Il racconto del Vangelo di oggi gira attorno alle cinque domande che esprimono lo stupore e poi lo scandalo della gente di Nazareth: “Da dove gli vengono queste cose, questa sapienza, questi prodigi? – perché sappiamo già tutto di lui e della sue origini, qui tra noi ! Gesù è ferito e deluso. Perché, invece, il suo vangelo viene da fuori, ha un’altra origine. Semina la sua verità nel desiderio più profondo dell’uomo, ma gli dà una risposta imprevista, disomogenea, refrattaria ad ogni cattura mondana. C’è «un di più», una rivelazione che non è il frutto della tradizione umana. La quale, proprio perché è ricca già di una esperienza millenaria di ricerca di Dio, si sente minata alle radici dall’atteggiamento e dal messaggio di Gesù. “Lo scandalo sta nel fatto che si rifiuta con ragioni penultime ciò che con ragioni ultime (che si conoscono molto bene!) si dovrebbe accettare” (Hans Urs von Balthasar). La banalità tonta della “normalità”, che non vuol vedere nulla al di là del “si è sempre fatto così!”, contesta ogni profezia, tanto più quella casalinga. Ogni generazione, che obbedisce ciecamente alla letale logica immunitaria della carne, dissipa così i suoi profeti, che sono l’organo sensore del sistema immunitario dello Spirito, con cui l’istituzione è avvertita della conclusione di un momento storico e dell’apertura inarrestabile di prospettive nuove… Un figlio d’uomo, con mani di carpentiere, segnato dalla fatica, nato e cresciuto in una famiglia dai volti noti, nulla di straordinario… si mette a fare il Figlio di Dio: ecco lo scandalo della fede. Eppure, che la forza della Parola si rivesta di debolezza e si nasconda nella fragilità dell’umano, sta tutta la potenza eversiva del vangelo – il mistero dell’incarnazione – l’abisso della misericordia di Dio.
…si meravigliava della loro incredulità
Effettivamente quelli della cui incredulità Gesù si meraviglia, sono tutti ‘credenti’ in Dio, senza dubbi di fede, anzi stupiti della sua sapienza – ma per niente dubbiosi, però, della propria fede: di quale incredulità, dunque, si tratta? Quale fede gli mancava? Anche gli ascoltatori di Ezechiele , che il profeta apostrofa come testardi e ribelli alla voce di Dio, sono credenti. Eppure di loro Dio dice: … gli Israeliti non vogliono ascoltar te, perché non vogliono ascoltar me! Al centro delle letture di oggi (Ezechiele – Paolo – Gesù a Nazareth) c’è il conflitto strutturale tra il profeta che domanda un “nuovo affidamento” del cuore ad un “annuncio nuovo” dell’amore di Dio per il suo popolo (fede “evangelica”) – e i concittadini del profeta, con una fede “religiosa” (ereditata dai padri), diventata ormai elemento strutturante dell’assetto sociale del gruppo. Una fede che, proprio perché ha impregnato inscindibilmente le varie componenti ideologiche, politiche economiche della nazione, letteralmente “ha fatto il suo tempo”, cioè ha intriso l’epoca e la generazione di persone che l’hanno accolta, ma è divenuta ormai una prerogativa discriminante a custodia del potere teocratico dei “credenti”, che proprio per questo si sono induriti nelle loro posizioni che ormai sono “mondane”, se pure suffragate dalla fede!
