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giovedì 12 giugno 2008

L'elezione: essere “a favore di terzi”

La tematica scottante che le letture di questa XI domenica del tempo ordinario ci propongono è quella dell’elezione: il libro dell’Esodo infatti ci parla dell’alleanza al Sinai di Dio col suo popolo Israele e il Vangelo di Matteo ci racconta la chiamata dei dodici...
La prima cosa che balza allo sguardo è come il punto di vista della narrazione sia sempre quello degli eletti. Sono loro a raccontarne la vicenda, a tentare di esplicitarne il senso, a dirne la pregnanza, mai gli altri. E questo va detto per evitare di guardare il testo da un punto prospettico a lui eterogeneo: non si possono qui chiamare in causa osservazioni o commenti lamentanti un atteggiamento di presunta superiorità, di mancata attenzione al punto di vista di quegli altri che eletti non sono o non si sentono; non si può arrivare a considerazioni banali (perché inconsistenti e prive di qualsiasi supporto argomentativo), del tipo “Ma se questi sono i testi dei cristiani, che dicono che bisogna voler bene a tutti, come mai parlano di un popolo preferito agli altri, di uomini chiamati e di altri no?”... “Saranno anche loro tra i tanti che predicano bene e razzolano male!”...
E invece no! Perché la logica evangelica è qualcosa di ben più serio e complesso di un panagapico “Vogliamoci bene e cerchiamo di essere buoni”... essa infatti ha la pretesa di arrivare a toccare la struttura antropologica, i fondamenti della vita individuale, ciò per cui si ama, ci si decide, ci si determina...
E dunque non deve scandalizzare (nel senso etimologico di farci inciampare) il punto prospettico con cui sono scritti questi testi: sono infatti l’attestazione scritta della vicenda degli eletti, di coloro che raccontano della loro struttura antropologica (di singoli, di comunità, di popolo) toccata da un sussulto dello Spirito.
E però, chiarito questo, bisogna essere altrettanto trasparenti nel mostrare quelle che ad un primo sguardo sembrano ambiguità non di poco conto: perché l’elezione? Perché questa scelta, che ai nostri orecchi di figli della carta dei diritti dell’uomo (in cui tutti gli uomini– almeno sulla carta – sono rigorosamente ritenuti uguali) suona così discriminante? Che ne è degli altri? E della prospettiva universalistica dell’amore (di Dio e dell’uomo)?
Certamente bisogna riconoscere che l’immediata identificazione di elezione e discriminazione, che emerge dalla logica delle domande appena riportate, deriva dal fatto che storicamente (sia per Israele, sia per la Chiesa) le cose siano andate proprio così: il ritrovarsi tra gli eletti, ha scatenato (inevitabilmente?) un gelosia del proprio dono, tanto da ritenerlo un privilegio che necessitava un’esclusione e dunque una condanna.
Ma il fatto che le cose siano andate così storicamente non può essere troppo banalmente liquidato facendo riferimento all’inettitudine degli uomini, a considerazioni sulla loro moralità o spiritualità... Siccome sembra che in qualche modo questa tensione storicamente sia sempre presente, ovunque ci sia una forma di elezione (anche cristiana), bisogna che ci sia qualcosa nel marchingegno umano che ne rende ragione...
La questione è fondamentale, nel senso che, ancora una volta, interpella il fondamento del nostro pensarci come uomini (inestricabilmente legato al nostro pensare Dio). L’elezione-discriminante nasce infatti dal bisogno umanissimo di salvarsi la vita. E quindi da un’immagine di dio che non lo fa: che oggi ti elegge, ma potrebbe cambiare idea. Ecco perciò il dinamismo della custodia gelosa del privilegio. A scapito degli altri (mors tua, vita mea), sui quali inevitabilmente si ha uno sguardo di rivalità, competizione, lotta per la sopravvivenza.
Ma... il Dio che ci aveva rivelato Gesù... non era così...
Anzi questa logica mondana è proprio quella che lui vuole scardinare, per instaurare la sua, quella evangelica da cui anche l’elezione (la sua) trae senso nuovo!
