In questa diciottesima domenica del tempo ordinario, la liturgia ci propone la prosecuzione del discorso di Giovanni 6 sul pane del cielo.
Rispetto a domenica scorsa c’è un salto di 5 versetti (Gv 6,36-40), quelli che completavano l’affermazione di Gesù, in cui Egli si identificava col pane della vita. Il brano odierno infatti riparte con le reazioni che tale identificazione aveva suscitato nei Giudei: «I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”».
Vale comunque la pena di andare a rileggere i versetti che il liturgista omette, perché in particolare verso la fine, essi forniscono una possibile chiave di lettura per quanto segue: «Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Sono versetti strategici perché mettono in luce la dinamica del discorso seguente, in particolare nella contrapposizione tra punto di vista dell’uomo e punto di vista di Dio.
Innanzitutto in questi versetti è esplicitata la “volontà di Dio”. Quest’ultima è una categoria iper usata, tanto da risultare abusata e addirittura travisata. Di fronte a tale locuzione infatti immediatamente in noi sorge il timore di non riuscire a comprenderla (Cosa vuole Dio da me?) e dunque a compierla (Cosa devo fare per adempiere tale volontà?), con l’esito di vivere sempre nell’incertezza sulla volubilità del giudizio di Dio (L’avrò accontentato? Mi sarò guadagnato il paradiso? Oppure no?). Questa infantile e un po’ forzata – ma molto reale – ricostruzione della nostra idea immediata di “volontà di Dio”, contrasta però in maniera inconciliabile con quella che Gesù ritiene essere tale volontà: «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
La prospettiva di Gesù, che – a suo dire – coincide con quella del Padre, ha infatti un’impostazione positiva: è riaffermato inequivocabilmente il desiderio di vita che Dio ha per l’uomo. Nessuna ambiguità, nessuna doppia faccia, solo il desiderio che i suoi figli abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10).
A fronte cioè dell’insanabile sospetto dell’uomo – che l’immagine biblica dice introdotto dal serpente – che la volontà di Dio «invece che il simbolo della [sua] solidarietà, sia il segno di un’oscura prevaricazione», che «dietro un volto apparentemente buono e promettente» Dio «ne celi forse uno inquietante e minaccioso», Gesù ribadisce con indiscutibile univocità che «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente». E questo prende evidenza pratica soprattutto nell’atto del dare vita, dove «risplende sempre immediatamente il fondamento: nel generare e nel nutrire, nel far vedere cose belle e nel far ascoltare notizie buone, nella cura e nella guarigione, nella risurrezione e nel perdono», lì prende corpo la certezza della differenza tra il fondamento come dominio (quello dell’uomo e che egli attribuisce a Dio) e il fondamento come dedizione (Dio).
Il Dio di Gesù è dunque incontrovertibilmente il Dio della Vita. Lo dice l’intelligenza delle scritture evangeliche, lo ribadiscono i versetti omessi dal liturgista, lo confermano quelli del brano odierno: «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo»
Al di là della domanda di profilo storico sul come abbiamo fatto in duemila anni a oscurare tale evidenza, tanto da aver re-introdotto pressoché tutte le ambiguità pre-cristiane sul volto di Dio, resta comunque aperto il quesito se tale “travisamento” sia dovuto solo a processi storici, scelte sbagliate di alcuni, desiderio di potere di altri (ecc…), o se – più radicalmente – dentro a tutto questo e senza venir meno ad una seria presa di responsabilità in proposito – non ci sia una strutturale fatica umana a dar credito a tale paternità. Che l’indagine debba andare in questa direzione, lo suggerisce soprattutto il continuo ritornare delle parole di Gesù sulla necessità di credere: «Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete», «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna».
È come se il contrasto letterario tra prospettiva dell’uomo e prospettiva di Dio fosse tutta in questi due poli: la fatica dell’uomo a credere nella vita, con il suo conseguente desiderio di morte, e la volontà di Dio di dare Vita all’uomo, con il conseguente desiderio di nutrirlo. Ma perché l’uomo desidera morire? E in che senso?
Lo mettono in luce bene sia la prima lettura con la presentazione di Elia, che «desideroso di morire», disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri», sia le mormorazioni raccontate nel vangelo, sia l’asprezza, lo sdegno, l’ira, le grida, le maldicenze e le malignità di cui racconta Paolo.
Dietro tutti questi atteggiamenti sta infatti lo stesso percorso interiore: l’interruzione del credito dato alla vita.
Perché Elia vuole morire? Non perché ritenga la morte più auspicabile della vita, ma perché ritiene quest’ultima non più degna di credito, che è il “ragionamento” di ogni aspirante suicida, come attestava già De Andrè nella sua Preghiera in Gennaio: «Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo in mezzo ai santi Dio fra le sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte». Si preferisce dunque la morte perché la vita non è più Vita.