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito
Gesù stesso legge l’episodio di Nazareth non circoscritto al suo piccolo paese e alla sua esperienza personale, ma come segno del rifiuto dell’intero Israele e addirittura di ogni popolo: venne in mezzo ai suoi e i suoi non lo hanno accolto (Gv 1,11). Ancora una volta è qui sottesa la domanda centrale del vangelo di Marco: qual è l’origine di questa sapienza e di questa potenza? E cioè : Chi è quest’uomo? Le ragioni più profonde del cuore, affascinato dalla luce che emana da lui e dalle sue opere, farebbero dire: quest’uomo viene da Dio. Ma le ragioni del buon senso, del con/senso sociale che cementa la tribù, e in più, l’atavica amara sfiducia che niente di nuovo possa arrivare di più sicuro dell’ordine esistente, dicono il contrario: «Non è costui il carpentiere?». Questo è lo scandalo (cioè, l’inciampo) insolubile e inseparabile da Gesù stesso. Infatti la scelta di assumere “un’umanità” inserita nel normale contesto di un tessuto famigliare, lavorativo, popolare, in tutto simile agli uomini… è proprio il progetto salvifico del Padre: il cuore del Regno. D’ora in poi “credere in Dio” è affidarsi a questo volto d’uomo, che ravviva nei millenni il paradosso del cristianesimo, il paradosso dell’incarnazione: una presenza del Dio assoluto, (il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… il Dio promesso a tutte le genti) senza nome, senza immagine - ma adesso “relativizzato” in un volto e in un messaggio, espressi in una cultura individuabile nei suoi confini (limiti) storici e culturali, cronologici e geografici, ben delineati quanto precari e transitori- ai quali affidarsi per una salvezza che è nata e cresciuta lì, ma li sorpassa e diventa “eterna”. Perciò contemporanea ad ogni generazione passata e futura (cfr Fil 2,7ss). Fino a porre, di fatto, ai nazaretani di ogni tempo (anche noi siamo della sua stessa patria umana e del suo villaggio globale) la sconvolgente inversione della domanda: credi che Dio è Gesù? Allora si capisce quanto fosse facile diventare non solo riluttanti, ma ostinati e testardi, … per non lasciarsi coinvolgere anima e corpo, idee e senso della vita – nella tensione insanabile della proposta evangelica, tra la sublimità dei segni, parole ed opere di questo Messia, e la debolezza sociopolitica del suo mite ed inerme progetto di salvezza dell’uomo e del mondo. Comincia da qui, e influenzerà pericolosamente la fede cristiana fino ad oggi, la reazione incontenibile di fronte a questa concretissima incarnazione: un processo storico, mai interrotto, partito dai suoi compaesani, e poi rispuntato in ogni chiesa. La tentazione, cioè, di “normalizzazione sacra” della tensione profetica del Cristo – il lento veleno di ri/divinizzazione dell’incarnazione (che è l’umanizzazione di Dio!), fino a renderla inutile (è il processo inverso alla dinamica della storia della salvezza: infatti rimanda al mittente il mistero dell’incarnazione sostanzialmente perché è troppo di disturbo dell’assetto storico socio religioso di un’epoca storica, faticosamente elaborato e consolidato e difeso… fino allo sterminio di chi osa insidiarlo.
Perché io non vada in superbia mi è stata messa una spina nella carne
…dentro tutto questo dramma, ecco infine la sofferenza di Paolo, anzi, prima, l’avventura personale di Gesù… e di ogni profeta. Esser profeti per i discepoli di Gesù non è presunzione! È dimensione essenziale del battesimo, purtroppo non a caso censurata! Perché il mestiere del profeta, suo malgrado, è mettere in conflitto permanente la coscienza ‘profetica’ con la coscienza religiosa stratificata nella società. Perciò, in prima battuta, il profeta è ben accolto dalla gente comune, poco ideologizzata e succube sofferente delle ingiustizie, ma è rifiutato dai capi, dai teologi, dai sacerdoti… cioè dal sistema. Il profeta è “necessariamente” perseguitato, perché non misura l’uomo secondo i criteri sociologici e gli equilibri fragili del potere nella tribù o nel paese, stabilizzati per la coesione del gruppo stesso. Ma misura l’uomo nella sua verità radicale assoluta (bisogni desideri diritti) ispirata solo alle idee e sentimenti… del Padre che è nei cieli. Per questo il cristiano/profeta denuncia ogni oppressione. E questo mette in crisi la visione culturale dominante, aprendola ad un assetto futuro diverso, a costo di apparire sovversivo! Ma il cristiano/profeta non è un nuovo maestro, è solo il testimone, oggi, del suo Maestro, che non si rivolge solo alla testa, ma propone il cambiamento della vita, del cuore, dei sentimenti: c’è infatti un solo modo storico di riconoscere e testimoniare la sua “divinità incarnata”: diventare oggi suoi discepoli! Cioè diventare, almeno un poco, profeti. E qui nasce il problema che mette a prova l’autenticità della fede in Gesù.
