Le letture che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima sono davvero complicate… Risulta faticoso trovare un nesso tra di esse e, anche scegliendo di concentrarsi solo sul vangelo, il compito non pare semplificato.
Questo forse dipende innanzitutto dal fatto che i versetti di Giovanni proposti dalla liturgia sono solo una sezione del più lungo discorso tra Gesù e Nicodemo, iniziato 10 versetti prima; in secondo luogo forse dal fatto che il brano scelto è una sorta di approfondimento teologico su quanto precede: una specie di commento a mo’ di monologo (non si coglie con precisione se riferito da Gesù o dall’evangelista), in cui si concentra quasi una sintesi di tutto il messaggio di Gesù nel quarto vangelo.Prima di indagare questi nostri versetti è allora forse utile fare un piccolo passo indietro per cogliere cosa si sono detti Gesù e Nicodemo fino a questo punto.
La storia di Nicodemo e del suo sopraggiungere di notte, con tutti i significati simbolici che sono stati attribuiti a questa oscurità, sono fin troppo noti; per questo preferiamo addentrarci subito sulle parole. Il primo a parlare è Nicodemo («Rabbi, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui», Gv 3,2), che però almeno esplicitamente non pone nessuna questione a Gesù, non gli fa infatti nessuna domanda diretta. Dalla riposta di Gesù però («In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio», Gv 13,3) si può evincere facilmente che c’era un’implicita problematica che turbava questo fariseo, capo dei giudei e maestro in Israele e che essa suonava più o meno in questi termini: Che cos’è necessario alla salvezza? Come si entra nel Regno? O più precisamente – dato che stiamo parlando di un rabbino fariseo – quali opere bisogna compiere per entrare nel Regno?
In sostanza, è la stessa problematica del capo giudeo di cui parla Luca nel capitolo 18 al versetto 18: «Che cosa devo fare per ottenere la vita eterna?» o del giovane ricco in Matteo: è cioè il problema dei problemi, il campo su cui il contrasto con Gesù diventerà forte, radicale, fonte di incomprensioni… tanto da risultargli fatale.
Infatti nei versetti che seguono («In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto», Gv 13,5-7) emerge con chiarezza la prospettiva evangelica di Gesù contrapposta a quella farisaica di Nicodemo: «Non sono le opere dell’uomo a inaugurare i tempi messianici e il Regno, ma le opere di Dio! […] È quest’opera di Dio, non la buona volontà dell’uomo, o le sue azioni, o anche la sua conversione, che gli permettono di entrare “nel Regno di Dio”. La “carne”, cioè l’umanità nella sua povera nudità, abbandonata a se stessa, non può che offrire risultati di “carne”, cioè di umanità mortale e fragile. “Non può” arrivare a compiere opere di tipo superiore e divino, come l’ingresso nel regno, partecipazione alla vita di Dio nel mondo stesso di Dio. Solo Dio, mediante il suo Spirito, lo può realizzare. […] Siamo così nel cuore stesso del vangelo: la divina iniziativa per la salvezza dell’uomo e la sconfitta di tutte le (farisaiche) presunzioni umane» [M. Laconi, in il racconto di Giovanni, pp. 76-78].
Ed è proprio qui che si inseriscono i versetti di questa nostra quarta domenica di Quaresima.
Essi, come si diceva, rischiano, ad una prima lettura, di apparire come bruscamente discostanti rispetto al discorso finora portato avanti, ma in realtà sono semplicemente un suo approfondimento.
La prospettiva proposta da Gesù a Nicodemo infatti attende ancora di essere chiarita: Cosa significa nascere dallo Spirito? O rinascere dall’alto? Di che tipo di uomo nuovo sta parlando Gesù? E in che senso è una condizione non da conquistare, ma da accogliere?
Ecco dunque questa sorta di digressione teologica che spazza definitivamente ogni rigurgito farisaico (quali opere devo adempiere per salvarmi?) e fa risplendere l’annuncio evangelico: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui».
Ecco il lieto annuncio: l’entrare nel Regno (che tradotto nel nostro linguaggio potrebbe suonare come il trovare senso e pienezza alla vita, il far tralucere da essa autenticità e dedizione, il lasciarsi inondare d’amore rilanciandolo a costo della vita) è insieme frutto dell’iniziativa di Dio e suo desiderio sull’uomo; la buona notizia è perciò questa: che chi ha in mano la storia (Dio) sta dalla parte dell’uomo e non da tifoso lunatico o da freddo calcolatore, ma come un padre, disposto anche a dare suo figlio, per gridare il suo amore per l’uomo. Un Padre dunque che non può essere confuso con un giudice che misura le nostre opere per valutare dove andremo a finire… Non è questo il Dio di Gesù: quello continua a proclamarsi interessato solo ad una relazione d’amore con l’uomo!
Noi invece siamo ancora qua a chiederci come evitare di andare all’inferno, che fare per salvarci l’anima, ecc…
E da questo punto di vista è paradossale la proporzionalità inversa tra l’uso (e abuso) dei versetti del vangelo di oggi («Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna») per reclamizzare eventi cattolici o titolare i volantini della parrocchia, e la consapevolezza media dei cristiani del loro contenuto autentico. Se fossero colti davvero, se fossero davvero presi sul serio, se con fiducia ci si affidasse alla promessa che contengono, avrebbero una portata talmente ribaltante da sconquassare il mondo!
