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martedì 16 ottobre 2012

XXIX Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 53,10-11)
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 4,14-16)

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 10,35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

In questa Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, va a completare l’itinerario che l’evangelista Marco – prima di addentrarsi nell’ultima parte del suo vangelo – sta facendo fare ai suoi lettori all’interno delle dinamiche profonde che costituiscono l’uomo di sempre: la sessualità (27° Domenica del Tempo Ordinario: Mc 10,1-16) – l’economia (28° Domenica del Tempo Ordinario: Mc 10,17-29) – il potere (la tematica odierna).

Ciò che è interessante in questa scansione, è il fatto che proprio quest’ultimo elemento sia lasciato alla fine, immediatamente dopo al terzo annuncio di passione e precisamente a ridosso del racconto dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, dove troverà la morte; tale interesse ha origine in un doppio ordine di motivi: da un lato, il fatto che questo posizionamento, sottolinei una preoccupazione prioritaria, di chi organizza il materiale evangelico, proprio per questa problematica. E la storia della Chiesa non può che confermare tale intuizione originaria… Il potere è il vero pericolo del discepolo.

Dall’altro, e più radicalmente, la posizione di questa pericope, fa intravedere come in essa sia anticipato il problema del riconoscimento del crocifisso come messia.

In essa infatti è all’opera esattamente il problema capitale del cristianesimo: e cioè l’inaudito potere impotente di Dio… qui infatti sta precisamente l’incomprensione radicale – di allora e di sempre – dei discepoli del Signore: che non a caso è tematica che emerge anche in prossimità degli altri annunci della passione che Gesù aveva fatto.

Ma che cosa, propriamente, è oggetto di incomprensione, fraintendimento, scandalo per i discepoli?

Scrive P.A. Sequeri ne Il Dio affidabile: «La reazione sconcertata dei discepoli di fronte al progressivo delinearsi della ‘fine’ di Gesù è tema di cospicuo rilievo nella testimonianza. Lo sconcerto è direttamente – e significativamente – legato alle parole e ai gesti di Gesù che esprimono, insieme con la consapevolezza di tale fine, la propria decisione di non sottrarvisi in alcun modo. È questo che i discepoli propriamente non comprendono: ciò a cui cercano in tutti i modi di resistere. In verità, i discepoli non possono avere dubbi sul fatto che i capi giudaici rifiutano il radicalismo con il quale si assume la rappresentanza della verità di Dio; e cercano di contrastare con ogni mezzo l’autorevolezza con la quale egli esercita la sua anomala missione tra il popolo. Non possono aspettarsi dunque che Gesù venga accettato come suprema autorità religiosa: in una forma come quella alla quale sembra dare corpo Gesù, che appare con i tratti e le pretese del rifondatore messianico della religione giudaica. L’opposizione e il rifiuto, di cui Gesù è così acutamente consapevole, sono per così dire scontati. La paura della contrapposizione e della eventuale rappresaglia d’altra parte non spiega tutto: c’è anche chi è disposto ad accettare l’eventualità di una lotta cruenta. Nemmeno la mancanza di fede in Gesù è indicata dai testi come la radice dello sconcerto e della crisi: nessun cenno troviamo ad una qualche ritrattazione della professione di fede nella messianicità di Gesù di cui riferiscono i testi. La cosa veramente sconvolgente – realmente incomprensibile – per i discepoli è un’altra: Gesù manifesta anticipatamente la propria convinzione che la reazione dei sacerdoti e dei capi avrà successo; che essi riusciranno ad avvallarla con una pubblica condanna; e che la sua eliminazione avrà la forma pubblica di una oggettiva smentita della sua pretesa rappresentanza di Dio. Il quadro delineato dall’atteggiamento con il quale Gesù ‘punta pericolosamente’ su Gerusalemme non sembra includere l’intenzione di dare battaglia per la rivendicazione della propria pretesa. E l’epilogo previsto da Gesù esclude il suo insediamento al vertice di una struttura politico-religiosa entro la quale i suoi discepoli sostituiranno gli attuali detentori del potere di rappresentare Dio presso il popolo».

Esattamente questo insediamento invece hanno ancora in testa Giacomo e Giovanni… ma non solo loro…

La reazione alla loro richiesta («Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra») infatti, a fronte di un Gesù non per niente indispettito, è per gli altri discepoli di indignazione. Immaginando la vicenda, però, tale reazione appare più determinata dal nervosismo suscitato dall’esplicitazione di alcuni del desiderio inespresso di tutti (per vergogna o pudore), che per un’interiorizzazione autentica della prospettiva di Gesù espressa dalla sua risposta: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così».

Prova di questo è appunto il fatto che Gesù morirà da solo! Quelli che si indignano con Giovanni e Giacomo infatti non sono fuori dalla medesima logica di quelli. Infatti – continua Sequeri – «lo sconcerto – ma poi lo ‘scandalo’ – dei discepoli dipende propriamente dal fatto che essi vivono la passione e la morte di Gesù [o – per stare al nostro testo – il fatto che il Figlio dell’uomo sia venuto per servire] nella forma di una contraddizione ‘teologica’ decisiva. Essi sono sicuramente ‘dalla parte’ di Gesù di Nazaret, ‘contro’ i rappresentanti ufficiali della religione giudaica, ma continuano a credere esattamente nella teologia messianica alla quale questi ultimi fanno riferimento. La forza del dominio storico è anche per i discepoli la rappresentazione ovvia della potenza di Dio. E la legittimità della rappresentanza storica della verità di Dio fa circolo con quella rappresentazione. Essi perciò, proprio perché sono convinti della legittimità della rappresentanza di Gesù, non riescono a concepire che egli preveda e accetti l’impossibilità di affermare tale legittimità: imponendo storicamente l’evidenza del suo buon diritto ed esercitandolo nella forma del dominio. L’eccezionale potere taumaturgico e l’irresistibile autorevolezza profetica esibiti da Gesù sono soltanto anticipazioni – essi ne sono convinti (“abbiamo visto un profeta potente in parole ed opere”) – della irresistibile potenza di cui egli può disporre da parte di Dio in vista dell’affermazione di sé. Il punto critico di ‘differenziazione’ fra la fede di Gesù e quella dei discepoli» consiste invece nella smentita delle convinzioni dei discepoli e nell’identificazione che essi sono chiamati a fare tra Gesù e il Crocifisso.

