«E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza».
Ho voluto iniziare con queste quattro righe (che trasbordano leggermente rispetto a quelle proposte dalla liturgia) perché mi pare che in esse Pietro riesca davvero a leggere in maniera lucidissima l’intimità dell’uomo cristico, a mettere in luce i cordoni fondamentali, profondi e vitali del suo cuore: in pochi versetti infatti mette in campo il male, il soffrire, la paura della morte, il turbamento, lo sgomento; ma anche l’intimità col Signore, l’intelligenza della fede, la speranza, la dolcezza, il rispetto, la retta coscienza...
E il tutto non giustapposto come in un comune prontuario dei buoni consigli, ma articolato in maniera seria, tenendo conto della drammaticità della realtà dell’uomo e del mondo...
E proprio per questo mi sembra interessante cercare di sviscerare come Pietro stesso inanelli tutte queste tematiche...
Innanzitutto il fatto centrale: «adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi».
Ancora una volta il Nuovo Testamento ci invita a una relazione intima col Signore, che prima che in ogni altro luogo (il tempio, la sinagoga, la chiesa) ha da darsi in uno spazio privilegiato: «nei vostri cuori»... Quella è la sede «della speranza che è in voi».
E, in proposito, mi incuriosisce tentare di indagare un po’ questa speranza che è in noi...
Prima ancora che le ragioni... mi verrebbe addirittura da chiedermi: ma quale speranza? Di cosa stiamo parlando? Se qualcuno effettivamente capitasse qui a chiedermi qual è la speranza che abita il mio cuore, il cuore di “noi cristiani”, cosa direi?
Credo che la risposta che molti si aspetterebbero e forse anche la prima che ci sale alle labbra (la prima che ci hanno insegnato e che abbiamo respirato nel nostro ambiente natale) sarebbe quella di una speranza nella vita dopo la morte...
Ed effettivamente non si tratta né di una risposta banale, né di una risposta secondaria...
E tuttavia, già nel pronunciarla, mi accorgo di quanto si sia caricata negli anni di precomprensioni, superstizioni, folclorismi, che effettivamente rischiano di farla risuonare come banale, svuotata, incomprensibile, di certo poco pregnante per chi la ascolta...
E dunque? Qual è la speranza che è in noi? Forse, senza immediatamente precipitarci nella vita eterna, sarebbe meglio fermarci un attimo prima e dire semplicemente: speranza nella Vita; tenendo in questo modo un orizzonte più ampio (che certo include anche il post mortem, senza renderlo esclusivo).
Speranza nella Vita, dunque... in una vita che non è rimandata a un lontano aldilà, quasi che l’oggi carico delle sue fatiche e sofferenze sia un pegno per un premio futuro... ma Vita nell’aldiqua... speranza dunque nel fatto che la grammatica dell’esistenza umana parla di vita e non di morte, parla di custodia e non di abbandono, parla di amore e non di solitudine, parla di condivisione e non di competizione...
Ma quali sono le ragioni da rendere a chi ci chiede conto di questa speranza? Ha davvero senso, guardando in modo disincantato la realtà, avere questa speranza? O è solo un’illusione in cui a noi piace credere, per non guardare alla brutalità di un’esistenza che nasce nel non senso e finisce nel nulla? È speranza fondata o è “oppio dei popoli”?
A me pare che di fronte a queste domande, che vanno a toccare il senso profondo su cui si fonda una vita, si possano dare solamente risposte che arrivano allo stesso livello di profondità... risposte che allo stesso modo tocchino i fondamenti della nostra struttura antropologica, del nostro nocciolo più incandescente, del nostro centro vitale...
E in questo senso l’unica ragione convincente per la speranza che è in noi, per una vita che parli di Vita e non di morte, è la libertà storica di Gesù di Nazareth, è l’incontro con questa libertà, il coinvolgersi in una relazione con essa.
Infatti proprio perché il problema è esistenziale (nel senso forte della parola) credibile può essere solo una risposta che tocca l’esistenza. Non si può troppo filosofare o viaggiare nei meandri della metafisica... Devo esserci dentro io a quella risposta, la mia vita, la mia autocoscienza... altrimenti, sarà pure una risposta brillante, razionale, spirituale, ma non mi convincerà, non mi convertirà, non mi libererà il cuore, non mi farà spalancare il sorriso...
L’unica ragione credibile allora è proprio e solo l’incontro con quella libertà storica; solo il mio incontro personalissimo con essa, nell’intimo del più intimo di me... lì c’è da entrare in un circuito di energia vitale, in un circuito d’amore che Gesù chiama Spirito: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità. [...] Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. [...] Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Solo acconsentendo a questo circuito si può trovare la speranza nella Vita e la capacità, sperimentata e non teorica, di renderne ragione. Non si tratta di spiritualismi, ma di riconoscere che aveva ragione quel tale che parlava di un Dio che è Padre, che vuole la Vita dei suoi figli; che diceva che per essi è possibile vivere e non sopravvivere, perché la loro vita l’ha già salvata lui... e in questo modo per essi c’è proprio la possibilità di vincere la legge necessaria dell’istinto di sopravvivenza, che fa l’altro nemico, rivale e concorrente, con la dinamica libera dell’amore, che invece fa l’altro sempre fratello, amico, mio.E per acconsentire a questo circuito o anche solo per darci una sbirciatina dentro basta ammettere che forse è vero... Ed in proposito - come ha detto papa Ratzinger il 21 novembre 2007 - «a questo punto potrà forse risultare opportuno ascoltare un racconto ebraico, riportatoci da Martin Buber, nel quale il dilemma dell’esistenza umana sopra enunciato affiora in tutta la sua evidenza. “Uno degli illuministi, uomo assi erudito che aveva sentito parlare del rabbi di Berditchev, andò a fargli visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento di fare scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la verità della sua fede. Entrando nella stanza dello Zaddik, lo vide passeggiare innanzi e indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non prestò alcuna attenzione al visitatore. Finalmente si arrestò, lo guardò di sfuggita, e sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”. L’erudito chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia, tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da udire. Il rabbino Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli in tutta calma le seguenti parole: “Figlio mio, i grandi della Torah, con i quali tu hai polemizzato, hanno sciupato inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci hai riso sopra. Essi non sono stati in grado di porgerti Dio e il suo regno; ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma pensaci, figlio mio, perché forse è vero”. L’illuminista fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel tremendo “forse”, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione”».
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