Con questa diciassettesima domenica del tempo ordinario, inizia un “ciclo” di cinque domeniche concentrate sulla tematica del pane del cielo, espressa nel lungo discorso di Gesù redatto da Giovanni al capitolo 6.
Come risaputo, questa tematica, posta a questo punto dello svolgimento evangelico e trattata in questa particolare forma, è il corrispettivo dell’istituzione eucaristica presentata durante l’ultima cena dai sinottici, che invece Giovanni non narra perché inserisce al suo posto l’episodio della lavanda dei piedi.
Che si tratti di discorso eucaristico è evidente già nei primi 15 versetti che costituiscono il brano odierno, in particolare grazie ad alcuni segnali che Giovanni inserisce all’interno della narrazione: innanzitutto il fatto che a differenza dei sinottici, sia Lui in persona e non i discepoli a “dare” il pane; e poi il fatto che vengano ripetuti esattamente i gesti eucaristici: «prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede».
Il senso eucaristico però di questo capitolo 6 del Quarto Vangelo emerge soprattutto nel discorso svolto nei versetti successivi, che infatti prende spunto dall’episodio qui narrato della moltiplicazione dei pani per mostrare come unico pane che dia veramente Vita sia Gesù.
L’indagine di questa prospettiva è perciò preferibilmente rimandabile alle prossime settimane, mentre più urgente è il rendere conto del testo odierno, che pare concentrarsi soprattutto sul rapporto tra Gesù e la folla.
Tale relazione è presentata in modo molto abile dal redattore del vangelo, il quale infatti riesce a fare in modo che, dallo scritto, non appaia mai un confronto diretto tra la gente e Gesù: si fa sempre riferimento a ciò che la folla pensava o diceva riguardo a Lui e viceversa alle sue reazioni nel vederla, ma nessuna parola intercorre fra gli interlocutori.
Questa composizione letteraria risulta particolarmente efficace nel far emergere la problematica di fondo del nostro testo, resa evidente soprattutto dal movimento che la narrazione svolge: la folla segue Gesù «perché vedeva i segni che compiva sugli infermi»; Gesù decide comunque di sfamarla, perché verso di essa sembra avere sentimenti di compassione che superano l’obiezione interiore di “essere seguito per interesse”; ma la folla «visto il segno che egli aveva compiuto» decide di andarlo a prendere per farlo re; a questo punto Gesù si ritira, capendo di essere stato per il momento irrimediabilmente frainteso.
La problematica che pare emergere è dunque quella della fatica storica di Gesù a proporsi per quello che è, senza rimanere incastrato in letture riduttive o falsificanti: Come incontrare le persone solo amandole, senza che queste diventino dipendenti? Come aiutare, anche concretamente, l’uomo ferito dalla storia, senza che esso si fermi al dono (al pane) e manchi la relazione col Padre?
Una fatica interessante… quella di Gesù… soprattutto se si pensa a quanto noi siamo sempre concentrati sul nostro sforzo di raggiungere Lui, conoscerLo, relazionarci… dimenticando invece molto spesso la “fatica” di Dio ad andare in cerca dell’uomo… a proporsi senza essere travisato, circoscritto, frainteso… sia personalmente che ecclesialmente.
Particolarmente lucido su questa problematica del rapporto di Gesù con la folla, ma che è poi la problematica di Dio con ciascun uomo – e per questo ci riguarda da vicino – è Dostoevskij, che in proposito ha delle pagine memorabili: pane, libertà, potere sulle coscienze, amore gratuito sono elementi dell’impasto di questa nostra storia che ancora non siamo riusciti a decifrare, ma con i quali anche Gesù si è confrontato, proponendo la sua determinazione.