Credere cioè che c’è qualcuno che tiene in mano le nostre vite e che lo fa con amore di Padre, senza una doppia faccia punitiva o retributiva, tanto da dare il suo Figlio unigenito per la nostra vita, sarebbe davvero liberante: libererebbe dalla paura della morte, dalla paura del peccato, dalla paura dell’inferno, dalla paura dell’incompiutezza, dalla paura dei fallimenti… Instaurerebbe davvero una possibilità di vita sempre rinnovata, rigenerata, rinata (dall’alto, appunto!)…
Non era questo infatti che come Chiesa avremmo dovuto annunciare? Non era di questo che avremmo dovuto rendere persuasi gli uomini e le donne che hanno attraversato 2000 anni di storia? Liberandoli ad una vita che fosse davvero Vita?
Era la bellezza che dovevamo fargli intuire, sentire, scegliere e vivere: la bellezza di una vita fondata su un amore solido, irreversibile, eterno e per questo abilitata a sua volta a farsi irradiazione di quel vero amore per gli uomini di cui parla Etty Hillesum, capace perfino di perdere la vita, per ritrovarla.
Ma forse era troppo difficile: era difficile convincere del bene e col bene e allora la nostra predicazione si è concentrata sull’evitare il male, pensando che non fosse un obiettivo poi così diverso da quello di Gesù… Abbiamo allora inventato l’inferno e le sue pene, perché sempre più ci siamo accorti che le persone – e anche noi – non credevano più che fosse più bello l’amore incondizionato, di una vita in cui accaparrarsi il meglio a scapito degli altri: troppo rischioso per la propria pelle e troppo impegnativo per esserci sempre e incondizionatamente. Ecco che allora si è iniziato a pensare – e si continua tutt’oggi, fuori, ma purtroppo anche dentro nella Chiesa – a credere che il male sia indubbiamente molto meglio, che però – va beh – c’han sempre detto che non va bene e allora tentiamo di contenerlo, di migliorarci un po’, di non esagerare… arriviamo fin dove arrivano tutti, giusto per “saper stare al mondo”… Sarebbe molto meglio avere tante donne che una sola, però va beh, cerchiamo di fare i bravi e concederci solo qualche scappatella ogni tanto; sarebbe bello poter fare l’amore con tante donne prima di sceglierne una, però va beh, cerchiamo di contenerci un po’ e proviamo solo con qualcuna; sarebbe molto meglio prendere un sacco di soldi in più, però va beh truffare è troppo, limitiamoci a qualche aggiustamento sul sette e quaranta; sarebbe molto meglio avere il posto del mio collega che prende di più, però va beh fare carte false è troppo, limitiamoci a “lavorarci” il capo; ecc… ecc… ecc…
E non ci accorgiamo che tutti questi nostri “va beh limitiamoci a”, cioè questi nostri piccoli rattoppi a un male che sentiamo seducente e che però tentiamo di limitare per “paura delle conseguenze” (terrene ed eterne), non hanno niente a che fare con il vangelo e la proposta di Gesù, che proclamava qualcosa di decisamente altro: la possibilità di una vita autenticamente buona/bella (ovviamente non in senso morale ma di pienezza esistenziale).
Non a caso è curioso come oggi i ragazzi non sognino più in grande: ho chiesto a circa cento sedicenni chi volessero diventare – non tanto cosa volessero fare nella vita, ma chi volessero essere – e le loro risposte mi hanno allibita: non perché abbiano scritto chissà che cose oscene o aberranti… ma perché hanno quasi tutti scritto cose normali, senza sogni, senza idealità. Non voglio scadere nei luoghi comuni, eppure mi pare questo il rigurgito attuale del percorso descritto sopra: i ragazzi hanno smesso di sognare in grande (nessuno o pochi credono per esempio nel grande amore di coppia: fare una famiglia risulta un obiettivo equiparabile a trovare un buon lavoro) e contemporaneamente hanno smesso di credere agli spauracchi infernali che le chiese hanno finora proposto per “farli venire a messa”… ma ovviamente dopo dieci volte che provano e vedono che continuano a vederci benissimo… chi glielo fa fare di gestirsi diversamente?
Forse è davvero ora di piantarla con tutta la coreografia del sacro e del religioso, con un ordine simbolico che non sa più far esperire il reale, e tornare, noi adulti per primi (adulti, sia dal punto di vista personale che istituzionale) a riscoprire e incarnare l’autentica proposta evangelica. Ma per persuadere gli altri che il Dio di Gesù è Dio così, per fargli intuire che c’è una conversione da fare nella loro idea di Dio e dunque di uomo e dunque di vita e dunque di morte, e dunque di felicità e dunque di amore e dunque di volto dell’altro, ecc… le parole sembrano non servire più… Forse è il tempo di creare nuovi spazi, dove il vangelo passi attraverso il bene di persone che insieme scelgono di legare il destino tra di loro e a un uomo (che era anche il Figlio di Dio) morto per amore… chissà che questi piccoli nuclei amanti, irraggiando un po’ di bene intorno non riescano a sanare almeno un po’ le ferite di questa nostra umanità disillusa, impaurita, senza speranza.
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