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giovedì 30 luglio 2009

La fame dell'uomo è saziabile solo vivendo di Lui

In questa diciottesima domenica del tempo ordinario continua il discorso sul pane del cielo, che l’evangelista Giovanni aveva iniziato al primo versetto del sesto capitolo e che costituiva il vangelo di domenica scorsa (Gv 6,1-15). Come dicevamo, siamo infatti all’interno di un ciclo di 5 domeniche che si concentrano proprio su questo argomento, di cui oggi ci è proposta la seconda “tappa”.
In verità non è mai raccomandabile smembrare un testo concepito come unitario, sarebbe decisamente più opportuno presentarlo nella sua interezza, ma le esigenze pastorali costringono a questo spezzettamento: da questa necessaria soluzione metodologica cercheremo allora di prendere il vantaggio di poterci concentrare su alcuni elementi specifici (settimana scorsa – per esempio – il rapporto tra la folla e Gesù), tentando per altro verso di evitare il rischio di perdere di vista l’insieme.
Il brano odierno riprende dal versetto 24. Ci sono 8 versetti di “stacco” rispetto alla conclusione del testo di domenica scorsa (v. 15) e sono quelli in cui è narrato lo “spostamento” di Gesù all’altra riva del lago e la presa di coscienza della folla della sua assenza.
Dopo l’incomprensione di questa rispetto al senso del gesto di Gesù della distribuzione dei pani e dei pesci, la relazione è riproposta al di là dal mare. Stavolta il confronto diviene diretto, la folla e Gesù interloquiscono direttamente, ma anche in questo caso l’esito sarà incerto e il fraintendimento chiaro.
Il problema che la folla pone è infatti quello che riguarda il sottrarsi di Gesù rispetto al loro desiderio di acclamarlo addirittura re: dietro alla domanda «Rabbì, quando sei venuto qua?» sta infatti tutta la delusione dell’incomprensione appena consumata. Mentre il vangelo di domenica scorsa focalizzava maggiormente l’attenzione sulla reazione di Gesù al sentirsi frainteso, questa domanda pone il medesimo problema dal punto di vista della folla: perché Gesù se ne è andato? Perché se ne è andato senza dire niente? Perché non vuole continuare a sfamarci? A essere il re che dà da mangiare al suo popolo?
Come già si diceva la scorsa settimana, il problema dell’incomprensione verte tutto sul senso del pane che Gesù vuole dare e che la folla vuole ricevere. Quella cercava qualcosa che riempiva la pancia, Egli proponeva invece qualcosa che riempiva la Vita.


