Ho esitato molto a scrivere di questa mia esperienza familiare. Quando si vive in una casa divenuta chiesa, accanto a un letto divenuto altare, le parole si svuotano fino a scomparire. È il silenzio che parla. Poi pensi che, se abiti in una vera chiesa, anche se domestica, devi lasciare le porte spalancate, devi permettere che la vita entri ed esca per accogliere ed essere accolta.
Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la vita di mio marito e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte a una difficile scelta: affidare il nostro caro a una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio.
Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta e affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della Peg collegata con un tubo nello stomaco, la tracheotomia per respirare.
Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film La farfalla e lo scafandro, tratto dall’autobiografia del giornalista francese Jean-Dominique Beauby che la dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire a esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.
Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. È stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica e umana è stata cancellata.
Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati i grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre.
«Anche se non parla, il nonno c’è»
Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quartetti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva a inventare quei risotti fatti "con residuati bellici", trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove "si salda la terra con il cielo".
«Anche se non parla, il nonno c’è», ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo, e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine a una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta a una sopravvivenza vegetativa?
Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché "lui c’è". Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto, veramente tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce a esplorare. Anche se continui a interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel Siracide che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: «Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione» (3,23-24).
Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di lui. "Mistero della fede", ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo, quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da sé stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto del sentimento che ha dato vita al creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.
Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. A farci capire ciò che vale e ciò che non vale, ci ha folgorati sulla precarietà e sulla vanità di tutto quanto prima pareva importante: denaro, successo, potere, prestigio, salute stessa, per unirci alle fatiche degli abitanti del mondo, per spalancare le finestre e le porte della nostra casa in una comunione nuova con tutti coloro, vicini e lontani, che camminano nel mistero della vita. Con coloro che "non hanno voce" e che stanno fuori dal coro. Dimenticati, senza diritto di cittadinanza. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenze e allo status sociale, alla provenienza e a quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere.
Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «II volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. "II volto" dell’altro ci parla per sé stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado». Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il Volto.
Spiragli di luce nel buio del dolore
Sono le dilatazioni dell’amore, dato in modo totalmente disinteressato. Sono i "miracoli" che provoca: una conversione umana e interiore che rimette a nuovo le persone, apre spiragli di luce nel buio della sofferenza e "ti fa sentire bene", nonostante la fatica dell’usura quotidiana, i momenti di disperazione, le frequenti tentazioni di fuga e di resa. Ti permette di alzarti ogni mattina con il coraggio di una battaglia che non fai solo per te, ma per tutti, credenti e non credenti, indifferenti e partecipi, per accendere quella speranza che soltanto l’amore sa inventare e che dà colori, suoni, profumi all’esistere. Ti dice che la vita vale la pena comunque di essere vissuta.
Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, il cui Diario dopo essere rimasto quarant’anni in un cassetto, si sta diffondendo in modo profetico e così attuale, mentre infuriava l’apocalisse nazista, continuava a ripetere che «la vita è bella e ricca di significato», nonostante la sua assurdità. Aveva percepito dietro all’orrore dei lager e dopo «essere morta mille volte in mille campi di concentramento», quel barlume di eternità che filtra nelle piccole azioni e percezioni quotidiane. Un barlume che le aveva fatto incontrare Dio e reso l’esistenza amica se «vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile... Così, in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto».
Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra di loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cos’è la vita , che cos’è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono.
Di fronte soltanto il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni, arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la "vera vita" che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.
È una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazione di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. È la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di fare. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro, per abitarlo e lasciarti abitare in un’Eucaristia permanente.
La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.
E chi entra con tremore nel cerchio di questo volo, nella stanza affacciata sulla piazza, piccola chiesa con altare, ne esce diverso, trasformato nell’intimità dei propri sentimenti, rasserenato e riconciliato con sé stesso. Stupito e commosso che da tanto dolore possa scaturire la conoscenza di un mondo altro, di un mondo nuovo. Che da tanta spogliazione possa esplodere tanto vigore. «Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi», ha ricordato di recente monsignor Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.
