La pazienza affettuosa di Dio
I cristiani della prima generazione, dopo il dramma della passione e morte del Signore, ritrovano nel “crocifisso risorto” che ripetutamente appare loro, la speranza perduta della salvezza loro e del mondo, e ne attendono a breve, con ingenua convinzione, l’imminente realizzazione totale, con il ritorno del Signore glorioso. Sono polarizzati da questa attesa, nell’entusiasta convinzione che la promessa sembra finalmente avverata e ne leggono la conferma nel profeta: “Consolate, consolate il mio popolo, … gridate che è finita la sua schiavitù!”. Ma il “messaggio” dell’ascensione del Signore è categorico e li smentisce: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?»(At 1,11). Allora prendono progressivamente e faticosamente atto che, in terra, la storia continua imperterrita, con il suo carico di conflitti, di oppressioni, di sofferenza e di morte… È un problema teologico, non cronologico. Riguarda la salvezza., adesso, di “ogni carne” (CEI: “tutti gli uomini insieme”). S’insinua così nel loro cuore, per sempre, l’assillo che tormenta ogni fede: perché non si realizza la speranza in cui crediamo? quando gli uomini avranno pace, la pace che pare allontanarsi sempre più? Ma, anche, quando verrà la mia stessa vera conversione alla radicalità del Vangelo?
… e così i discepoli imparano a non lasciarsi deludere o travolgere dagli eventi, ma scoprono il diverso “sentire in grande” di Dio: la sua macrothymìa (cioè la sua magnanimità o longanimità!), che precede, sospinge, accompagna e impregna la storia degli uomini. È per questo sguardo o atteggiamento di amore e di benevolenza sugli uomini che il tempo di Dio diventa “lungo”: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa magnanimità verso di voi… Cioè, allarga i confini del suo cuore, dilaziona le scadenze della sua fremente attesa della nostra conversione, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Credere in questa diversa misura del tempo di Dio illumina le profezie di luce nuova. Allora la speranza non delude, perché già lo Spirito è stato effuso nei nostri cuori ed ci apre all’esperienza del perdono, continuamente ricevuto e comunicato (Mt 18,23ss). Noi, come discepoli di Gesù, siamo nel mondo i ricettori e trasmettitori della magnanimità affettuosa del Padre.
La figura di Giovanni
... cosa grida “la voce” nei deserti della storia? Tutti i popoli e le culture in qualche modo ne tramandano l’eco! Le religioni accolgono ed esprimono questo gemito della creatura oppressa, questa dolorosa attesa di salvezza e insieme l’angosciosa esperienza della sterilità e impotenza dei nostri sacrifici e dei nostri riti. La salvezza non sta nel culto, nell’ascesi o nelle preghiere: dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo. I tentativi di auto-purificazione per prepararsi a questo “dopo”, sono sempre benemeriti, perché esprimono e rafforzano il desiderio del bene e insieme la consapevolezza della sua inaccessibilità, per noi. Questa drammatica ambivalenza è la novità di Giovanni. Tutti e quattro i vangeli ne sottolineano l’importanza: Giovanni è il più grande dei figli di donna, ma il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui! La sua voce risuona fino a noi e ci introduce nell’attesa del Signore, perché anche oggi questa tragica ambivalenza continua: Gesù è venuto, ma deve ancora venire. Il Vangelo è annunciato e c’è chi lo testimonia con le lacrime e col sangue… ma c’è chi lo annacqua in un battesimo rituale che lascia tutte le ingiustizie e le ipocrisie come prima. Questa ambiguità attraversa e inquina non solo il mondo e la chiesa, ma il cuore del discepolo stesso, sempre tentato di regredire dal vangelo di Gesù, che chiama alla conversione del cuore, verso le forme e i riti e i paramenti che coprono la nostra incapacità di cambiare. Abbiamo ridato importanza centrale al culto e alle sue liturgie, alle gerarchie e alle sue leggi, alle norme per il mangiare e per il sesso … Ma per la mitezza e la non violenza, l’amore ai nemici e la libertà di coscienza, contro le guerre e le armi, contro la tortura e la schiavitù, il colonialismo e l’oppressione delle donne … per secoli c’è stato silenzio o voci flebili, quando non connivenza!
Il giorno del Signore verrà…
… ma la data non è scritta in nessun calendario segreto ed è inutile andare ad indagare Nostradamus. Perché non si tratta di un cataclisma o di qualche castigo dall’esterno. Il veleno mortale è già dentro (inavvertito come un ladro) nella logica perversa e competitiva di questo mondo, come una tignola o una ruggine che ne consuma dall’interno la struttura intima, che per questo è destinata a consumarsi. Gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta. Che non sia un castigo che ci pende sulla testa con una sua data di scadenza, lo si vede chiaro dalla profezia stessa della lettera di Pietro: perché, al contrario, noi stessi siamo coinvolti in questa attesa paziente ed amorevole di Dio con la santità e pietà della nostra condotta, attendendo e affrettando, (come nel lungo travaglio del parto di un’altra creazione), nuovi cieli e terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Per cui l’esortazione ai discepoli: Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate d'essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. Questo non è soltanto l’Avvento, ma la condizione stessa del cristiano sulla terra!
Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo
Attendere Gesù, per noi adesso, non vuol dire dunque, se ascoltiamo la “voce”nel deserto, attendere uno sconosciuto, un dio ignoto, come diceva Paolo a chi sapeva tante cose, ma ancora non sapeva il vangelo! Gesù è la parola di Dio, è la sua luce nelle tenebre, la via, la verità e la vita, indicata dalla “voce”. Non è un idolo che condensa le attese alienate e proiettate senza scadenza nei cieli. Gesù ha spiegato che Dio è amore e su questo amore ha giocato la propria vita e la propria morte. Per questo mondo!... che suo Padre ha tanto amato da mandare, appunto il figlio, quaggiù, a salvarlo! Noi continuiamo a imprigionare la sua parola esplosiva, ma lo Spirito non è catturabile. Ed ecco che consuma i legacci e i paraventi in cui lo abbiamo rinchiuso e riappare incessantemente. Per questo Gesù ci ha lasciato il suo Spirito , perché attraverso di lui, anche se è già venuto, Gesù continua venire! Per questo ricelebriamo il Natale e ne prepariamo l’attesa. È un nuovo inizio. Come il ricominciamento della sua venuta tra i noi, che continuamente raccoglie e assume la fragilità, la malvagità, l’ingiustizia. Era lontanissimo da noi. Incarnarsi vuol dire accogliere l’estrema lontananza, proiettarsi in essa, viaggiando in senso contrario alla potenza propria di Dio. Per questo nel Natale è già compresa inevitabilmente la croce, la negazione stessa di Dio (Mt 27,40ss). Il Natale, infatti non è la conclusione con cui Dio, venendo tra di noi, pone fine con la sua potenza ai problemi di questo mondo. Natale è invece l’accoglienza e la condivisione sorprendente della totalità del mondo e dell’umanità, nella sua impotenza. L’abbandono, la sofferenza, il male permangono, dunque, storicamente, come prima. Non sono eliminate dalla pre-potenza di Dio, che verrà tra noi come un normale bambino. Ma vengono per sempre agganciate al futuro di Dio, per cui la storia ormai cova dentro di sé il futuro di Dio.
Allora la nostra storia (malvagia, o incomprensibile o diversa…) non scompare di fronte alla sua storia (la storia sacra), ma essa stessa diventa, nel mistero di Dio che l’ha accolta, storia santa e santificante, nel futuro di Dio, che è già all’opera attraverso lo Spirito che ci accompagna.
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