Ma non vi poté operare nessun prodigio…
Qui l’avventura del credente, di colui dunque che si è già sbilanciato per affidarsi alla “divinità” di Gesù il Cristo, s’imbatte in un dolore imprevisto. Il dolore di Gesù, del quale non aveva colto la ricaduta in chiunque crede in lui! Il dolore inconsolabile dell’uomo Gesù, che sente, soffre e piange la sua spina nella carne, la propria drammatica invincibile insufficienza “umana”a contenere, sanare, convincere, medicare l’immensa miseria degli uomini, che vagano come pecore senza pastore … Ma il profeta di basso profilo, quale siamo noi, a differenza di Gesù, annega nella fragilità senza fondo di una fede che si rivela sempre più immatura o comunque non del tutto pronta a portare la sofferenza, il conflitto, l’incomprensione … l’inadeguatezza della propria testimonianza. Perché i suoi puntelli erano ovviamente la condivisione, la stima, il sostegno del consenso di chi è “importante” nella nostra vita… e maschera l’inconsistenza della fede nuda. Il lumicino fumigante che ci rimane in cuore, acceso dalla amicizia per lui e poggiato sulla forza perdente del suo vangelo. Anche se non siamo perfetti e forse nemmeno tanto coerenti, né dobbiamo pretenderlo dagli altri, perché non è la nostra debole coerenza che ci salva.
«Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Già Paolo si è scontrato con questo paradosso dell’impotenza (mondana) della fede! «I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio»(1 Cor 1, 22s). Talora anche noi siamo talmente attenti a sottolineare l’incoerenza degli altri discepoli, nostri fratelli e sorelle, da farne degli antagonisti, fino a scordarci dell’essenza del Vangelo, che è venuto a togliere l’inimicizia… Talmente scandalizzati dai loro veri o presunti difetti da non voler aprirci al cuore dell’autenticità cristiana, per convincerci che l’essenziale non è la coerenza costi quel che costi, ma la misericordia. L’importante non è che l’altro colga il pezzo di verità sul quale io (profeta!) lo sfido oggi che io sia nel vero e lui fuori strada o viceversa… o un po’ per uno! Ma l’importante è, invece, la profezia suprema, quella che ha portato Gesù a donare la vita per noi e che ci ha così ‘profeticamente’ avvolti e lavati nella sua misericordia cieca – sicuro che questo bagno, soltanto, ci avrebbe aperto gli occhi a scoprire con infinita riconoscenza… il compimento della profezia cristiana.
…si meravigliava della loro incredulità
Effettivamente quelli della cui incredulità Gesù si meraviglia, sono tutti ‘credenti’ in Dio, senza dubbi di fede, anzi stupiti della sua sapienza – ma per niente dubbiosi, però, della propria fede: di quale incredulità, dunque, si tratta? Quale fede gli mancava? Anche gli ascoltatori di Ezechiele , che il profeta apostrofa come testardi e ribelli alla voce di Dio, sono credenti. Eppure di loro Dio dice: … gli Israeliti non vogliono ascoltar te, perché non vogliono ascoltar me! Al centro delle letture di oggi (Ezechiele – Paolo – Gesù a Nazareth) c’è il conflitto strutturale tra il profeta che domanda un “nuovo affidamento” del cuore ad un “annuncio nuovo” dell’amore di Dio per il suo popolo (fede “evangelica”) – e i concittadini del profeta, con una fede “religiosa” (ereditata dai padri), diventata ormai elemento strutturante dell’assetto sociale del gruppo. Una fede che, proprio perché ha impregnato inscindibilmente le varie componenti ideologiche, politiche economiche della nazione, letteralmente “ha fatto il suo tempo”, cioè ha intriso l’epoca e la generazione di persone che l’hanno accolta, ma è divenuta ormai una prerogativa discriminante a custodia del potere teocratico dei “credenti”, che proprio per questo si sono induriti nelle loro posizioni che ormai sono “mondane”, se pure suffragate dalla fede!