«Il criterio ermeneutico di saldatura [di tale identificazione] fra Gesù e il Crocifisso è l’interpretazione della dedizione incondizionata di Dio come rifiuto delle forme storiche del dominio». Questo è il consenso che i discepoli – per il momento – non riescono a pronunciare; forse, per ora, nemmeno a comprendere. «Capiranno dopo … E’ un Dio troppo diverso (dal loro!) quel Padre che ha mandato Gesù nel mondo. Un Padre nel quale, appunto, Gesù è rimasto l’unico a credere. Un Dio troppo diverso dal dio che ci hanno insegnato e che elaboriamo continuamente dentro di noi … anche dopo il Vangelo, a costo di  manipolare e stropicciare continuamente la sua esperienza e le sue parole» [Giuliano].

«La forma del dominio storico potrebbe infatti anche essere intesa – in perfetta buona fede – come la garanzia inevitabile della dedizione, per lo meno nel momento in cui viene in gioco la sopravvivenza della sua verità di fronte alla tenacia della reazione opposta dall’incredulità. […] Ma secondo Gesù la richiesta e la ricerca di tale garanzia sono l’estrema tentazione della fede: la sollecitazione del Satana, che si serve della parola di Dio per legittimarsi. […] Nella prospettiva di quella tentazione la fede testimoniale è destinata a perdere il proprio sostanziale rapporto con la scena originaria: nella quale non si rivela un nuovo e più affidabile ‘padrone del mondo’: bensì la fine di ogni ‘padronato’. Dunque è proprio la buona fede che trae argomento dalla efficacia della testimonianza, la debolezza pericolosa in ordine alla fedeltà richiesta. La fede cioè disposta alla esibizione del potere di liberare dal male a proprio vantaggio, anche contro l’altro. La fede che mira a legittimarsi seducendo con segni prodigiosi, indiscutibilmente seducenti. La fede insomma che sarebbe disposta a lasciarsi definitivamente persuadere della irresistibile violenza del potere di Dio, ma resiste invece alla rivelazione della sua disarmata dedizione. Essa va respinta, da essa è necessario prendere irreversibile distanza: perché alla radice di quella fede, anche quando essa pronunci il nome di Dio e difenda i diritti della sua verità, c’è il peccaminoso assenso accordato alla identificazione tra la signoria della verità trascendente e la forma del dominio prevaricatore, tra l’affermazione di sé e la negazione dell’altro». Ma è proprio a questo che i discepoli – di allora e di oggi – fanno fatica ad accedere: essi infatti «ormai conquistati dal successo di Gesù, si vedono proiettati sul ‘dopo’: nel momento della sua definitiva acquisizione di un ‘potere religioso’ che gli spetta di diritto. E che ora è invece indegnamente detenuto dai capi del popolo. Ma il punto è proprio questo: Gesù mostra di non avere la stessa ‘fede’ dei suoi discepoli. E si consegna ‘volontariamente’ a quella morte, dove sembra scomparire persino la memoria del potere e dell’autorevolezza fino a quel momento esibiti e rivendicati come connaturali alla sua persona. La testimonianza evangelica conferma che questa è obiettivamente l’alternativa – la prova/tentazione – che l’esercizio effettivo della sua missione e la percezione dell’imminenza della sua fine violenta hanno posto anche a Gesù di Nazaret. Essere fedele alla missione della rappresentanza storica della verità di Dio, e consegnarsi ad una fine ormai costruita come rappresentazione storica dell’inattendibilità di quella pretesa, sono gli elementi del conflitto angoscioso vissuto da Gesù di fronte a Dio. La morte di Gesù sta per essere consegnata alla storia come evento che falsifica la pretesa della sua assoluta rappresentanza: può egli stesso accettare di essere tolto di mezzo in quel modo?

Il modo in cui effettivamente Gesù ha vissuto la sua passione e la sua morte davanti agli occhi dei suoi stessi discepoli conferma che egli accettò l’ambiguità della sua stessa eliminazione, per rimanere assolutamente fedele alla inaudita verità di Dio che era oggetto della sua ‘rivelazione’. Nessun miracolo per salvare se stesso. Nessuna esibizione di potenza destinata a colpire i suoi persecutori. Nessuna maledizione divina destinata a sigillare la fine di ogni rapporto con la storia che lo respinge. La verità di Dio rappresentata da Gesù rimane quella che coincide con l’implacabile tenacia della dedizione: e unicamente nella forma della dedizione può essere rappresentata sulla scena storica. Nemmeno l’interesse per l’affermazione della particolarità storica di colui che a quella verità rende testimonianza. Anzi, proprio questo è il caso in cui la forma della verità di Dio e la forma della testimonianza devono assolutamente coincidere».

Per questo un altro grande maestro – Bruno Maggioni – può scrivere: «nella misura in cui i modi coi quali i discepoli esercitano la loro autorità assomigliano a quelli delle altre autorità, insospettitevi» [in Il racconto di Marco]!