Sono passati tre anni da quando un ictus ha interrotto la vita di mio marito e capovolto la nostra, più niente è stato come prima. Dopo dieci mesi d’ospedale ci siamo trovati di fronte a una difficile scelta: affidare il nostro caro a una clinica, in una lunga degenza, o riportarlo a casa. Separarci da lui nella quotidianità del vivere o iniziare con lui una nuova vita, un’avventura al buio.
Ha scelto lui per noi, per quello che era stato, discreta e affettuosa presenza di marito e di padre, testimonianza silenziosa di altruismo e di etica quotidiana. Lui che la sindrome Locked-In ha lasciato ai confini fra la vita e la morte, la corteccia cerebrale vigile, inerte il corpo in un’immobilità che ha tolto la parola, la deglutizione, anche il più piccolo movimento. Nutrito attraverso la macchinetta della Peg collegata con un tubo nello stomaco, la tracheotomia per respirare.
Un’invalidità rara, forse settecento casi in tutta Italia, una malattia poco conosciuta dagli stessi medici, che tiene prigionieri dietro un simbolico cancelletto di cui si è persa per sempre la chiave: senti tutto, ma non puoi rispondere né manifestarti in alcun modo. Agli inizi un filo tenue di comunicazione con il battito delle ciglia che rispondevano alle nostre domande, come nel film La farfalla e lo scafandro, tratto dall’autobiografia del giornalista francese Jean-Dominique Beauby che la dettò comunicando con un occhio solo. Nel trascorrere dei mesi quel filo si è interrotto. Il nostro caro è andato ad abitare in una landa sconosciuta, sigillato in un silenzio dentro il quale soltanto le pupille si muovono, senza riuscire a esprimere che cosa accade nella parte del cervello rimasta intatta. Nessuno riesce a dirci in quale misura.
Anche noi abbiamo scelto di andare ad abitare con lui in quel deserto dei sensi, illuminato dagli occhi che ogni tanto si spalancano sul mondo e ci guardano. Uno sguardo che arriva da lontano, da un universo non praticabile che possiamo soltanto amare, senza cercare risposte. È stato l’amore, soltanto l’amore, ricevuto e dato per anni, a guidarci nella sfida intrapresa, nel viaggio verso l’ignoto, nelle giornate fatte di azioni sempre uguali, in un presente che non ha futuro perché ogni previsione clinica e umana è stata cancellata.
Con questo amore abbiamo arredato la stanza della sua nuova vita, al centro della casa, la più luminosa, lasciandogli attorno tutti gli oggetti che hanno accompagnato la sua esistenza ricca di interessi, a cominciare da quei libri che erano la sua passione, la sua fame di sapere e di esplorare. Lo abbiamo avvolto durante la giornata, e parte della notte, con la sua musica sinfonica, con quei classici che erano stati i grandi amici del cuore e della mente, il suo colloquio permanente con l’Assoluto e l’Invisibile. La vita familiare ha ripreso a pulsare attorno a lui nei ritmi di sempre.
«Anche se non parla, il nonno c’è»
Come se fosse seduto nella poltrona dove sprofondava per sognare i suoi quartetti e le sue sinfonie, nello studio dove accudiva ai suoi libri rari, nella cucina dove si divertiva a inventare quei risotti fatti "con residuati bellici", trovati nel frigorifero, che oggi ci mancano. Figli, nipoti, amici, infermieri gli raccontano, ricordano, lo interpellano, lo accarezzano, lo baciano, lo vegliano nella neonata esistenza. L’amico prete celebra la Messa sull’altare del suo letto dove "si salda la terra con il cielo".
«Anche se non parla, il nonno c’è», ha detto un giorno la nipotina di otto anni, accarezzandolo, e noi ci siamo riconosciuti nelle sue parole. Nessun accanimento terapeutico, ma cure e attenzioni per una persona rimasta viva, nella sua intrinseca dignità di essere umano con le sue funzioni vitali, con il suo corpo, anche se collegato a macchine che i progressi della scienza medica oggi offrono. Tutto questo meno di dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Un bene o un male? Staccare la spina per porre fine a una vita all’apparenza innaturale? Aiutarlo ad addormentarsi per sempre nella irreversibilità della sua malattia? Che senso ha un’esistenza ridotta a una sopravvivenza vegetativa?