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito
Gesù stesso legge l’episodio di Nazareth non circoscritto al suo piccolo paese e alla sua esperienza personale, ma come segno del rifiuto dell’intero Israele e addirittura di ogni popolo: venne in mezzo ai suoi e i suoi non lo hanno accolto (Gv 1,11). Ancora una volta è qui sottesa la domanda centrale del vangelo di Marco: qual è l’origine di questa sapienza e di questa potenza? E cioè : Chi è quest’uomo? Le ragioni più profonde del cuore, affascinato dalla luce che emana da lui e dalle sue opere, farebbero dire: quest’uomo viene da Dio. Ma le ragioni del buon senso, del con/senso sociale che cementa la tribù, e in più, l’atavica amara sfiducia che niente di nuovo possa arrivare di più sicuro dell’ordine esistente, dicono il contrario: «Non è costui il carpentiere?». Questo è lo scandalo (cioè, l’inciampo) insolubile e inseparabile da Gesù stesso. Infatti la scelta di assumere “un’umanità” inserita nel normale contesto di un tessuto famigliare, lavorativo, popolare, in tutto simile agli uomini… è proprio il progetto salvifico del Padre: il cuore del Regno. D’ora in poi “credere in Dio” è affidarsi a questo volto d’uomo, che ravviva nei millenni il paradosso del cristianesimo, il paradosso dell’incarnazione: una presenza del Dio assoluto, (il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe… il Dio promesso a tutte le genti) senza nome, senza immagine - ma adesso “relativizzato” in un volto e in un messaggio, espressi in una cultura individuabile nei suoi confini (limiti) storici e culturali, cronologici e geografici, ben delineati quanto precari e transitori- ai quali affidarsi per una salvezza che è nata e cresciuta lì, ma li sorpassa e diventa “eterna”. Perciò contemporanea ad ogni generazione passata e futura (cfr Fil 2,7ss). Fino a porre, di fatto, ai nazaretani di ogni tempo (anche noi siamo della sua stessa patria umana e del suo villaggio globale) la sconvolgente inversione della domanda: credi che Dio è Gesù? Allora si capisce quanto fosse facile diventare non solo riluttanti, ma ostinati e testardi, … per non lasciarsi coinvolgere anima e corpo, idee e senso della vita – nella tensione insanabile della proposta evangelica, tra la sublimità dei segni, parole ed opere di questo Messia, e la debolezza sociopolitica del suo mite ed inerme progetto di salvezza dell’uomo e del mondo. Comincia da qui, e influenzerà pericolosamente la fede cristiana fino ad oggi, la reazione incontenibile di fronte a questa concretissima incarnazione: un processo storico, mai interrotto, partito dai suoi compaesani, e poi rispuntato in ogni chiesa. La tentazione, cioè, di “normalizzazione sacra” della tensione profetica del Cristo – il lento veleno di ri/divinizzazione dell’incarnazione (che è l’umanizzazione di Dio!), fino a renderla inutile (è il processo inverso alla dinamica della storia della salvezza: infatti rimanda al mittente il mistero dell’incarnazione sostanzialmente perché è troppo di disturbo dell’assetto storico socio religioso di un’epoca storica, faticosamente elaborato e consolidato e difeso… fino allo sterminio di chi osa insidiarlo.
Perché io non vada in superbia mi è stata messa una spina nella carne
…dentro tutto questo dramma, ecco infine la sofferenza di Paolo, anzi, prima, l’avventura personale di Gesù… e di ogni profeta. Esser profeti per i discepoli di Gesù non è presunzione! È dimensione essenziale del battesimo, purtroppo non a caso censurata! Perché il mestiere del profeta, suo malgrado, è mettere in conflitto permanente la coscienza ‘profetica’ con la coscienza religiosa stratificata nella società. Perciò, in prima battuta, il profeta è ben accolto dalla gente comune, poco ideologizzata e succube sofferente delle ingiustizie, ma è rifiutato dai capi, dai teologi, dai sacerdoti… cioè dal sistema. Il profeta è “necessariamente” perseguitato, perché non misura l’uomo secondo i criteri sociologici e gli equilibri fragili del potere nella tribù o nel paese, stabilizzati per la coesione del gruppo stesso. Ma misura l’uomo nella sua verità radicale assoluta (bisogni desideri diritti) ispirata solo alle idee e sentimenti… del Padre che è nei cieli. Per questo il cristiano/profeta denuncia ogni oppressione. E questo mette in crisi la visione culturale dominante, aprendola ad un assetto futuro diverso, a costo di apparire sovversivo! Ma il cristiano/profeta non è un nuovo maestro, è solo il testimone, oggi, del suo Maestro, che non si rivolge solo alla testa, ma propone il cambiamento della vita, del cuore, dei sentimenti: c’è infatti un solo modo storico di riconoscere e testimoniare la sua “divinità incarnata”: diventare oggi suoi discepoli! Cioè diventare, almeno un poco, profeti. E qui nasce il problema che mette a prova l’autenticità della fede in Gesù.
