. La resurrezione di Gesù Cristo ha indotto, dunque, una mutazione nel codice genetico dell’umanità, con un nuovo atto creativo del Padre, che “lo ha risuscitato, (l’uomo Gesù!) sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” (At 2,24). Non è diritto di natura, né un rappezzo aggiunto, è piuttosto un dono affidato alla libertà degli uomini, seminato nel loro cuore. Una partecipazione alla grazia di Cristo, che svelenisce e guarisce la paralisi dell’amore, la paura di perdersi, alla quale l’incubo della morte ci tiene invincibilmente avvinghiati. E ci fa divenire, invece, capaci di oblatività e tenerezza… fino a donare la vita per i fratelli. Come Gesù, che ha lasciato nella sua vita pieno spazio all’amore.
la risurrezione dell’ultimo giorno
Gli atteggiamenti che Gesù ci testimonia sono necessari a tutti, non tanto per essere in grado di morire, ma per imparare a vivere pienamente. Questo criterio si identifica con quello del Vangelo, dove ciò che dura è “il nome scritto nei cieli” (Lc. 10,20), è la vita eterna, è ciò che trasforma il cuore conformando gli uomini come veri “figli della risurrezione” (Lc 20,37). La morte, infatti, ci chiederà di avere acquisito in modo così completo e definitivo il nostro proprio nome (la propria identità matura) da saperla abitare, senza necessità di altri riferimenti fallaci. L’uomo, infatti, nasce materiale e diventa spirituale, nasce carne e diventa spirito. Questo processo coincide con il divenire persona: l’uomo nasce natura e diventa persona. Nasce necessità e diventa libertà, cioè capacità di amare. La morte chiede di avere raggiunto un tale distacco dalle cose che ci sono servite per crescere, da essere capaci di lasciare tutto senza portare nulla con noi. Mentre le persone debbono essere interiorizzate per potere “partire”, le cose debbono essere “consegnate” perché servano ad altri. La morte quindi chiede ad ogni uomo di imparare a vivere i rapporti con amore gratuito e disinteressato, al punto da consegnarsi interamente, senza trattenere nulla per sé, neppure il proprio corpo, ma di consegnare tutto al fluire della vita. La vita perciò sollecita da ogni persona la disponibilità a lasciare senza riserve tutto ciò che è stato acquisito o accumulato durante l’esistenza. Non è un’imposizione morale, ma un’esigenza fondamentale della vita stessa, affinché possa continuare. L'attaccamento alle cose è come un ostacolo che impedisce il fluire della vita in noi. La vita perciò richiede che si impari a fare a meno di tutto, per concentrare tutta l’attenzione all’essenziale, che consiste nella interiorità.
La capacità di offrire la vita, vuol dire infine imparare a donare la propria morte. Questa è la condizione di una vita di amore: "Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Mc 8,35). Questo è reso possibile in virtù delle progressive interiorizzazioni delle persone che, amando, stabiliscono in modo definitivo la loro presenza dentro di noi. La morte è perciò una solitudine abitata da molte presenze, se l’esistenza è stata nutrita di amore…
(per l’ultimo paragrafo cfr C. MOLARI, La vita spirituale e la maturità della fede, corso alle Monache 2005, p. 67ss)
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