Sono domande umanamente comprensibili, angosciose, ma l’amore è più forte di ogni interrogativo perché "lui c’è". Esiste, noi lo amiamo nel mistero di una condizione che non ci è dato di capire. E se ami, fai di tutto, veramente tutto quanto è possibile, perché la persona amata non soffra, accetti che pratichi percorsi che tu non conosci, che la stessa medicina non riesce a esplorare. Anche se continui a interrogarti: quale dimensione ha assunto e in questa nuova esistenza che cosa vorrebbe? Potremmo interromperla perché non corrisponde più ai ragionamenti di persone abituate ad accettare soltanto ciò che toccano? Leggiamo nel Siracide che molte di più sono le cose nascoste di quelle che vediamo: «Non sforzarti in ciò che trascende le tue capacità, poiché ti è stato mostrato più di quanto comprende un’intelligenza umana. Molti si sono smarriti per la loro presunzione» (3,23-24).
Ma se non possiamo capire, possiamo scegliere di vivere nell’amore. Una scelta che sfida le logiche del mondo e quel Dio inconoscibile che ci chiede di fidarci di lui. "Mistero della fede", ho recitato per anni nella Messa. Ora ho capito che questo mistero deve inciderti nella carne, deve passare attraverso l’impotenza totale e la spogliazione di te stesso, per svelarti il suo profondo significato rivoluzionario che sovverte le esistenze. Già l’amore. Per incontrarlo, quello vero, autentico, occorre silenzio, umile ascolto, condivisione, uscire da sé stessi per vivere la vita degli altri, rimanere nudi nel tempo e nello spazio, vestiti soltanto del sentimento che ha dato vita al creato. L’amore allora diventa sapienza, non quella dei libri e dei trattati, ma sapienza del cuore, che è intelligenza profonda e profetica delle cose.
Ce ne siamo resi conto attorno al letto del nostro caro. Il suo silenzio ha iniziato a parlarci. A farci capire ciò che vale e ciò che non vale, ci ha folgorati sulla precarietà e sulla vanità di tutto quanto prima pareva importante: denaro, successo, potere, prestigio, salute stessa, per unirci alle fatiche degli abitanti del mondo, per spalancare le finestre e le porte della nostra casa in una comunione nuova con tutti coloro, vicini e lontani, che camminano nel mistero della vita. Con coloro che "non hanno voce" e che stanno fuori dal coro. Dimenticati, senza diritto di cittadinanza. Ci ha parlato dell’essenza dell’uomo che non è legata alle apparenze e allo status sociale, alla provenienza e a quanto possiede o non ha, ma al suo solo esistere.
Ci ha confermato quanto ha scritto il cardinale Carlo Maria Martini in un intervento sulla vita, dal concepimento all’accanimento terapeutico: «II volto non può essere usato o sfruttato per nessun motivo, deve essere soltanto riconosciuto, rispettato, amato. "II volto" dell’altro ci parla per sé stesso senza bisogno di altri argomenti, anche se la cosa non è più così evidente quando non si vede direttamente il volto, ma solo alcune manifestazioni biologiche di un esserino ancora informe o prossimo al totale degrado». Il volto, anche se velato dalla malattia, è sempre il Volto.
Spiragli di luce nel buio del dolore
Sono le dilatazioni dell’amore, dato in modo totalmente disinteressato. Sono i "miracoli" che provoca: una conversione umana e interiore che rimette a nuovo le persone, apre spiragli di luce nel buio della sofferenza e "ti fa sentire bene", nonostante la fatica dell’usura quotidiana, i momenti di disperazione, le frequenti tentazioni di fuga e di resa. Ti permette di alzarti ogni mattina con il coraggio di una battaglia che non fai solo per te, ma per tutti, credenti e non credenti, indifferenti e partecipi, per accendere quella speranza che soltanto l’amore sa inventare e che dà colori, suoni, profumi all’esistere. Ti dice che la vita vale la pena comunque di essere vissuta.