Ma non vi poté operare nessun prodigio…
Qui l’avventura del credente, di colui dunque che si è già sbilanciato per affidarsi alla “divinità” di Gesù il Cristo, s’imbatte in un dolore imprevisto. Il dolore di Gesù, del quale non aveva colto la ricaduta in chiunque crede in lui! Il dolore inconsolabile dell’uomo Gesù, che sente, soffre e piange la sua spina nella carne, la propria drammatica invincibile insufficienza “umana”a contenere, sanare, convincere, medicare l’immensa miseria degli uomini, che vagano come pecore senza pastore … Ma il profeta di basso profilo, quale siamo noi, a differenza di Gesù, annega nella fragilità senza fondo di una fede che si rivela sempre più immatura o comunque non del tutto pronta a portare la sofferenza, il conflitto, l’incomprensione … l’inadeguatezza della propria testimonianza. Perché i suoi puntelli erano ovviamente la condivisione, la stima, il sostegno del consenso di chi è “importante” nella nostra vita… e maschera l’inconsistenza della fede nuda. Il lumicino fumigante che ci rimane in cuore, acceso dalla amicizia per lui e poggiato sulla forza perdente del suo vangelo. Anche se non siamo perfetti e forse nemmeno tanto coerenti, né dobbiamo pretenderlo dagli altri, perché non è la nostra debole coerenza che ci salva.
«Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Già Paolo si è scontrato con questo paradosso dell’impotenza (mondana) della fede! «I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio»(1 Cor 1, 22s). Talora anche noi siamo talmente attenti a sottolineare l’incoerenza degli altri discepoli, nostri fratelli e sorelle, da farne degli antagonisti, fino a scordarci dell’essenza del Vangelo, che è venuto a togliere l’inimicizia… Talmente scandalizzati dai loro veri o presunti difetti da non voler aprirci al cuore dell’autenticità cristiana, per convincerci che l’essenziale non è la coerenza costi quel che costi, ma la misericordia. L’importante non è che l’altro colga il pezzo di verità sul quale io (profeta!) lo sfido oggi che io sia nel vero e lui fuori strada o viceversa… o un po’ per uno! Ma l’importante è, invece, la profezia suprema, quella che ha portato Gesù a donare la vita per noi e che ci ha così ‘profeticamente’ avvolti e lavati nella sua misericordia cieca – sicuro che questo bagno, soltanto, ci avrebbe aperto gli occhi a scoprire con infinita riconoscenza… il compimento della profezia cristiana.
I maestri raccontati dai discepoli
Giovanni Vannucci, testimone della luce
… Quando parlava della sua scelta, diceva: “Il monaco cerca una dimensione differente da quella nella quale l’uomo vive abitualmente. Non per evadere, ma per ricaricare, per ridare alla vita quotidiana tutto il suo valore e tutta la sua forza”. E concludeva: “Il monaco è l’essere sensibile alla novità divina profonda e la vive come preannuncio e indicazione di cammino”. Quindi è sempre rivolto agli altri che devono percorrere il cammino e che sono in ricerca. Ecco, in questa funzione, è stato un apripista e quindi potremmo dire un profeta. Ma il profeta necessariamente si scontra con il presente. Non perché il profeta viva nel futuro: il profeta vive nel presente, solo che coglie nel presente quelle tensioni interiori che esigono l’ulteriore, l’oltre. Quindi, vivendo all’interno di questa tensione che egli coglie nel presente, perché è in sintonia con la Parola/Azione di Dio che opera qui ora, necessariamente si scontra con coloro che il qui e ora lo vivono in modo definitivo, lo considerano assoluto.