Ma se anche – a questo punto – sarebbe facile addentrarsi nella critica delle forme storiche (di potere) che la Chiesa di Gesù ha assunto e continua ad assumere nella storia, preferisco concludere invitando ciascuno – e me per prima – a guardarsi addosso: perché spesso mi accorgo di quanto – pur avendo tentato di impostare la mia vita (attraverso la collocazione geografica, la gestione del tempo, la compagnia dei fratelli, i criteri per le scelte, ecc…) a partire dalla mia fiducia in Gesù – i meccanismi spontanei della mia interiorità non sono poi così cambiati… anch’io nella vita e nei miei modi di fare tante volte sono trasparenza di un’idea di dio padronale e potente… e non del volto paterno e crocifisso del Dio di Gesù.

E invece è fino alle midolla che dovrebbe penetrarci questa conversione: in quale Dio crediamo e quale mostriamo?

venerdì 12 ottobre 2012

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro della Sapienza (Sap 7,7-11)

Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure ad una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 4,12-13)

Fratelli, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e della spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.

Dal vangelo secondo Marco (Mc 10,17-30)

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio». Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».


La prima lettura di questa Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario, raccoglie uno stralcio del discorso che il re Salomone avrebbe fatto parlando della sapienza. Al di là della finzione letteraria, ciò che è interessante è la ripetuta sottolineatura di quanto la sapienza sia preferibile ad ogni altra cosa egli potesse richiedere nella preghiera: «La preferii a scettri e troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure ad una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce»; e commenta: «perché lo splendore che viene da lei non tramonta».

Ciò che dunque rende la sapienza così desiderabile è il fatto che essa, a dispetto di tutte le altre cose pure desiderabili (scettri, troni, ricchezza, gemme inestimabili, oro, argento, salute, bellezza, luce…), non tramonti, possegga cioè una dimensione di eternità, di non corruttibilità: è qualcosa che può rimanere.

Il problema di Salomone è dunque il problema di ogni uomo: è il problema della salvezza, del fatto che la vita che spendiamo non sia vana, che qualcosa di essa rimanga, che abbia un senso, che noi rimaniamo. Nonostante oggi suoni anacronistico dire “il problema della salvezza” e nessuno paia preoccuparsene, in realtà se esso viene declinato – per esempio traducendolo in domande quali “Che senso ha la vita se poi si muore?”, “Cosa sono qui a fare?”, “Come è giusto spendere la vita?”, “Per cosa vale la pena farlo?”, “E tutto questo mio correre, affannarmi, preoccuparmi, darmi da fare, ha qualche futuro?”, “Io sono destinato a finire nel niente, e così tutte le persone che amo e tutto ciò che mi circonda?”, ecc… – salta immediatamente all’occhio come questo sia IL problema, il problema di tutti e di ciascuno.

Non a caso il capitolo 7 del libro della Sapienza da cui è tratta la nostra prima lettura iniziava sottolineando la parità di condizione – dal punto di vista del problema esistenziale – tra chi parla (Salomone) e ciascun uomo; i versetti 1-6 infatti suonano così: «Anch’io sono un uomo mortale uguale a tutti, discendente del primo uomo plasmato con la terra. La mia carne fu modellata nel grembo di mia madre, nello spazio di dieci mesi ho preso consistenza nel sangue, dal seme d’un uomo e dal piacere compagno del sonno. Anch’io alla nascita ho respirato l’aria comune e sono caduto sulla terra dove tutti soffrono allo stesso modo; come per tutti, il pianto fu la mia prima voce. Fui allevato in fasce e circondato di cure; nessun re ebbe un inizio di vita diverso. Una sola è l’entrata di tutti nella vita e uguale ne è l’uscita. Per questo pregai». E precisamente a questo punto iniziano i versetti 7-11 che compongono la nostra prima lettura, con la scelta salomonica di chiedere, su tutto, la sapienza.

A ben guardare il problema è il medesimo che assilla anche il “tale” di cui si parla nel vangelo, che proprio per cercare una risposta a questo angosciante mistero, «corse incontro» a Gesù «e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”».

Il problema è lo stesso, è il nostro, è quello di tutti: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?

Ce n’è per tutti… Perché nessuno è esentato dal problema del finire delle cose… del finire delle persone… del finire di se stesso… è un’evidenza che continuamente ci si ripresenta e ravviva l’angoscia dentro…

Dunque proviamo ad andare, insieme a questo “tale”, da Gesù, per chiedere a lui allora cosa dobbiamo fare per avere in eredità la vita eterna… Immediatamente la risposta di Gesù sembra ricalcare la tradizione: risponde come ci si aspetta che risponda, come avrebbe risposto qualsiasi rabbì del tempo… in qualche modo suscitando una certa delusione in chi domandava: «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”».

La delusione arriva dal fatto che l’indicazione di Gesù ricalca ciò che già da sempre si è fatto e che ugualmente non ha saziato la domanda di senso, non è sembrata una risposta adeguata alla prova della vita, se non altro non ha risolto il problema di questo “tale”.

Gesù si accorge di questa delusione e ha una reazione imprevista: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò».

Ebbene, in questo «lo amò», sta tutto il senso del brano. Tutto ciò che segue infatti – e che conosciamo a memoria (la proposta di Gesù di andare, vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, poi tornare da lui e seguirlo; il diniego e l’andarsene rattristato dell’altro; l’affermazione di Gesù dell’assoluta difficoltà per i ricchi di entrare nel Regno; lo sconvolgimento dei discepoli a tale annuncio) – mostra come l’incomprensione tra Gesù e quel tale – e forse tra noi e Gesù – non stia tanto nelle parole, nelle soluzioni, nelle proposte, più o meno accettabili e accettate; ma nella logica con cui si pensa la vita.

