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venerdì 1 maggio 2009

E adesso che Gesù è risorto?

In questa quarta domenica di Pasqua, la Chiesa continua ad invitarci a riflettere sul mistero della Risurrezione. A differenza delle domeniche precedenti però, la liturgia non presenta racconti di apparizioni del risorto, ma preferisce intercettare la stessa questione partendo da altri punti di vista. In particolare essi potrebbero essere riassunti in questi termini: innanzitutto – facendo riferimento alla prima e alla seconda lettura – Qual è il rapporto dei discepoli (e dunque anche nostro) con questo Cristo ormai risorto («nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato»)? Come cioè egli agisce ancora nella storia? In che senso il suo nome è l’unico, sotto il cielo, in cui è stabilito che siamo salvati? E cosa significa sul fronte umano questo essere salvati? Questo già essere figli di Dio? Questo essere associati alla sua risurrezione? In poche parole: Che ne sarà di noi? Cosa saremo? La risurrezione è qualcosa che riguarda solo lui o in qualche modo – e se sì in quale modo – coinvolge anche noi?
Sull’altro fronte invece, quello del vangelo, la questione suona piuttosto in questi termini: Qual è la vera identità di Gesù Cristo, il crocifisso risorto? Quali sono i termini corretti per comprendere la sua morte e risurrezione? E retrospettivamente la sua storia? Dunque per dire chi egli sia?
Evidentemente il perno delle questioni poste dalle letture nel loro insieme sta in questo secondo ordine di domande: la risposta ad esse infatti apre alla corretta lettura anche delle prime, dona loro la giusta prospettiva, le inserisce in un orizzonte univoco.
Come infatti Gesù risorto sia legato efficacemente alla storia che prosegue e a noi e cosa – in Lui – noi saremo, non sono domande disgiungibile da chi egli sia stato e dunque da quale sia la sua identità: il crocifisso infatti è il risorto; l’identità storica di Gesù coincide con la sua libertà di Figlio di Dio.
È come, cioè, se la Chiesa ci invitasse a lasciar trapelare dal cuore quelle domande che l’evento di risurrezione pian piano fa emergere, le stesse in qualche modo che hanno interrogato anche i discepoli della prima ora (Adesso che è risorto Gesù sarà ancora con noi? O la grazia della risurrezione lo allontanerà per sempre dalla nostra esperienza? Ora che ha vinto la morte si dimenticherà di noi – suoi discepoli che lo abbiamo tradito? Se ne andrà abbandonandoci al non senso della storia?), e a rintracciarne il corretto orizzonte di senso nella storia di Gesù.
E – come già accennato nella disamina dei testi – il problema vero diventa: Chi è veramente Gesù? È uno di cui ci si può fidare? O è uno che – vinta la morte – ci mollerà qui? È uno che “apposto lui apposto tutti” o uno che ha a cuore il destino degli uomini? Dei suoi? Anche se traditori?
Inevitabilmente dunque il problema post-risurrezione diventa il problema dell’affidabilità di Gesù: ecco perché – anche storicamente – il cristianesimo nasce sul ripercorrere, alla luce della risurrezione, la storia umana di Gesù. Ecco perché – per esempio – nella quarta domenica di Pasqua ci ritroviamo a leggere un testo del capitolo 10 di Giovanni, quando si racconta (ma sempre a posteriori) di Gesù vivo nella sua dimensione terrena. Con un unico chiaro punto fermo: per quanto ci sia una discontinuità tra il corpo di Gesù in carne ed ossa e quello risorto che vedono i discepoli durante le apparizioni, il risorto è il crocifisso, c’è identità cioè tra il prima e il dopo di Gesù: è la stessa libertà umano-divina, è la stessa intenzione amante, la stessa attuazione esperienziale, lo stesso uomo-Dio.
Ecco perché per cercare l’affidabilità del risorto – e dunque la comprensione del nostro destino dopo la sua assenza fisica nel mondo – è necessario ripercorre la sua affidabilità di crocifisso, e di predicatore, e di taumaturgo, e di profeta, e di Maestro, e di amico, ecc… in una parola è necessario ripercorrere l’affidabilità della sua storia.
Come dicevamo infatti non è un caso che la liturgia proponga il testo di Giovanni 10: in esso infatti è contenuta una delle più chiare auto-dichiarazioni di Gesù sulla sua identità, «Io sono il buon pastore».
Di fronte al continuo ritorno della messa in discussione dell’affidabilità di Gesù – e in lui di Dio – che sale nel cuore al discepolo (durante la vita di Gesù, durante la sua morte, durante la sua risurrezione: prima perché vedevano solo un uomo, poi perché vedevano solo un uomo morto, poi perché non vedevano più nulla…), la dichiarazione di Gesù è inequivocabile: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore».
Di fronte cioè al sempre ritornante dubbio del serpente per cui il vero volto di Dio nei confronti dell’uomo sarebbe quello del dominio, quello di chi non vuole che conoscano il bene e il male per potergli essere superiore, quello di chi dietro alla faccia pietosa nasconde un’indole prevaricatrice, giudicante, che te la fa pagare, la risposta di Gesù è perentoria: l’unico volto vero e reale di Dio è quello della dedizione. Egli infatti non è come il mercenario che al sopraggiungere del pericolo abbandona le pecore!
