Il vangelo che la liturgia ci propone per questa trentatreesima domenica del tempo ordinario (Mt 25,14-30) è costituito interamente da una parabola: quella famosa dei talenti. «Credo che non ci sia una parabola più famosa di questa, accanto a quella del ‘figliol prodigo’ o della ‘pecorella smarrita’: sono parabole che hanno plasmato la nostra cultura e forgiato il nostro linguaggio.
La parola “talenti” è addirittura diventata sinonimo di “capacità”, il che testimonia come questa pagina abbia parlato molto nel nostro mondo e credo che non sia retorico dire che la si è sentita fin dai banchi di scuola; sono infatti discorsi usati anche a livello di insegnamento scolastico e familiare per ricordare l’importanza della messa in opera dei talenti.
Tuttavia credo che spiegare la parabola in questi termini faccia perdere il meglio del suo contenuto» [P. Pezzoli in Scuola della Parola 1999 – Diocesi di Bargamo, 151-152].
Annotavo anch’io tre anni fa che: in effetti non appena si legge questo brano, immediatamente e simultaneamente giungono alla memoria le parole che usualmente lo interpretano (prediche, commenti...), quasi che il testo ormai sia confuso con la sua spiegazione, che solitamente suona più o meno in questi termini: l’uomo che parte è Dio e i suoi servi sono gli uomini; i talenti che affida loro sono le doti che ognuno ha, le sue capacità, o anche le sue responsabilità e possibilità (c’è chi ne ha di più e chi di meno...) e il succo dell’insegnamento sarebbe che ognuno deve far fruttificare le sue potenzialità; non importa da che punto si parte: ciò che conta è dare il meglio di sé. Questo porta infatti alla buona riuscita di una vita o al suo fallimento (che generalmente noi associamo al paradiso e all’inferno). Ma è davvero tutto qui?
«Intanto precisiamo che questa parabola non è semplice come sembra, poiché come minimo a tutti sarà capitato a volte di soffermarsi sulle parole finali e di giudicarle a dir poco dure (vv. 27-30). Ci è probabilmente capitato di giudicare esageratamente severo il padrone verso quel servo, che in fin dei conti, non ha poi fatto niente di tanto grave: non ha operato, ma non ha fatto del male…
In effetti tale obiezione ha la sua rilevanza, proprio perché noi leggiamo la parabola come legata alla capacità di far fruttare le qualità personali; ma, appunto, questo non è l’unico significato del testo. Per confermare comunque quanto la nostra impressione circa la eccessiva severità del “castigo” sia stata condivisa da molti, ricordiamo che fin dall’antichità la parabola veniva raccontata in altre versioni, come quella di Eusebio di Cesarea (IV sec.), secondo la quale il padrone si trova di fronte a tre servi: uno di loro ha dilapidato il denaro con le prostitute, l’altro lo ha gestito bene e un terzo l’ha tenuto nascosto; al suo ritorno, il padrone punisce duramente il primo, dà un premio al secondo e rimprovera il terzo: sembra una reazione più accettabile: è giusto che chi ha fatto male venga castigato, chi ha fatto bene venga lodato e chi non si è mosso venga rimproverato (ma solo rimproverato, e poi… chiudiamo un occhio…).
È un modo significativo che abbiamo di raccontare la parabola, che riflette le nostre difficoltà di fronte al testo evangelico, ma è anche il modo migliore per farle perdere il mordente, trasformandola in una sorta di parabola del buon senso comune, vanificando la profonda dimensione di ‘vangelo’, di ‘buona notizia’ contenuta in essa. Non dimentichiamo che è Gesù stesso a raccontarla, ed egli non è un semplice maestro di buon senso che ci vuole insegnare a usare bene le nostre doti. […] Forse bisogna andare un po’ più in là, e notare che fra i tre servi, quello che riceve maggiore attenzione è il terzo» [Ivi].
Infatti «Nell’economia della parabola i primi due servitori hanno semplicemente la funzione di mettere in risalto, per contrasto, il comportamento del terzo: a differenza dei primi due, l’ultimo nasconde il tesoro in una buca. Anche i primi due rendiconti hanno lo scopo di attirare l’attenzione sul terzo. È perciò chiaro che occorre concentrare l’attenzione sul comportamento del servo cattivo, e che la chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo malvagio e il padrone.
Il servo ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso (v. 24). In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza della legge (tutto ciò che è prescritto e nulla più!). Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si ritiene sdebitato: “Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo” (v. 25).
Anche l’ascoltatore è tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta invece la pretesa del padrone. […] La reazione dell’ascoltatore – reazione che la parabola suscita intenzionalmente – è quella degli scribi, dei farisei, degli zelanti e scrupolosi osservanti della legge. Tutti costoro non comprendono la condotta di Dio che si manifesta nel comportamento di Gesù. La ritengono ingiusta. Essi concepiscono la giustizia come un rapporto di parità: tanto-quanto. Gesù invece si muove nella prospettiva dell’amore, che è senza calcoli, ma anche senza paura. […] La parabola dunque, fondamentalmente, ha lo scopo di far comprendere la vera natura del rapporto che corre tra Dio e l’uomo» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Ed., Assisi 20048, 317-319.
Il modo in cui la parabola vuol raggiungere questo scopo è quello dello shock! Come accennava Maggioni, infatti, chi ascolta questa parabola, istintivamente, ritiene ingiusto il comportamento del padrone, al suo ritorno. Perché non gli basta che gli venga restituito il suo?