L’ansia di questo “tale” infatti e tutti gli elementi che compongono il suo modo di porsi di fronte a Gesù e il suo modo di domandare, rimandano ad una prospettiva per cui la vita è una conquista. Come dicevamo anche nelle nostre domande esplicative, tutto ruota intorno alla questione del “Cosa devo fare?”… Quali sforzi, quali sacrifici, quali rinunce? Oppure: quali imprese, quali fatiche, quali eroicità?

In evidenza è dunque l’attività dell’uomo, il suo doversi dare da fare, il suo dover – appunto – conquistare una meta, realizzare un successo, afferrare un risultato.

La prospettiva di Gesù invece va esattamente nel verso opposto: «Lo amò»; cioè come primo approccio ha esattamente quello di togliere l’altro dalla sua frenetica attività e di porlo in una situazione di passività, recettività: prima che quello decida se accettare o meno la sua proposta, anzi, prima ancora di formulargliela, Gesù lo investe di benevolenza, di uno sguardo amante, dell’invito ad entrare in quel suo spazio interiore che ha allargato per farci stare anche lui, l’ultimo arrivato.

E non solo, ma proseguendo, continuamente ripropone questa logica: quando poi effettivamente formula la sua proposta, invitando quell’uomo ricco a lasciare tutto, darlo ai poveri e seguirlo (suggerendogli dunque di mettersi nella posizione di chi si deve affidare, piuttosto di chi deve gestire); quando ai discepoli “sconcertati” e “stupiti” dichiara l’impossibilità umana a costruirsi una salvezza; quando infine mostra come però l’impossibilità umana, diventi possibile in Dio, dunque in un mettere in Lui la propria vita…

Il succo di tutto il brano dunque non credo sia propriamente quello di un invito a lasciare tutto ciò che abbiamo o – come lo abbiamo spesso ridotto noi – a lasciare simbolicamente qualcosa di nostro – dato che lasciare tutto è impensabile –; quanto piuttosto lasciare la logica della conquista per la logica dell’affidamento (che è l’unica poi, che, anche materialmente, consente di lasciare tutto senza rimpianti e inacidimenti postumi).

L’invito di Gesù cioè sembra essere quello di chi suggerisce all’uomo di porsi nella vita in maniera nuova. Da quando infatti siamo “gettati” in questo mondo, il nostro tentativo innato e immediato è quello di salvarci la vita, di imparare a gestire le situazioni, a controllarle, a dominarle: per sapere sempre cosa fare, come fare ed eventualmente cadere in piedi. E tentiamo di usare questa strategia anche nelle cose che invece gestibili non sono: l’amore, il dolore, la morte, la vita nuova che ogni tanto sgorga… E ci ritroviamo a chiedere al Signore: “Cosa dobbiamo fare?”, “Come si gestisce il dolore, l’amore, la morte, la nascita, …?”.

Ma l’evidenza continuamente ci rimanda che per quanto proviamo e magari a volte ci vada anche bene, restano cose non in nostro possesso, non dominabili, non controllabili. Ed ecco il senso di fallimento, la frustrazione, la delusione, la disperazione: perché non poter gestire la morte, vuol dire dover morire e restare morti, per quanto ci compete…

Fin qui noi…

Dentro qui, quell’uomo di Nazareth, che i cristiani credono essere il Figlio di Dio, inserisce la sua buona notizia: l’impossibilità di salvarvi la vita non è disperante, perché non doveva nemmeno essere una vostra preoccupazione; essa infatti è già nelle mani sicure del Padre. È lui che salva la vita, per questo essa diventa vivibile e non nei termini di una giungla dove il più forte vince, ma nei termini di una casa, dove si può davvero essere fratelli e prendersi cura dei piccoli, perché la vita di tutti è al sicuro e l’altro non ha motivo di essermi rivale o nemico o avversario, perché non ha niente da guadagnare sulla mia pelle…

È quello che fin da piccoli impariamo, ancora più originariamente che l’istinto di sopravvivenza e dunque – forse – più autenticamente: infatti appena “gettati” in questo mondo, prima di imparare a sopravvivere, abbiamo imparato a stare nelle mani di colui/colei tra le cui braccia inevitabilmente ci hanno messo … ed è questo affidamento naturale e inevitabile per tutti e per ciascuno che ci ha fatto uomini e donne – più di qualsiasi altra cosa… forse davvero allora, come diceva il vangelo di domenica scorsa, dovremmo ritornare a essere bambini, e come dice il vangelo di oggi, dovremmo acconsentire ad essere poveri tra i poveri… laddove non esistono più padri, ma solo «case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà»… la vita eterna, la vita che rimane, che è solo il bene che avremo saputo scambiarci tra piccoli, tra poveri, quella volta che uno aveva bisogno di una carezza e non c’era nessuno che gliela faceva.

martedì 25 settembre 2012

XXVI Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro dei Numeri (Nm 11,25-29)

In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».

 

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 5,1-6)

Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.

 

Dal vangelo secondo Marco (Mc 9,38-43.45.47-48)

In quel tempo, Giovanni rispose a Gesù dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nelle Geenna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geenna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

 

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa Ventiseiesima Domenica del Tempo Ordinario, si presenta – ad una prima lettura – di non facile comprensione perché sembra racchiudere discorsi di Gesù accostati in un secondo momento e – almeno apparentemente – non troppo lineari tra di loro: vi è una prima parte in cui si parla dell’episodio di un tale che scacciava i demoni nel nome di Gesù, con il disappunto dei discepoli; vi è una seconda parte in cui si parla dell’accoglienza di chi crede in Lui e dello scandalo a cui spesso è sottoposto; vi è, infine, una terza parte il cui tema è legato all’immagine del “tagliare” ciò che, dei discepoli, crea scandalo.

Ulteriore motivo di fatica nella lettura del testo è il facile travisamento in cui alcune espressioni possono essere (e sono state) interpretate, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo argomento trattato.