Senza tanti giri di parole lo si capisce subito dall’incipit del brano di vangelo: «In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore».
Ecco l’elemento che segna l’irriducibile differenza tra l’elezione divina (secondo la logica di Dio) e quella umana: il suo essere a favore di terzi.
Questo è l’elemento discriminante! È su qui che si può valutare se si è dalla parte giusta (quella di Gesù) o no.
Egli infatti, come era anche per tutto l’AT con Israele (anche se lì forse con qualche ambiguità, fumosità, magmaticità in più...), non porta certo avanti l’elezione-discriminante, bensì quella del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».
Quella di Gesù non è un’aggiustatina alla mentalità umana, un insieme di indicazioni etiche per il quieto vivere, ma un capovolgimento della logica di fondo (fondante, fondamentale!): dall’elezione-discriminante all’elezione-crocifissa. Questa è l’unica vera per lui e l’unica che noi dobbiamo intendere leggendo le sue parole. Fuori da qui ci ingarbugliamo in tutti i discorsi di prima (che hanno fatto annaspare per secoli anche la teologia cattolica): che rapporto c’è tra elezione e grazia? Tra universalismo e chiamata? Tra intra ed extra ecclesiam? Tra consacrati e laici? Eccetera...
Il problema è che a noi viene immediatamente da mettere su quegli altri occhiali per leggere la realtà: quelli dell’elezione-discriminante... e il motivo l’abbiamo detto: il bisogno di salvarsi la vita (che vuol dire anche solo il bisogno di compensazioni, gratificazioni.... tutti indizi – anche se va detto con tanta trepidazione perché poi ci siam dentro tutti... – della scarsa fiducia di essere fondati da altro, su un Altro).
Ecco invece la prospettiva con la quale le letture ci vorrebbero plasmare la testa e la pancia: quella di un’elezione per gli altri. Non un’elezione, con tutto il suo corredino di privilegi, posizioni, onori, che poi con magnanimità distribuiamo agli altri; ma un’elezione, che è un essere scelti per stare dalla parte degli altri: eletti a essere per gli altri! E la chiamavo elezione-crocifissa, perché non c’è niente di più normante e scarnificante come la fedeltà alla faccia dell’altro! È una dedizione che va a morire: che o è aperta alla possibilità di morire per l’altro o– semplicemente – non è.
E se questa è la prospettiva si capisce bene perché a essere chiamati non sono né i più bravi (Dt 7,7: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli»), né i più religiosi (i discepoli sono pescatori, pubblicani, traditori), ma coloro che, per vicende storiche, possibilità, fortuna, codice genetico (insomma per grazia), si ritrovano coinvolti in una dinamica d’amore che li cambia dentro (Mc 3,14 «Ne costituì Dodici che stessero con lui»). E da lì non fan più ritorno indietro. E diventano «operai nella sua messe» (che differentemente da quello che ci viene subito in mente non sono tout court i preti!), cioè con le mani, gli occhi e il cuore, immischiati appassionatamente con tutti quelli che il codice genetico, la mamma, la fortuna, le condizioni sociali (e chi più ne ha più ne metta...) non hanno invece reso eletti, privilegiati, fortunati, graziati, perché liberati dentro dall’amore: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni».
Ma che confini ha questa messe? Gesù in Matteo inizialmente dice: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele», ma poi una donna straniera pare fargli cambiare idea: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli», «Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia» (Mc 7,28-29), inaugurando una prospettiva che si svilupperà lungo la vita di Gesù (come rilevabile dalle sue scelte concrete: va lui stesso dai Samaritani e dai pagani) e che trova il suo esponente più compiuto in Paolo, il quale arriva a proclamare:: «Cristo morì per gli empi»! Ecco dunque i confini della dinamica dell’amore: è per tutti! La messe è l’umanità intera.

