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giovedì 10 aprile 2008

"Che cosa dobbiamo fare, fratelli?"

«Che cosa dobbiamo fare, fratelli?»… è la domanda delle domande… quante volte anche a noi è venuta alle labbra? È infatti la domanda che incrocia ogni uomo prima o poi… perché è la domanda per chi si ritrova alle prese con la fatica di vivere… che si tratti dell’angoscia per il male commesso («Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso»)… della sofferenza per il male subito («se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza»)… del giramento delle viscere che provoca la domanda sul senso della vita… di questa mia vita («io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»)…
E dunque «Che cosa dobbiamo fare?».
Non so bene perché, ma immediatamente mi viene in mente la risposta che avrebbe dato Etty Hillesum, quella stessa risposta che mi aveva tanto colpito, tempo fa, e che mi ha rimesso in circolo l’altro giorno proprio uno di quei miei fratelli: “aiutare Dio a non spegnersi dentro di noi”…
Già… perché solo così il problema è affrontato correttamente; cioè solo se la questione, come fa lei, è collocata nel suo posto proprio: dentro di noi e non fuori. Ciò che è in gioco infatti non è “come posso attrezzarmi per affrontare una certa cosa?”, ma “chi sono io, dentro a questa cosa?”… Chi sono io nel male commesso? Cioè, chi sono io per aver fatto ciò? Chi sono io nel male subito? Cioè, che ne è di me? Chi sono io che cerco il senso di questa mia vita?
Etty direbbe «[Sono quella che ha dentro] una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
Ecco che cosa bisogna fare… dissotterrare… E le tre letture di questa quarta domenica di Pasqua sembrano proprio indicare cosa vuol dire questo dissotterrare le radici vitali, umane, belle della nostra intimità e identità:
- «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo»;
- «Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme»;
- «Gesù disse: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo; […] io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»
.
Si tratta allora, in ogni caso, di immergersi nel Signore, nella sua vita, nella sua libertà… mischiandosi la pelle e le ossa con lui, legando il proprio destino al suo, come si farebbe con chi si ama davvero…
E se la pancia (o l’anima – a cui spesso piace comunicare attraverso la pancia…) è in subbuglio per una colpa commessa, immergersi in Lui vorrà dire convertirsi, cambiare mentalità, immergersi nella sua, nel suo orizzonte di senso… guardandoci come lui ci guarda, volendoci come lui ci vuole: pieni di Vita e di Vita in abbondanza.
Allo stesso modo se la pancia duole per il male subito, quello che ti sfianca proprio là dove la tua intimità aveva scelto di dar fiducia alla Vita, che invece ora pare smentirsi, dissotterrare vorrà dire immergersi in quella dignità del patire che trova senso solo dietro alle sue orme… orme che non spiegano il perché del male subito, ma insegnano a viverlo, non facendo spegnere Dio in noi, la vita in noi, noi stessi in noi…
E infine se invece le viscere sono in fermento per la fatica nell’intelligenza della propria storia, del suo senso, del suo perché (o per chi), dissotterrare vorrà dire entrare (immergersi) nella porta che fa accedere alla Vita, al nutrimento (pascolo)… in abbondanza…
Ma come fare, proprio quando le condizioni della nostra stessa storia sono così pressanti, a mantenere questa “immersione”, questa buona relazione, questo incontrarsi, questo dar credito?
Come fare quando il magone ti toglie il respiro, le lacrime ti surriscaldano faccia e cervello, la morsa al petto ti fa piegare dal dolore… Come fare, lì a mantenere lucido il proprio guardare a lui?
Ancora una volta è la grandezza d’animo di Etty a orientarci: non c’è condizione storica – dice – che possa impedire questo fiorire del nucleo intimo di noi stessi… di quello nel quale solo ci riconosciamo, una volta abbandonate tutte le maschere che ci mettiamo o ci mettono addosso… E infatti scrive: “Mio Dio, viviamo tempi di terrore. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, con gli occhi brucianti, e immagini di sofferenza umana si snodavano davanti a me, senza sosta. Ti voglio promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: […] Ti aiuterò, mio Dio, a non spegnerti dentro di me, ma non posso garantirti niente in anticipo. Tuttavia, una cosa mi appare con sempre maggior chiarezza: non sei tu che puoi aiutarci, ma siamo noi che possiamo aiutare te e, facendo questo, aiutiamo noi stessi. È tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio. Forse potremo anche contribuire a riportarti alla luce nei cuori devastati degli altri.
Dietro la casa, la pioggia e la grandine dei giorni scorsi hanno devastato il gelsomino. Più in basso i suoi fiori bianchi galleggiano sparpagliati nelle pozzanghere nere, che ristagnano sul tetto del garage. Ma da qualche parte, dentro di me, questo gelsomino continua a fiorire, esuberante e tenero come in passato. Ed espande i suoi effluvi intorno alla tua dimora, mio Dio. Vedi come mi prendo cura di te! Non ti offro solo le mie lacrime e i miei tristi presentimenti. In questa domenica ventosa e grigiastra, ti porto anche un gelsomino profumato! E ti offrirò tutti i fiori incontrati sul mio cammino, e ce ne sono davvero tanti. Così a casa mia ti sentirai il meglio possibile!”
.
Perché in fin dei conti, quando ci ritroviamo a chiederci «Che cosa dobbiamo fare?», non stiamo parlando ad altri, ma a noi stessi… Sono infatti quei momenti in cui tutto l’amore degli altri “serve” (ti offrirò tutti i fiori incontrati sul mio cammino, e ce ne sono davvero tanti), ma in cui noi, siamo chiamati a vivere, a scegliere, a essere… perché come dice Vasco nel suo modo un po’ impertinente: «Quando c’ho il mal di stomaco, con chi potrei condividerlo?»
È il momento in cui ci sei tu e nessun altro può esserci al posto tuo…
Come quando si muore… nessuno può sostituirsi a te, nel tuo morire…
E in quei momenti lì ci sei tu e… nessun altro… se non quel tuo intimo nucleo autentico a cui puoi accedere…
Ed è lì dentro che c’è… un pezzetto di Dio…
E, come Teresa, si arriva a scoprire che davvero «basta»!

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