Ci facciamo allora instradare dal commento che Bruno Maggioni fa di questo brano in Il racconto di Marco, Cittadella Editrice, Assisi 199912, 140-142: «Si tratta di insegnamenti disparati tenuti insieme da parole-chiave, che hanno il merito, da una parte, di facilitare la memorizzazione e, dall’altra, di indicarne aspetti salienti. Nel nostro caso le parole-chiave sono due: nel mio nome e scandalo. Sono insegnamenti disparati che però hanno in comune l’uditorio (la comunità) e, più interiormente, devono tutti essere letti alla luce della Passione di Cristo: sono infatti precedute dalla seconda predizione della Passione [cfr. il vangelo di Domenica scorsa]: indicano alcuni contenuti della sequela.

Dietro la rimostranza di Giovanni (abbiamo visto un estraneo scacciare demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito) si vede con chiarezza quell’egoismo di gruppo (così frequente), quella meschina paura della concorrenza, che spesso si maschera di fede (infatti la sua pretesa è di tutelare l’amore di Dio), ma che in realtà è una delle sue più profonde smentite. Il discepolo puntiglioso e gretto – ma anche profondamente insicuro – mal sopporta che lo Spirito soffi dove vuole. Ne è invidioso, si sente smentito e tradito: non dovrebbe lo Spirito di Dio essere solo nelle nostre mani, così che appaia con chiarezza che noi, noi soli, ne siamo i portatori? Torna alla mente un episodio dell’A.T. [cfr. la prima lettura di questa XXVI Domenica]: Mosè comunicò lo Spirito di Dio a settanta anziani, che erano usciti dal campo e si erano radunati presso il tabernacolo. Ma un giovane notò con sorpresa che lo Spirito si era posato anche su Eldad e Medat, due anziani che non si erano uniti al gruppo e che non erano usciti dal campo, e anch’essi si misero a profetizzare. E Giosuè esclamò: Mosè, Signore mio, proibisciglielo! Mosè invece rispose: sei tu geloso per me? Fosse profeta tutto il popolo di Dio e avesse il Signore posto il suo Spirito su ciascuno di loro! (Numeri 11,16-30). Gli autentici amici di Dio, come Mosè e Gesù, godono della liberalità dello Spirito. Non se ne sentono smentiti, perché amano Dio e non se stessi, e questo è il punto. Invece molti puntigliosi sostenitori di Dio – vorrei dire tutti i puntigliosi sostenitori di Dio – in realtà sostengono se stessi, il proprio recinto.

Ma è anche vero che non ogni gesto è di Cristo, non ogni tentativo di liberazione gli appartiene: gli appartiene solo ciò che viene fatto nel suo nome (“abbiamo visto un estraneo scacciare un demonio nel tuo nome… non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome, e poi possa dir male di me”). Soltanto che il “nome” non indica il recinto, ma la logica.

La sentenza con la quale Gesù chiude questo insegnamento [e la prima parte dell’odierno brano di vangelo] è sorprendente: “Chi non è contro di noi, è con noi”. […] “La tolleranza di Gesù esclude ogni forma di puntigliosa ortodossia” [R. Schnackenburg]».

Inizia poi la seconda parte del testo che stiamo leggendo: quella sull’accoglienza / scandalo nei confronti dei discepoli, definiti “piccoli che credono”.

Per comprendere il senso di queste parole di Gesù ed evitarne letture fuorvianti (per esempio usare il testo «Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa», per avvalorare la tesi che vede l’accoglienza dell’altro uomo – predicata da Gesù – come da declinare solo nei confronti dei credenti in Lui – cfr. il dibattito sull’interpretazione di Mt 25, rispetto al quale qualcuno legge in quel “miei fratelli più piccoli” delle espressioni «Tutto quello che avete / non avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete / non l’avete fatto a me», come riferito ai soli discepoli e non ai piccoli in senso lato; oppure vedere nel testo «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare», un riferimento alla pedofilia), è necessario ricostruirne il contesto.

Scrive ancora Maggioni: «Al tempo di Gesù c’erano i maestri della legge che con il peso della loro autorità e col fascino del loro prestigio – ma anche con la minaccia delle loro scomuniche (Giov. 9,22; 12,42) – dissuadevano i semplici dal seguire Gesù: turbavano la loro fede, erano la pietra di scandalo. Più in generale, il “piccolo” è il discepolo perennemente smentito nella sua fede, smentito non solo dal mondo, ma dalla sua stessa comunità, persino da coloro che pretendono di essere i suoi maestri».

Questo è dunque il senso delle parole di Gesù sull’accoglienza / scandalo di chi crede in Lui: chiunque – anche chi è fuori dalla comunità – intuisca e favorisca la logica del Regno “è dei nostri” e chiunque – anche chi è dentro alla comunità – ostacoli questa logica, se ne sta tirando fuori.

Di nuovo emerge quanto si sottolineava in precedenza: Gesù non ragiona mai con la logica del recinto discriminante, al cui centro sta l’appartenenza o meno (il tesseramento nel circolo cattolico o no); Egli, piuttosto, vede in ciascun uomo (che sia formalmente dei suoi o meno) sempre la medesima viscosità per cui in tutti c’è sempre dentro contemporaneamente il germe di bene che ha voglia di instaurare logiche evangeliche e il meccanismo mortifero che le chiude. Per ciascun uomo spera che nel cuore germini la dinamica del Regno e per ciascun uomo “frigge” per la paura che la paura ci invada e ci paralizzi la vita.