Questo percorso interiore della sfiducia nella vita, lo si capisce ancor meglio se si va a vedere perché Elia voglia lasciarsi morire: egli ha appena saputo che la regina Gezabele vuole ucciderlo. Sembra un paradosso, eppure è proprio così: Elia decide di lasciarsi morire perché qualcuno lo vuole uccidere. Che è come dire che la vita diventa non più degna di credito quando ci si rivela che essa può essere smentita, non custodita, spazzata via; quando qualcuno o qualcosa possono metterla in questione a tal punto da annientarla.
Questo è il problema di Elia: che senso ha una vita in cui un altro può togliermela? Ma a ben guardare è il problema medesimo che soggiace alle mormorazioni, o alle maldicenze, all’asprezza, allo sdegno, ecc…: questi atteggiamenti interiori infatti rivelano solo un mettersi sulla difensiva a fronte di una vita che si è rivelata ostile, che letteralmente vuol dire nemica.
Chi infatti mormora? Chi teme di essere ingannato: «I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: ‘Sono disceso dal cielo’?”».
Chi si veste di maldicenze, malignità, ira, ecc…? Chi non è amato e non ama (due cose che van sempre insieme) al modo di Gesù: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore». Chi dunque non riconosce più la qualità sensata della vita.
Mi pare che questi esempi che la Scrittura traccia per mettere in luce questo contrasto tra desiderio di dare vita di Dio e desiderio di darsi la morte dell’uomo, siano ancora oggi molto attuali e rispondenti in qualche modo a quello che anche noi ci troviamo a vivere.
Anche a noi vien da dire “Ora basta! Desidero morire”: e non solo e non tanto in senso fisico stretto (suicidio), ma in quelle piccole morti della speranza, dell’amore, della fiducia, che ogni giorno attuiamo e che pian piano ci conducono dentro a un circolo vizioso per cui non sappiamo neanche più riconoscere le conferme della promessa che la vita ha in sé iscritta. È come se ci dessimo tante piccole morti “per protesta” contro una vita (e i suoi abitanti e i suoi meccanismi) che pare non mantenere le sue promesse, quindi in qualche modo per tentare in un ultimo disperato tentativo di far sentire la nostra disperazione, che qualcuno la veda, se ne faccia carico… in modo che qualcosa cambi, che è il senso di ogni protesta; ma poi incartati dentro alla mortifica-azione della chiusura alla vita (i piccoli/grandi baratri in cui ci richiudiamo) non sappiamo più neanche rinvenire ciò che invece dà in qualche modo ragione alla protesta e riconferma la speranza di vita: «Elia s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: “Àlzati, mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò».
Solo che se da questo circuito non si esce, si rischia di rimanervi imbrigliati per la vita, con le conseguenze che Paolo lucidamente mette in chiaro: «asprezza, sdegno, ira, grida, maldicenze, malignità», ritrovandoci senza accorgercene inaciditi, gretti, tristi…
Eppure sia dal testo biblico che dall’esperienza quotidiana è fin troppo evidente che dalla mortificazione della fiducia nella vita, non si esce da soli: non si tratta (solo) di consolidare la propria identità, non si tratta (solo) di uno sforzo volontaristico, non si tratta (solo) di piccoli passettini di miglioramenti graduali… C’è dell’altro che deve avvenire… o meglio: è un Altro che deve venire… per Elia è l’angelo che «per la seconda volta» lo invita a mangiare (cioè a tornare a vivere), per Paolo è il preveniente amore di Cristo che sana dall’acidità, per i Giudei è Gesù che si fa cibo… è cioè l’amore sovrabbondante, gratuito e dedito incondizionatamente («il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo») che può creare quel miracolino interiore, quella svolta, per cui uno non si vota più al desiderio di morire perché la sua vita ha parlato di morte, ma si ridona alla fiducia nella vita.
Di fronte a un mondo che sempre più si popola di persone che per paura di essere “uccise” si “uccidono” – un mondo che ben lungi dall’essere fuori è ben radicato dentro alle nostre stesse case – la provocazione della Scrittura diventa duplice: È perché ci amiamo troppo poco che non siamo più in grado di far scattare questi miracolini nei cuori della gente? E per altro verso: È perché ci poniamo come irraggiungibili dall’amore che ci ritroviamo ripiegati su noi stessi?
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3 commenti:
Appena qualche minuto fa con un amico mi "sono uccisa" anch'io.
Leggere il tuo commento è stato (solo!!)importante. E' semplice uccidersi dentro che coltivare piano piano quella speranza, quella fiducia, quella povertà e piccolezza del cuore umano.
C'è sempre una grande sproporzione tra quello che riceviamo e quello che riusciamo a donare nel Suo nome.
Grazie ancora una volta.
ciao 'ntonia...
mi fa proprio bene riscontrare che ciò che vivo, penso e scrivo abbia delle consonanze con te...
un abbraccio affettuoso
chia
Spesso tvb
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