Egli è il pastore, che conosce ciascuna per nome (Gv 10,3), che cammina davanti ad esse, e loro lo seguono perché a loro volta conoscono la sua voce (Gv 10,4); ma soprattutto egli – proprio in virtù di questo rapporto – è colui che dà la vita per loro, è colui che cioè nel pericolo non abbandona, che è disposto a mettere a repentaglio la propria incolumità per la loro… appunto è affidabile.
Tutto il nocciolo della fede cristiana e della fede nella risurrezione ruota intorno a questo: al dar credito a questa affidabilità di Gesù. Questa è la questione delle questioni: se la sua vita, le sue parole, i suoi gesti, la sua morte («Io dò la mia vita. […] Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso»), la sua risurrezione, rivelino un Dio affidabile. Sull’assenso che diamo o non diamo a questa affidabilità si gioca anche la qualità delle domande – e dunque delle risposte – poste prima (Qual è il rapporto dei discepoli – e dunque anche nostro – con questo Cristo ormai risorto? Come cioè egli agisce ancora nella storia? In che senso il suo nome è l’unico, sotto il cielo, in cui è stabilito che siamo salvati? E cosa significa sul fronte umano questo essere salvati? Questo già essere figli di Dio? Questo essere associati alla sua risurrezione? In poche parole: Che ne sarà di noi? Cosa saremo? La risurrezione è qualcosa che riguarda solo lui o in qualche modo – e se sì in quale modo – coinvolge anche noi?).
Esse infatti non possono essere considerate in modo estrinseco: come se ci fosse stata la storia di Gesù, chiusa con la risurrezione, e poi noi staccati da questa esperienza a porci domande disincarnate sul nostro destino terreno ed eterno, come invece a volte noi facciamo: considerando Gesù ormai assente – dopo la risurrezione e l’ascensione –, ormai etereo, ormai insignificante sulla nostra storia di oggi (come cioè se fosse indubbiamente un grande maestro di ieri, le cui indicazioni possono valere ed essere attualizzate anche oggi, ma col quale non è possibile nessun rapporto effettivo) e ponendo domande a un dio senza volto, a qualcuno di più grande di noi che si spera ci sia e accontentandosi di risposte preconfezionate e generiche da parte di un apparato dottrinale in cui non si crede ma si spera: “I preti dicono che si risorge dopo la morte… mah… speriamo… intanto pensiamo a arraffare il più possibile nell’aldiqua, che non si sa mai…”.
In realtà tutto il tentativo storico di Gesù, riassunto magistralmente nell’auto-dichiarazione sulla sua identità riportata nel testo di Giovanni 10 («Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore»), era stato quello di «attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano»; era stato quello cioè (attraverso le sua parole, i suoi gesti, il suo dare la vita…) di mostrare un volto di Dio univoco, non impersonale o ambiguo: ma univoco: Dio è Abbà, Padre; è la libertà – eternamente determinatasi per la cura dell’uomo – che chiede relazione: «Più che rappresentare un elenco di immagini destinate a comporre il quadro scolastico di una definizione di Dio e della sua giustizia» Gesù sembra voler «attivare un processo di interno confronto fra l’immagine dell’abbà e la rappresentazione faraonica di Dio coltivata nel fondo della nostra coscienza. Una sorta di estremo e radicale confronto fra il suo inconscio e il nostro: davanti al quale dobbiamo prendere posizione» [Sequeri].
Questa presa di posizione è la fede: dar credito alla storia singolarissima (non generica o per sentito dire) di quell’uomo-Dio che ha vissuto solo amando, che dunque ha un volto concreto, interpella a partire da un volto ben definito, e chiama a uno sbilanciamento la nostra altrettanto singolarissima identità. Riconoscerlo come affidabile e dunque giocarsi per Lui, accettare di intrecciare la nostra vita alla sua, determinarsi sempre per la cura dell’uomo e mai per il dominio – sapendo che questo ci condurrà alla morte: questa è la risposta alle domande poste all’inizio. Questo infatti è il suo modo di rapportarsi a noi da risorto, questo è il suo modo di agire nella storia, questo significa essere salvati, associati alla sua risurrezione; questo è quello che ne sarà di noi; questo è quello che saremo; questo è il modo in cui il suo vivere-morire-risorgere coinvolge anche noi: il decider-si (il decidere di noi stessi) per Lui, ma appunto non in senso sentimentale e tanto meno devozionale, ma con la propria storia, interiorità, decisionalità, affettività, ecc…
La corretta prospettiva per entrare nei misteri della vita cristiana (per esempio la risurrezione) e sulle domande sul nostro versante che essi fanno emergere (che ne sarà di noi?) è dunque quella dell’acconsentire ad un entrare in relazione con Gesù, con quella sua libertà, storicamente realizzata e visibilizzata, nella sua vita terrena: finché infatti non acconsentiremo a dare del “tu” a Dio, incontrandolo come quel volto univoco di dedizione per l’uomo che la storia di Gesù ha fatto trasparire, saremo sempre un passo al di qua dalla fede: e nessuna devozione, irreprensibilità morale o costruzione mentale potrà farci colmare questa distanza. Ciò che “serve” infatti è lo sbilanciamento-affidamento della libertà.

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