 

Infine c’è l’ultima parte… la più ostica, a mio avviso… perché la più travisata lungo i secoli. Infatti quella frase «Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nelle Geenna, nel fuoco inestinguibile», è facile che sia usata per avvalorare l’idea moralistica della castrazione per evitare il peccato. Non a caso la “mano da tagliare perché crea scandalo” è – nelle nostre menti – immediatamente associata alla mano che fa qualcosa di sessualmente deprecabile. Dunque tale mano sarebbe da “tagliare” perché altrimenti se non segui il dettame cattolico (insegnato nei seminari fino a qualche anno fa!) del “non toccare, non toccarti e non farti toccare”, finiresti all’inferno…

A parte la totale incongruenza di questo modo di pensare con quella che è la logica di Gesù proposta dai quattro vangeli, io – comunque – non credo che quello sia il senso da dare a queste parole. Vi propongo perciò una lettura della quale ringrazio il prof. Silvano Petrosino, il quale in un suo intervento – già più volte citato in queste mie riflessioni – mi ha aperto uno squarcio su quel «è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nelle Geenna, nel fuoco inestinguibile».

La conferenza di cui parlo è quella intitolata “Si diventa uomini. Tra gettatezza e cura”. Ad un certo punto del suo discorrere, Petrosino interviene in questo modo: «Pensate a Giacobbe (in Gen 32), che arriva al fiume Yabbok; passan tutti (si chiama esperienza, passare un limite, fango, viaggio, l’attraversamento di un limite, fare esperienza, diventare uomini, non si nasce uomini, c’è bisogno di un’esperienza. E non c’è esperienza umana senza l’accettazione del limite e del dolore e del fallimento. È l’opposto di quello che dicono).

Passa… Bang… un ostacolo… già questo la dice lunga: non è un trionfo, è un impatto. La vita è un ostacolo. Nasci col sedere grosso. Ti muore la mamma. I tuoi si separano. O tuo padre si fidanza con una della tua età… Bang… L’impatto. Enorme no?

Giacobbe ha il suo impatto e si mette a lottare contro questo qui. Tutta la notte, tutta la giornata. Che vuol dire tutta la vita.

Alla fine quell’altro dice che deve andare… “Come devi andare? Dimmi chi sei!”. “No! Però ti devo dire la verità, tu hai vinto”.

Come ha vinto? È sempre lì in mezzo, il fiume non l’ha passato. Quegli altri chissà dove sono. Lui è in ritardo… Ma gli dice: “Tu hai combattuto con Dio e hai vinto”. Cioè sei rimasto uomo. Hai combattuto. Non hai fatto il giro. Hai combattuto.

“E già che ci sono ti faccio un dono…”.

E uno pensa a un cioccolatino, a una coppa, a uno scudetto…

“Già che ci sono ti slogo l’anca”.

E questo tutta la vita si porterà dietro l’anca slogata. Perché è meglio entrare nel regno dei cieli senza un occhio, che perdersi. Ma è vero. Non è una pillola di saggezza di Gesù. È vero.

Dobbiamo diventare uomini. Il che non vuol dire eccellenti. Vuol dire uomini. E questa è l’eccellenza».

Il senso allora di quel “tagliala”, “taglialo”, “gettalo via” è quello di chi si decide per il fronteggiamento della vita («prendi la tua croce»): anche a costo di rimanere menomato, testimonierò fino alla fine che la tua logica, Signore, quella di chi spende/perde la vita per amore degli altri, è l’unica vera.

venerdì 21 settembre 2012

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Dal libro della Sapienza (Sap 2,12.17-20)

[Dissero gli empi:] «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

 

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 3,16-4,3)

Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia. Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite ad ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.

 

Dal vangelo secondo Marco (Mc 9,30-37)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafarnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Dopo la prima settimana di scuola, quando noi maestre abbiamo già tutti i capelli dritti per la disperazione, il vangelo di questa Venticinquesima Domenica del Tempo Ordinario cade proprio a fagiolo… «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato»…

 

A parte il facile umorismo, questa introduzione mi serviva per dire che questa settimana mi piacerebbe concentrarmi su quest’ultima frase del vangelo. La prima parte infatti, rispecchia in qualche modo la scena di settimana scorsa: siamo di fronte al secondo annuncio della passione che Gesù fa in Galilea, con la consueta incomprensione dei discepoli e una sua parola sulla sequela (tutti gli annunci di passione sono infatti costruiti con questo schema ternario: annuncio; incomprensione; insegnamento di Gesù sul discepolato).

Ciò che, innanzitutto, vorrei guardare di quell’ultima frase che il brano di vangelo riporta, è il suo secondo stico («Chi accoglie me [= Gesù], non accoglie me, ma colui che mi ha mandato [= il Padre]»), perché qua dentro è contenuta la verità più grande del fatto cristiano, troppe volte dimenticata… E cioè che per un cristiano il volto di Dio non è ignoto, ma coincide con la storia di Gesù (cfr. anche Gv 12,45: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato»).

Questo è il novum che il Cristianesimo porta nella storia dell’umanità, ponendosi in scia con l’Ebraismo e portandolo a compimento. Infatti, mentre per millenni l’uomo ha continuato ad immaginarsi (che vuol poi dire “inventarsi”!) dio o gli dei a partire da sé (dalla paura che il fulmine che vedeva cadere gli ingenerava, dal bisogno che il suo campo producesse frutti o che le sue bestie partorissero piccoli sani, ecc…), con il Dio biblico – per la prima volta – è Dio che “si dice”, dice qualcosa di sé (ecco la grande storia del popolo ebraico!): non è più un dio inventato dall’uomo, cercato dall’uomo, prodotto dai suoi bisogni… Ma è un Dio che cerca l’uomo, che gli si fa presente, che gli si manifesta: un Dio che decide di farsi conoscere.

Il culmine di questo percorso, di questa “rivelazione”, per i cristiani, avviene in Gesù, che non è più solo uno dei grandi profeti del passato, non è più solo uno dei grandi uomini di Dio che si sono succeduti nella storia, ma è colui, vedendo il quale, si vede che faccia c’ha Dio!