Tutte le strutture tendono a considerare il loro progetto, il loro modo di vedere le cose, l’esistente come definitivo. Soprattutto quelli che ne traggono beneficio, che hanno interesse nel prolungare il presente. Quindi è comprensibile che ci sia questo scontro, questo dissidio, vissuto a volte con sofferenza, certamente. Anche Giovanni Vannucci parla di questa sofferenza vissuta. Però è una sofferenza che diventa benefica, è una sofferenza che, se vissuta nell’orizzonte della fede, cioè come espressione dell’azione di Dio accolta, diventa feconda.
Il problema che si pone è: fino a che punto questa tensione deve essere portata avanti, in modo che sia feconda. Perché ci potrebbe essere la tentazione di rompere tutto per consentire al nuovo di emergere, come ci può essere la tentazione di rinunciare alla funzione profetica – come anche i profeti biblici, Geremia, lo stesso Isaia, hanno avvertito – per non dover soffrire, per non dover affrontare difficoltà. È lo stesso problema che Gesù ha affrontato, lo stesso problema della preghiera dell’orto di Gesù e delle sue scelte precedenti, dal momento della crisi fino alla decisione di salire a Gerusalemme. Si è posto certamente il problema: fino a che punto portare avanti la tensione, che conduce a una rottura col presente, in modo che l’azione resti feconda e non diventi distruttrice? Non c’è una risposta assoluta, non è che uno possa rispondere, ragionando, a questa domanda, restando cioè al di fuori delle situazioni concrete. Occorre avere, nella situazione concreta, quella capacità di preghiera, quella sintonia con la Parola/Azione di Dio – questo è il segreto – in modo da cogliere a che cosa questa conduce, in modo da poter compiere quella Parola, che certamente allora è feconda, cioè fa nascere il nuovo in modo positivo, senza distruggere la possibilità appunto dei cammini nuovi. Lui stesso lo dice: “Ogni periodo di smarrimento è segno di un avanzarsi della definitiva apparizione del Regno”. Ma deve apparire il nuovo. Ora, ci sono delle scelte fatte in nome del nuovo, cioè fatte in atteggiamento profetico, che in realtà poi impediscono al nuovo di fiorire. Quindi si tratta di avere questa sensibilità, di avere questa percezione di dove conduce la Parola, in modo da non distruggere l’embrione che sta preparandosi, il nuovo che sta emergendo.
C’era un’altra espressione che aveva utilizzato, quando diceva: “Occorre essere attenti alle vibrazioni, alla melodia del reale”: l’attenzione appassionata al mistero divino delle cose, delle situazioni che portano, sono gravide di questa Presenza, che però dev’essere curata attentamente, per evitare che diventi un aborto (per portare l’analogia a cui prima vi siete richiamati), cioè per evitare che il nuovo fallisca. Perché è possibile: non tutti i tentativi di Dio riescono nella storia, anzi, molti falliscono. Falliscono per precipitazione nostra, per resistenza… Ci sono le diverse tentazioni, ma dobbiamo riconoscere questa possibilità del fallimento.
Credo che quindi la risposta che tu cerchi non possa essere assoluta e generale, ma nei singoli casi deve tener presente questa possibilità di soffocare il nuovo che emerge con la fretta di volerlo fare nascere.
Voglio aggiungere un’ultima piccola cosa: Era una persona solare e trasparente: quello che egli viveva lo trasmetteva con la sua presenza. Per questo è un testimone. E di questi testimoni noi oggi abbiamo bisogno, cioè di persone che vivano così in sintonia con l’azione di Dio, con la Parola di Dio nella storia, da farla risuonare lì dove sono.
[Carlo Molari, passi scelti tratti da: cipax-roma]
Giovanni Vannucci, testimone della luce
… Quando parlava della sua scelta, diceva: “Il monaco cerca una dimensione differente da quella nella quale l’uomo vive abitualmente. Non per evadere, ma per ricaricare, per ridare alla vita quotidiana tutto il suo valore e tutta la sua forza”. E concludeva: “Il monaco è l’essere sensibile alla novità divina profonda e la vive come preannuncio e indicazione di cammino”. Quindi è sempre rivolto agli altri che devono percorrere il cammino e che sono in ricerca. Ecco, in questa funzione, è stato un apripista e quindi potremmo dire un profeta. Ma il profeta necessariamente si scontra con il presente. Non perché il profeta viva nel futuro: il profeta vive nel presente, solo che coglie nel presente quelle tensioni interiori che esigono l’ulteriore, l’oltre. Quindi, vivendo all’interno di questa tensione che egli coglie nel presente, perché è in sintonia con la Parola/Azione di Dio che opera qui ora, necessariamente si scontra con coloro che il qui e ora lo vivono in modo definitivo, lo considerano assoluto.