Il brano odierno è infatti la precisazione di questa incomprensione, o meglio, l’inizio della sua esplicitazione. Gesù infatti alla folla che sostanzialmente gli chiede conto del suo essersi sottratto e dunque di aver rivelato un’incomprensione, risponde chiarendo in che senso si è sentito frainteso: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».
Il problema del misunderstanding è allora sulla qualità del pane, o, detto fuor di metafora, sulla consistenza esistenziale da perseguire: non il cibo che non dura è il correlato dell’uomo, la risposta adeguata alla sua domanda sul senso, la risoluzione della sua vita, bensì il cibo che rimane per la vita eterna.
Ma cosa si nasconde dietro a questi paragoni: cosa è il cibo che non dura e cosa (chi) è il cibo che rimane per la vita eterna? Un primo livello di risposta è facile, per i cattolici quasi automatico: cibo che non dura è il pane inteso in senso letterale, quello fatto di acqua e farina che Gesù aveva distribuito il giorno prima, cibo che appunto si limita a saziare e riempire la pancia; e cibo che rimane per la vita eterna è Gesù.
Questa seconda risposta, che a prima vista potrebbe sembrare la più difficile (cosa è il pane che rimane per la vita eterna?), è invece tanto più facile se si nota che è il testo stesso a suggerirla: in chiusura di questo brano arriva infatti quell’identificazione esplicita tra Gesù e il pane («Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!») che tanti smottamenti provocherà in seguito nella folla e fra i discepoli stessi…
Al di là dell’automatismo di questo primo livello della risposta, il problema vero diventa però capirne il senso: al di là della lettera, quali sono quelle dimensioni o esperienze o orizzonti umani fatti di pane che non dura? Cos’è che nella vita non è degno di un darsi da fare, data la sua inconsistenza nel tempo? E – sull’altro versante – in che senso Gesù è il pane che rimane per la vita eterna? In che senso è il pane della vita? Evidentemente come si diceva settimana scorsa e come sarà ripreso la prossima, un’accentuazione in chiave eucaristica è ineludibile. Ma anche lì… non si può trattare di una prospettiva estrinseca, per cui mangiare il pane del cielo equivarrebbe a fare la comunione tutte le domeniche e così considerarsi “apposto” per la vita eterna. Anche lì il problema è di senso. Cosa vuol dire allora la proposta di Gesù a darsi da fare per il pane che rimane per la vita eterna? In altre parole, cosa vuol dire che Gesù è il senso della vita dell’uomo? È la pienezza di cui invece – per altre vie – egli torna sempre ad aver fame?
Innanzitutto va chiarita la fame. Quale fame Gesù vuole saziare? Non quella della pancia, evidentemente, ma allora quale? In gioco non pare esserci meramente la fame del sapere cosa fare (un itinerario morale o spirituale o prassistico); la fame della risoluzione di qualche problema; la fame di un trascorrere solamente una vita tranquilla. In gioco c’è il problema dell’uomo, anzi più radicalmente in problema uomo: il problema del senso dell’esserci, il problema del dover morire, il problema del vivere e di come farlo, di come sia giusto e degno farlo, non in senso relativo, ma assoluto… di che cosa ci stiamo a fare qui, di che senso hanno le tombe in cui necessariamente finiamo, di qual felicità è percorribile e se davvero essa sia una proposta percorribile, per me, per gli alti, per tutti… di dover cercare, scavare, in cosa impegnarsi: nello studio, nell’interiorità, nel lavoro, nella disponibilità agli altri, nella straordinarietà, nella quotidianità, nello svago, nel vantaggio… quante proposte intra ed extra ecclesiali… tutte con la loro plausibilità e convinzione e argomentazione… ma a chi dar retta in questo vociare continuo? Quali criteri usare per decidere di sé e degli altri, come sapere cosa è giusto e cosa è bene nelle situazioni?
Tutto questo e molto altro è ciò che Gesù vuol saziare. Sempre nel vangelo di Giovanni ciò è sintetizzato magistralmente nella giustamente celebre frase: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La pienezza della gioia… ecco cosa vuol saziare Gesù… ecco perché la sua pretesa apparirà sempre – già al suo tempo come oggi – “esagerata”, appunto troppo pretenziosa, troppo ardita, illusoria, incredibile… Perché – diciamo noi aridi vecchi uomini di ogni età – è impossibile per l’uomo tale gioia.
La sua proposta “funziona” invece all’incontrario… lui chiede di essere creduto: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato»; a fronte della (comprensibile) incredulità umana, sfiancata dalla tragicità della vita – che si rivela tanto più drammatica nel tentativo dello società odierna di relegarla nell’oblio, tanto essa è insostenibile – Gesù chiede che gli venga dato credito: che si abbia la fede – diremmo, se tale termine non fosse così consumato e logoro, da rimandare meramente a un’adesione formale a verità incomprensibili e di cui sinceramente – per onestà intellettuale – l’uomo di oggi fa volentieri a meno.
Un credito che non ha il sapore dell’iniezione di fiducia della psicologia fai da te che continuamente ci ripropone l’ottimismo, come soluzione delle crisi. Egli non chiede che si creda in qualcosa, che ingenuamente si continui a dire che poi comunque le cose andranno per il verso giusto (al massimo nell’aldilà): Egli chiede che si creda a Lui. E anche lì non solo alle cose che dice, non solo alle cose che fa, ma all’uomo e al Dio che è (che ovviamente comprende ciò che dice e che fa). L’adesione cioè non è intellettualistica o moralistica, ma personale.
Che Gesù è il pane di vita, vuol dire che la fame dell’uomo è saziabile solo vivendo di Lui, acconsentendo nel segreto a dar credito che l’umanità che ha attuato lui è l’umanità dalla gioia piena, che non ha più fame né sete e che lo è in assoluto, perché “certificata” da Dio in persona. Acconsentendo e ribadendo tale paradigma in ogni interstizio della propria interiorità: così che ogni decidere di sé e degli altri, ogni pensare e pensarsi, ogni porsi e ritrarsi, abbia come logica la signoria del Signore.
Non in senso mimetico: non è banalmente un’imitazione quella che viene chiesta, non è una ripetizione di gesti e parole, nemmeno di sentimenti e intenzioni; ma è un’assunzione, nella personalità irripetibile di ciascuno di ciò che Egli è. Ecco perché il cristianesimo non può essere mai ridotto a un insieme di dottrine o di precetti – e quando la chiesa lo ha fatto ha espresso il peggio di sé ad intra e ad extra – perché l’assunzione singolare della forma Christi può avvenire solo in una relazione tra due libertà, tra due persone, tra due volti, due cuori, due carni, che si mischiano, si ridistanziano, si fraintendono, si rispiegano, si ricomprendono, si entusiasmano, si deludono, si amano, si temono, si riaffidano, in una circolarità incandescente che si autoalimenta.
Ma – ammesso questo vortice identificativo – come può essere credibile come pane che dona la pienezza della gioia, uno che è morto crocifisso? Uno che «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (Is 53,2)? Perché credere e seguire uno che va a morire? Questo è ancora di più l’inaccettabile – ieri come oggi, con l’uomo sempre alla ricerca del bene “per sé”. Ma la forma Christi è proprio questa: la pienezza della gioia è l’amore, l’essere per gli altri, perché gli altri siano, fino alla morte – fino a morirne: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15 11-13).

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