Ecco il passettino in più che i cristiani fanno, che è ciò che li distingue anche dai musulmani. Infatti, mentre per ebrei ed islamici il volto di Dio resta sempre in qualche modo celato, velato e dunque, per certi aspetti passibile di ambiguità (Egli mantiene una certa misteriosità, dentro alla quale l’uomo può sempre temere che si nasconda un volto duro di Dio), per i cristiani il volto di Dio è inequivoco, perché ri-velato, incontrabile, “accoglibile”… nella storia di Gesù!

Questo è lo strepitoso del fatto cristiano: che Dio sia conoscibile nella storia dell’uomo Gesù; e lo sia “senza ombra di dubbio”, senza cioè possibilità di una doppiezza nascosta dentro alla sua misteriosità! Dio Padre è quella “cosa” lì che si è vista in Gesù: e solo quella!

Ecco perché Gesù può dire: «Chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Ma forse – si trattasse anche solo di questo – non faremmo poi così fatica a cogliere e accogliere lo “scaravoltamento” che si attua con queste parole di Gesù… Il punto è che la famosa frase aveva anche un primo stico… ancora più difficile da digerire per le nostre inconvertibili mentalità religiose, e cioè: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me».

Proseguendo infatti con la nostra lettura al contrario del versetto 37, se ne deduce questa logica: accoglie Dio, chi accoglie Gesù; e accoglie Gesù, chi accoglie i bambini… Entra cioè in relazione con Dio (che è il grande progetto dell’uomo da che è uomo!), chi si fa intrecciare la vita con quella di Gesù, con quella sua storia attestata da quelle parole che sono il vangelo...

E per fare tutto ciò… bisogna avere a che fare coi piccoli, bisogna accoglierli, non lasciarli ai margini della nostra società “dei grandi”…

Chi l’avrebbe mai detto!?!? Secoli e secoli di tentativi di saltare lassù dove pensavamo fosse Dio, per poi scoprire (parola sua!) che bisognava chinarsi quaggiù sulla terra: chinarsi perché i bambini sono un po’ cortini e se li vuoi guardare in faccia ti devi fare bassetto anche tu…

Come per tutti i piccoli della storia, bambini o non bambini… li raggiungi, li guardi in faccia, ti fai guardare in faccia, solo se ti approssimi – almeno un po’ – a dove sono loro, al punto di vista da cui guardano il mondo, proprio come i bimbi che ci immaginano come dei giganti solo perché ci guardano dal basso!

Che sia proprio così… lo si vede poi dal fatto che quanto il Signore andava annunciando, l’ha poi realizzato davvero… Lui per primo si è messo a guardare la storia dal punto di vista dei piccoli, degli ultimi, dei maledetti… Per quello che in Lui non c’è stata poi più maledizione, punizione, vendetta… Questo timore, che sempre ci ritorna (come ha mirabilmente tratteggiato l’autore biblico, quando si è inventato il mito del peccato originale), che dio sia anche questa cosa qui e che dietro al volto buono che ci ha mostrato ne nasconda uno duro, intransigente, calcolatore, in Gesù è definitivamente spazzato via… Se torna (il timore) è perché non ci siamo fatti davvero impregnare dalla sua logica o perché ce la siamo momentaneamente scordata… Se fa paura, non è Lui!

Se abbiamo paura, Lui è quello che si fa bassetto, per riuscire a guardarci in faccia, noi che per paura ci siamo rimpiccioliti, e – guardando dal nostro punto di vista – ci insegna a guardare col suo sguardo.


venerdì 14 settembre 2012

XXIV Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaìa (Is 50,5-9a)

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Giac 2,14-18)

A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

Dal Vangelo secondo Marco (Mc 8,27-35)

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

In questa Ventiquattresima Domenica del Tempo Ordinario la Chiesa ci propone – come brano di vangelo – il testo che sta al centro dello scritto di Marco. Esso infatti è composto in tutto da 16 capitoli e strutturato in due grosse parti:

I-                                                                                                                        dal cap. 1 al cap. 8, la prima parte (individuabile attraverso la ripresa del titolo “Cristo”: Mc 1,1 «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» e Mc 8,29 «Tu sei il Cristo»);

II-                                                                                                                      dal cap. 8 al cap. 16, la seconda (con la ripresa dell’altro titolo cristologico, “Figlio di Dio”: Mc 1,1 «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» e Mc 15,39 «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»).

Ci troviamo dunque esattamente al centro del vangelo di Marco, dove ricorre il famoso testo della confessione di fede di Pietro, con tutto quanto segue: il primo annuncio di Gesù della sua passione, il rimprovero di Pietro, il noto “Vade retro Satana” e le parole di Gesù sul discepolato: «Se qualcuno vuol venire dietro a me…».

Proprio perché siamo di fronte ad un testo così conosciuto, il rischio maggiore è quello di farcelo scivolare addosso, come se ormai non avesse più la forza di interpellarci.

Vorrei allora provare oggi a darne una lettura che ci chiami in causa in prima persona… Perché, al di là del fatto narrato in queste righe (e della dinamica storica delle libertà che lì si sono mosse: Pietro, Gesù, i discepoli, la gente…), mi pare di poter intravvedere nel testo, quasi una sorta di strutturazione che delinea l’itinerario della fede, dove:

-          il primo passo è rispondere alla domanda – rivolta dal Signore a ciascuno di noi “Chi dite che io sia?”;

-          il secondo, è decidere di seguire il Signore («Se qualcuno vuol venire dietro a me»);

-          il terzo, è rinnegare se stessi;

-          e l’ultimo è prendere la propria croce.