Essa emerge limpida dalle pagine della Leggenda del Grande Inquisitore, di cui qui riportiamo un illuminate stralcio . «Il cardinale grande inquisitore […] Gli dice [a Gesù]: […] ricordati la prima domanda [che ti pose il serpente tentatore nel deserto]: se non la lettera il senso era questo: “Tu vuoi andare e vai al mondo con le mani vuote, con non so quale promessa di una libertà che gli uomini, nella semplicità e nella innata intemperanza loro, non possono neppur concepire, che essi temono e fuggono, giacché nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana piú intollerabile della libertà! Vedi Tu invece queste pietre in questo nudo e infocato deserto? Mutale in pani e l’umanità sorgerà dietro a Te come un riconoscente e docile gregge, con l’eterna paura di vederti ritirare la Tua mano, e di rimanere senza i Tuoi pani”. Ma Tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito, perché, cosí ragionasti, che libertà può mai esserci, se la ubbidienza è comprata coi pani? Tu obiettasti che l’uomo non vive di solo pane, ma sai Tu che nel nome di questo stesso pane terreno, insorgerà contro di Te lo spirito della terra e lotterà con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno, esclamando: “Chi è comparabile, a questa bestia? Essa ci ha dato il fuoco del cielo!”. Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? “Nutrili e poi chiedi loro la virtú!”, ecco quello che scriveranno sulla bandiera che si leverà contro di Te e che abbatterà il Tuo tempio. […] E allora […] noi li sfameremo, in nome Tuo, facendo credere di farlo in nome Tuo. Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitú ma sfamateci!”. Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu promettevi loro il pane celeste, ma, lo ripeto ancora, può esso, agli occhi della debole razza umana, eternamente viziosa ed eternamente abietta, paragonarsi a quello terreno? […] Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata piú in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero piú assidua e piú tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. […] Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te; la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda poi quel che hai fatto in seguito. E sempre in nome della libertà! Io Ti dico che non c’è per l’uomo pensiero piú angoscioso che quello di trovare al piú presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura. Ma dispone della libertà degli uomini solo chi ne acqueta la coscienza. Col pane Ti si dava una bandiera indiscutibile: l’uomo si inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è piú indiscutibile del pane. Ma […] Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. […] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Tu respingesti la prima, la seconda e la terza e desti cosí l’esempio. […] Oh, Tu sapevi che la Tua azione si sarebbe tramandata nei libri, avrebbe raggiunto la profondità dei tempi e gli ultimi confini della terra, e sperasti che, seguendo Te, anche l’uomo si sarebbe accontentato di Dio, senza bisogno di miracoli. Ma Tu non sapevi che, non appena l’uomo avesse ripudiato il miracolo, avrebbe subito ripudiato anche Dio, perché l’uomo cerca non tanto Dio quanto i miracoli. E siccome l’uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, cosí si creerà dei nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una fattucchiera, foss’egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo. Tu non scendesti dalla croce quando Ti si gridava, deridendoti e schernendoti: “Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu”. Tu non scendesti, perché una volta di piú non volesti asservire l’uomo col miracolo, e avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio. Avevi sete di un amore libero, e non dei servili entusiasmi dello schiavo davanti alla potenza che l’ha per sempre riempito di terrore».
[F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. I, pagg. 263 e 282]
Sete di fede libera, sete di amore libero… Ecco la proposta “inistituzionalizzabile” di Gesù: dentro alla necessità della natura, dentro ai determinismi della storia, per il cui il pane (ma in esso tutto ciò che indica il carattere umano della Vita: gli affetti, la fede, il senso, la cultura, i beni materiali, ecc…) non è mai per tutti e di tutti e ingenera la lotta per la sopravvivenza, fatta di oppressi e oppressori, sfruttatori e schiavi, servi della gleba e liberi, operai e imprenditori, clero e laici, cittadini e clandestini, ecc, ecc, ecc, dar credito al piccolissimo ma potentissimo (come il granello di senapa) germe del Regno, fermento di libertà, di gratuità, di fedeltà e perciò di affidamento, di bene vero, radicale e fino in fondo… Così che chi ha fame, possa mangiare, senza sentirsi “in debito” con chi gli dà del pane, senza che necessariamente questo diventi suo re, senza che necessariamente lui pensi che quello glielo dà, glielo dà per diventare re…
Quella che propone Gesù perciò è la verità della fraternità, è l’invito rivolto a ciascuno a credere che sia possibile una vita liberata dalla paura di un amore finto, col doppio o il terzo fine. In Gesù, Dio chiarisce una volta per tutti che il suo amore è univoco, mai ambiguo e che anche l’uomo è congeniato ad amare così. Farlo è il Regno.
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