Etty Hillesum, la ragazza ebrea di ventinove anni, scomparsa ad Auschwitz, il cui Diario dopo essere rimasto quarant’anni in un cassetto, si sta diffondendo in modo profetico e così attuale, mentre infuriava l’apocalisse nazista, continuava a ripetere che «la vita è bella e ricca di significato», nonostante la sua assurdità. Aveva percepito dietro all’orrore dei lager e dopo «essere morta mille volte in mille campi di concentramento», quel barlume di eternità che filtra nelle piccole azioni e percezioni quotidiane. Un barlume che le aveva fatto incontrare Dio e reso l’esistenza amica se «vi si fa posto per tutto e se la si sente come un’unità indivisibile... Così, in un modo o nell’altro, la vita diventa un insieme compiuto».
Accettare di convivere con la farfalla nello scafandro, ti fa scoprire che la vita e la morte sono significativamente legate fra di loro, appartengono l’una all’altra, si completano. Ma allora che cos’è la vita , che cos’è la morte? Le risposte che per anni ti poni e che cerchi nelle pagine del mondo, le certezze con le quali ti sei difeso, le maschere che hai indossato per nasconderti, cadono. Le parole, scritte e dette, perdono forza. Tacciono.
Di fronte soltanto il suo e il tuo corpo, nudi e spogli, senza difese nell’impotenza di comunicare e di capire. Ma ci sono e si avvertono. E imparano un linguaggio nuovo, quello che non ha bisogno di suoni, arriva direttamente dai sensi. Quelli che stanno sotto la pelle e che per anni hai usato con la fretta e la superficialità che li ha svuotati della loro ricchezza, limitandoli e spesso castrandoli nei rapporti con gli altri, nei rapporti familiari, in quelli fra uomo e donna, con gli amici, con la vita. Sono stati spesso strumento di sopraffazione, di possesso, di rabbia, di stordimento, di perdita di te stesso. Adesso, nel silenzio in cui si manifestano, nella gratuità in cui si esprimono, ricuperano la propria sacralità. Diventano di nuovo capaci, come all’origine dei tempi e nell’infanzia, di gustare la semplicità del vivere, la bellezza della luce e del buio, dell’alba e della notte, l’armonia dei colori, il profumo della pioggia e quello del sole, l’odore dell’umanità che ti circonda o che incroci. Ti rivelano la "vera vita" che è l’amicizia con Dio in cui trova compimento la vita terrena, diventando un anticipo di quella eterna.
È una sensualità che riempie tutti i pori e trasforma il corpo, spezzato dalla malattia, in una presenza fisica che ti avvolge con il suo calore, con le vibrazione di una dimensione nuova, sconosciuta, ma tangibile. È la dimensione dell’amore nella sua libertà di dono che celebra la vita: il bacio, la carezza, l’abbraccio, il sorriso, la cura delle membra piagate. E che non si ferma in quella stanza, attorno a quel letto, ma si dilata fuori, nell’esistenza quotidiana, dove i gesti dell’amore diventano più importanti delle parole e ti permettono di comunicare come non eri più capace di fare. Ti fanno entrare nel corpo dell’altro, per abitarlo e lasciarti abitare in un’Eucaristia permanente.
La farfalla esce dallo scafandro, vola nello spazio e nel tempo, riempie l’aria di suoni e di echi che sciolgono la violenza di giornate vissute troppo in fretta, senza soste, senza silenzio, senza ascolto.
E chi entra con tremore nel cerchio di questo volo, nella stanza affacciata sulla piazza, piccola chiesa con altare, ne esce diverso, trasformato nell’intimità dei propri sentimenti, rasserenato e riconciliato con sé stesso. Stupito e commosso che da tanto dolore possa scaturire la conoscenza di un mondo altro, di un mondo nuovo. Che da tanta spogliazione possa esplodere tanto vigore. «Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù dell’impotenza che ha vissuto in Cristo, fattosi uomo uguale a noi», ha ricordato di recente monsignor Gianfranco Ravasi, citando Dietrich Bonhoeffer. In quel letto, in quella stanza ogni giorno accade qualcosa di grande e di imperscrutabile. Cristo si è fermato lì. L’impotenza è diventata luce e speranza.
Mariapia Bonanate in Famiglia Cristiana n. 47 del 23 nov. ‘08
1 commento:
Non potrebbero esistere parole più belle e più vere!Il mio pensiero " La vita è legata con un filo d'oro alle dita di Dio, solo Lui può recidere quel filo" le può confermare. danila
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