Qua sta lo scandalo (l’inciampo) per gli ascoltatori di Gesù: perché in una mentalità retributiva del tanto-quanto, il “restituire il suo” è la regola di base. Cosa vuole di più questo padrone? Cosa vuole di più questo Dio?
Ecco il punto! In gioco c’è l’idea del rapporto che l’uomo (ciascuno di noi) ha con Dio. Gesù dice: se è quello del tanto-quanto, non avete capito un tubo… Il Padre mio è di un’altra qualità… Il tanto-quanto non fa parte del suo modo di agire/pensare (basti vedere la parabola del figliol prodigo o quella in cui gli operai vengono tutti pagati lo stesso salario indipendentemente da quanto hanno lavorato…).
Noi invece tendiamo sempre a ricascare in questa concezione “retributiva” del volto di dio: «la figura di dio, che più o meno inconsciamente tutti abbiamo introiettato, come un interlocutore interiore… da incubo (“sei un duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). Talora diventa un’ossessione che finisce per rovinarci la vita (“per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra”). La radice profonda di ogni religione storica è il tentativo di rimettersi in contatto con il “padrone”, che è “emigrato” in un paese lontano (così suggerisce il testo greco!), per contrattare “magicamente” con lui una salvezza in proprio» [Giuliano].
Ma è proprio questa “contrattualità da banchieri” che la parabola vuole scardinare (anzi, tutta la vita di Gesù va in questo senso, perché questa è la buona notizia, l’eu-angelion): che «la paternità di Dio, come si è rivelata in Cristo, è la distruzione del ricatto interno a qualsiasi religione (e interno a noi stessi, come componente tossica del nostro super io e della nostra morale), che finisce per farci vivere una vita disaffezionata e spenta, da servi! Finché, infatti, non ci consegniamo ‘armi e bagagli’ al Padre di Gesù Cristo, nutriti della sua parola e del suo pane, siamo preda dei nostri tormenti e delle nostre angosce interiori, che poi inevitabilmente proiettiamo e ritorciamo sugli altri (“io non sono come gli altri, omicidi, adulteri…”, Lc 18,11). Mentre oramai, in Gesù, la fede o è questione di amicizia o ridiventa idolatrica: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” [Gv 15,15]. Esser amici, però, vuol dire sbilanciarsi rischiosamente e senza riserve verso un nuovo tipo di dinamica interna all’esperienza umana di Gesù, che si fonda sull’amore gratuito, pulito, totalizzante» [Giuliano].
Ecco perché non basta più restituire il suo!
Perché chi ha colto che la proposta del Dio di Gesù è quella di un rapporto d’amicizia, avventura la vita in questa relazione, senza più badare ai calcoli! Esattamente come succede in tutte le nostre altre relazioni intra-umane, dove chi ama, non calcola, non restituisce semplicemente il “suo”, ecc…
Chi invece non coglie questa proposta e torna a guardare a Dio come allo spauracchio a cui qualche cosa bisognerà pur rendere, entra in un circuito di terrore e rattrappimento… della vita. Cosa vuole / Quanto vuole da me?
Ma… a scanso di equivoci: il dire che “non basta più restituire il suo” o l’ascoltare frasi evangeliche che dicono “a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”, non equivale a dire che il giudizio di Gesù su eventuali persone che avranno solo “restituito il suo” (o nemmeno quello) è l’inferno! Far questo slittamento è improprio: qui infatti non siamo in presenza di una cronaca, in cui ci raccontano cosa Gesù ha sentenziato, rispetto ad un caso reale (!), siamo all’interno di una dinamica pedagogica del racconto, e il fatto che essa comporti che chi non si assume le sue responsabilità sia punito, non ha l’intento «di terrorizzarci con la minaccia del castigo futuro, ma di convincerci che il presente, affrontato con intelligenza ed amore, dà senso e gioia alla nostra fede» [Giuliano].
Anche perché l’idea di un dio così è del tutto in linea con quello che la parabola vuole scardinare dai nostri cuori (quello che fa paura, appunto)… Perciò, il grido finale è come se suggerisse: “Voi non pensatemi così!”.
2 commenti:
Camminando ti accorgi (forse sbagliando?) che i limiti personali sono tanti, tanti. Allora rifletti (forse sbagliando?) che prima di tutto è importante imparare ad "essere" sia come donna di oggi che cerca, sia come persona che si relaziona in una comunità e in qualsiasi campo e luogo. Non è paura del castigo di Dio, le "menate" che arrivano con il si fa così, deve essere così, ecc. come se si mettesse in scena uno spettacolo teatrale che deve essere perfetto, queste menate cerchi di farle scivolare via. Ma è l'attesa vigile e attiva di un qualcosa che sicuramente avverrà, forse tanto piccolo: un seme, una scintilla, che ti conforti e ti aiuti. Ma dove trovi tutto questo? Nelle nostre relazioni di amicizia che dovrebbero contenere una consapevolezza sul chi mettiamo al nostro centro. Quel momento in cui, ogni volta diciamo "eccomi" con Cristo, per Cristo,in Cristo. in un atteggiamento di condivisione e non di competizione: il godere del bene che un altro opera magari al mio posto e meglio di me. Non dobbiamo dimostrare nulla se non quell'attaccamento , quel desiderio di stare.
Grazie
Grazie, Maria Sole!
Non dimostrare nulla se non l'attaccamento, la gioia di essere (tentare di essere) dietro (e dentro) Gesù.
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