venerdì 11 gennaio 2008

La predilezione che porta a morire

Leggendo i testi che la Chiesa ci propone per questa domenica, dedicata al Battesimo del Signore, ci si accorge subito che il filo conduttore che li lega è il tema della predilezione.
La prima lettura, in questo senso, esordisce in modo esplicito: «Così dice il Signore: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”». Ma pure il Vangelo, che riferisce la profezia a Gesù, non è da meno: «Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”». E infine anche il Libro degli Atti, pur con sfumature linguistiche diverse, ripresenta lo stesso valore semantico, parlando di Gesù come «il Signore di tutti», come colui che «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza».
I termini con cui questa predilezione è espressa, tra l’altro, sono da prendersi in senso forte:
- i significati di eletto (Is 42,1) e di amato (Mt 3,17) in greco resi rispettivamente con εκλεκτός (eklektos) e con αγαπητός (agapetos), letteralmente sarebbero infatti: scelto, eletto, adorato, stimato, caro, preferito, degno di amore;
- allo stesso modo l’idea del compiacimento (Is 42,1 e Mt 3,17), in greco ευδοκέω (eudokeo), ha la valenza forte di sembrare buono a qualcuno, essere un piacere per qualcuno, ritenere buono, scegliere, preferire, essere ben compiaciuto di, prendere piacere in, essere favorevole verso qualcuno;
- e infine lo stesso concetto di consacrazione, espressa in Atti 10,38 fa riferimento al verbo greco χρίω, ungere, il cui senso forte è immediatamente evidente se si nota che da esso deriva lo stesso termine Cristo.
Si sta parlando allora di un personaggio di grande consistenza, che ha tratti molto allettanti: chi in qualche modo non desidera essere il prediletto di qualcun’altro? Chi non rimpiange il tempo in cui è stato amato, preferito in modo speciale? Chi non vorrebbe essere sempre nella condizione di essere il compiacimento di un altro?
Eppure, se possibile, questa prospettiva, che già così riscalda i nostri cuori, qui addirittura ha un superamento: il personaggio in questione infatti non solo è eletto, amato, consacrato, ma lo è da Dio in persona! È Dio stesso che si compiace di lui!
E immediatamente la nostra immaginazione prova a percorrere il senso di queste parole, segnate ora, proprio perché hanno Dio per origine, da definitività, totalità, incommensurabilità… Chi può essere questo prediletto? Che cosa avrà mai fatto per esserlo? E soprattutto… come sarà avere dalla propria parte niente meno che Dio («Dio era con lui» At 10,38)?
La nostra fantasia però, che immediatamente associa l’idea di predilezione a quella di personale privilegio, va tenuta a bada, perché proseguendo la lettura dei passi che la liturgia ci propone, scopriamo che l’eletto biblico è connotato diversamente da come ce lo aspetteremmo…
Isaia infatti di questo servo eletto dice che «porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra».
Ma come? Che razza di prediletto è questo? Di lui non è detto niente… non è riportato nessun effetto vantaggioso che gli deriva dalla sua situazione di privilegio… non c’è nessuna logica di esclusività che lo separa dalla massa di tutti gli altri… anzi… tutto quanto è detto di lui si riferisce al bene di altri…
Inoltre il profeta sembra proprio convinto che la logica sia questa, tant’è che prosegue dicendo: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre».
Questa logica inaspettata da parte di un privilegiato, questa logica cioè per cui l’essere preferito è a vantaggio di altri, porta necessariamente a un rimettere in discussione il nostro modo di pensare l’essere scelti… spesso così arroccato in una separatezza dal resto del mondo… anche confessionalmente e vocazionalmente parlando…
Ma non solo… da ripensare è anche l’identità di colui che predilige… che predilezione è infatti quella i cui effetti benefici trasbordano rispetto al prediletto? In fin dei conti, che Dio è il Dio che di Gesù dice «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» e poi lo lascia morire in croce per la salvezza di ogni uomo? Qual è la logica che ci sta dietro?
A dire il vero, anche se ogni volta ci sconvolge le impalcature mentali, è proprio la logica di sempre di Dio… quella dell’elezione inclusiva e mai esclusiva («Dio non fa preferenze di persone», At 10,34)… che è valsa per Abramo, per Mosè, per Davide, per il popolo di Israele … scelti non per un privilegio discriminante che escludeva gli altri, non per qualche particolare merito, non per una dinamica elitaria che dividerebbe il mondo in salvati e dannati, buoni e cattivi, giusti e ingiusti, puri e impuri… Ma scelti invece per essere poli di irradiazione di un amore che, se non può che essere sperimentato nella propria individualissima singolarità (privilegio), chiede però, per inverarsi, di rompere gli argini e di essere resa possibile nell’esperienza personale di ogni uomo.
Questo è il senso dell’elezione! Ed è proprio per questo che l’elezione è sempre a vantaggio degli altri… di Gesù infatti Pietro in Atti dice «passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo».
Ma non è ancora tutto… I testi sembrano aprire lo spiraglio ad altro…
Non solo la logica dell’elezione è a vantaggio degli altri, ma addirittura, stando al Vangelo, è a svantaggio del privilegiato…
Cerco di spiegarmi: indubbiamente c’è un privilegio nella predilezione, soprattutto in quella divina. È l’esperienza di un’intimità con Dio talmente profonda da essere conformante, per dirla alla san Paolo… Eppure… l’entrare nella logica di Dio, nel suo Spirito, nella sua essenza, nella sua comunione, nel suo orizzonte di senso, porta l’eletto a una definitività, a una totalità, a una incommensurabilità dell’amore che quando si scontra col mondo diventa per lui mortifera…
L’entrare a far parte del circolo amoroso del Dio-Trinità implica l’assunzione anche di quell’aspetto dell’amore che è la sua debolezza, la sua fragilità, la sua feribilità…
Essere prediletti da Dio allora vuol dire finire in croce…
E difatti il versetto che segue immediatamente la conclusione del brano degli Atti che leggiamo in chiesa domenica, suona così: «E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce» (At 10,39).
Le letture di questa domenica allora sono un richiamo forte a qual è il modo evangelico di essere scelti! La Chiesa, giustamente detta il nuovo Israele, il nuovo popolo eletto, di fronte a questi testi biblici non può non fermarsi a riflettere sul suo modo di vivere l'elezione… Troppo spesso infatti cattolico (letteralmente per tutti, universale, dal greco κατά όλος) è diventato sinonimo di chiusura, arroccamento, separatezza discriminante. Una logica che poi nella vita quotidiana si ripercuote nella necessità di gerarchizzare, di separare gli ambiti (sacro – profano; laico – consacrato; ordinato – cristiano di base), di delimitare le identità (maschio – femmina; giovane – maturo; normale – diverso)… tutte cose che mi pare abbiano poco a che fare con il dono di un’intimità con il Dio di Gesù Cristo nello Spirito, che si fa irradiazione d’amore a vantaggio di ogni altro essere umano… anche a costo della vita…
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