Tutte le strutture tendono a considerare il loro progetto, il loro modo di vedere le cose, l’esistente come definitivo. Soprattutto quelli che ne traggono beneficio, che hanno interesse nel prolungare il presente. Quindi è comprensibile che ci sia questo scontro, questo dissidio, vissuto a volte con sofferenza, certamente. Anche Giovanni Vannucci parla di questa sofferenza vissuta. Però è una sofferenza che diventa benefica, è una sofferenza che, se vissuta nell’orizzonte della fede, cioè come espressione dell’azione di Dio accolta, diventa feconda.
Il problema che si pone è: fino a che punto questa tensione deve essere portata avanti, in modo che sia feconda. Perché ci potrebbe essere la tentazione di rompere tutto per consentire al nuovo di emergere, come ci può essere la tentazione di rinunciare alla funzione profetica – come anche i profeti biblici, Geremia, lo stesso Isaia, hanno avvertito – per non dover soffrire, per non dover affrontare difficoltà. È lo stesso problema che Gesù ha affrontato, lo stesso problema della preghiera dell’orto di Gesù e delle sue scelte precedenti, dal momento della crisi fino alla decisione di salire a Gerusalemme. Si è posto certamente il problema: fino a che punto portare avanti la tensione, che conduce a una rottura col presente, in modo che l’azione resti feconda e non diventi distruttrice? Non c’è una risposta assoluta, non è che uno possa rispondere, ragionando, a questa domanda, restando cioè al di fuori delle situazioni concrete. Occorre avere, nella situazione concreta, quella capacità di preghiera, quella sintonia con la Parola/Azione di Dio – questo è il segreto – in modo da cogliere a che cosa questa conduce, in modo da poter compiere quella Parola, che certamente allora è feconda, cioè fa nascere il nuovo in modo positivo, senza distruggere la possibilità appunto dei cammini nuovi. Lui stesso lo dice: “Ogni periodo di smarrimento è segno di un avanzarsi della definitiva apparizione del Regno”. Ma deve apparire il nuovo. Ora, ci sono delle scelte fatte in nome del nuovo, cioè fatte in atteggiamento profetico, che in realtà poi impediscono al nuovo di fiorire. Quindi si tratta di avere questa sensibilità, di avere questa percezione di dove conduce la Parola, in modo da non distruggere l’embrione che sta preparandosi, il nuovo che sta emergendo.
C’era un’altra espressione che aveva utilizzato, quando diceva: “Occorre essere attenti alle vibrazioni, alla melodia del reale”: l’attenzione appassionata al mistero divino delle cose, delle situazioni che portano, sono gravide di questa Presenza, che però dev’essere curata attentamente, per evitare che diventi un aborto (per portare l’analogia a cui prima vi siete richiamati), cioè per evitare che il nuovo fallisca. Perché è possibile: non tutti i tentativi di Dio riescono nella storia, anzi, molti falliscono. Falliscono per precipitazione nostra, per resistenza… Ci sono le diverse tentazioni, ma dobbiamo riconoscere questa possibilità del fallimento.
Credo che quindi la risposta che tu cerchi non possa essere assoluta e generale, ma nei singoli casi deve tener presente questa possibilità di soffocare il nuovo che emerge con la fretta di volerlo fare nascere.
Voglio aggiungere un’ultima piccola cosa: Era una persona solare e trasparente: quello che egli viveva lo trasmetteva con la sua presenza. Per questo è un testimone. E di questi testimoni noi oggi abbiamo bisogno, cioè di persone che vivano così in sintonia con l’azione di Dio, con la Parola di Dio nella storia, da farla risuonare lì dove sono.
[Carlo Molari, passi scelti tratti da: cipax-roma]
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