Si tratta di un itinerario che in qualche modo scandisce il progredire della vita cristiana, ma che, contemporaneamente, è sempre inesauribile… Ci si ritrova – nelle varie fasi della vita – a ripercorrerlo sempre daccapo, quasi come una spirale che ritorna sempre sulle stesse questioni, ma ogni volta a profondità diverse.

Ma… andando un po’ più a fondo: Cosa vogliono dire queste espressioni? Proviamo a guardarle più da vicino…

 

Innanzitutto rispondere alla domanda “Chi dite che io sia?”: è il punto di partenza per ogni relazione col Signore (ed anche tra di noi…): pronunciarsi su di Lui, sbilanciarsi in una nominazione, nel dargli un nome, nel chiamarlo per nome. La domanda allora diventa radicale: Cosa dico del Signore? Cosa posso/so dire di Lui? Chi è per me, concretamente nella mia vita?

E… Le risposte che dò, sono in consonanza col vangelo?

Entra in gioco in questo primo passo della fede la questione del conoscere! Solo quando conosco qualcosa o qualcuno posso pronunciarmi con autenticità su di esso, su di lui. L’uomo infatti funziona così: a fronte di un altro (una cosa, una situazione, un’altra persona, Dio…) in cui si imbatte, è chiamato – senza via di scampo – a pronunciarsi, a prendere posizione (magari anche solo fra sé e sé). Sempre la nostra soggettività è chiamata in causa, sempre noi ci determiniamo a fronte di ciò che incontriamo, di ciò che ci capita, anche quando decidiamo di non decidere, perché decidere di non decidere è comunque un decidere…

In questo senso la conoscenza diventa una delle funzioni più significative dell’essere uomo (vitali!), perché è solo attraverso la conoscenza che il mio prender posizione può essere giustificato, può trovare un orientamento, un senso, una progettualità e non scadere in una volubilità sciocca.

Questo – che vale per ogni ambito e situazione della nostra vita – è tanto più vero quando si ha a che fare con le relazioni… e con la relazione con Dio in particolare. Il primo passo dell’itinerario della fede è dunque impegnarsi in una conoscenza (fatta soprattutto di immersione nella sua Parola e nell’apprendimento di quell’attitudine speciale che è il leggere la storia a partire da quello sguardo lì…) che permetta a ciascuno di rispondere con spessore alla domanda “Chi dite che io sia?”, onorando il compito di dare una risposta per la quale ne va di me e non che resti estrinseca a ciò che sono, foss’anche una risposta atea.

 

Il secondo passo è quello cui facevamo già cenno, decidere di seguire il Signore: a fronte di un impegnarsi (cioè di un impegnare se stessi) nella conoscenza del Signore, arriva il momento in cui prendere posizione, in cui sbilanciarsi in una scelta, in cui determinare se stessi: “Questo è uno che vale la pena di seguire” oppure “Questo è uno che non vale la pena di seguire”. Fin qui devono arrivare tutti: gli atei seri, sono quelli che arrivano fino a questo punto dell’itinerario di fede (anche se “ateo” e “itinerario di fede” sembrano parole che non vanno bene insieme). Ma più che gli atei a me preoccupano i credenti… quelli come me, perché mi chiedo: Quanto il nostro – spesso ostentato – rispondere che abbiamo deciso di seguire il Signore è frutto di una conoscenza vera di Lui? Quanto è una scelta consapevole e decisiva per il mio strutturare me stesso?

A volte – nell’itinerario di fede – son più seri gli atei…

 

Ma cosa vuol dire questo “seguire il Signore” per cui – ad un certo punto (e poi chissà quante altre volte nella vita) – ci siamo decisi? Risponde il vangelo di oggi: vuol dire rinnegare se stessi.

Qui entriamo nelle due parti dell’itinerario della fede (il terzo e il quarto passo) più travisati nella storia della Chiesa… e allora bisogna farsi attenti… Perché, mentre i primi due, sono i più disattesi, questi due sono i più fraintesi (che forse è peggio…).

Dico questo perché intorno a questo “Rinnegare se stessi” si è alimentata lungo i secoli tutta una certa spiritualità mortificante, castrante, inibente che vedeva nei sorrisi, nelle feste, nelle coccole qualcosa di pericoloso, perché peccaminoso… dimenticando che, invece, la vita di Gesù si è strutturata proprio su queste tre coordinate! Ne è risultata una visione in cui al centro stava il peccato (e non l’amore di Dio in Gesù)… un peccato da evitare (per evitare l’inferno e meritarsi il paradiso), che ha soffocato la vitalità di un sacco di persone e di culture. Non mi dilungo, tanto fino a pochi decenni fa erano ancora ben visibili i tratti di questo sedicente cristianesimo (e sacche residue se ne possono trovare ancora tutt’oggi!)… Mi limito solo a dire che rinnegare se stessi in questa ottica, voleva dire mortificare tutto ciò che aveva a che fare coi “piaceri della vita” (il cibo e il sesso in particolare) e con la titolarità della propria coscienza (accompagna, infatti, questa spiritualità mortificante, un’insistenza marcata sull’autoritarismo).

Rinnegare se stessi, invece, nella logica del discorso che Gesù fa in questo passo del vangelo di Marco, vuol dire invitare chi lo vuol seguire a fare i conti con il “salto evolutivo” che l’essere uomini su questa terra comporta. L’uomo infatti sboccia sul vecchio tronco della materialità e dell’istintività, caratterizzate dai sacrosanti (perché altrimenti non ci saremmo!!) spirito di conservazione e istinto di sopravvivenza. L’uomo ha dentro questa matrice qua! Ma quando il mondo, con l’apparire dell’umano, fa il salto verso lo psichico e poi verso lo spirituale, non può non avere uno sconvolgimento… perché ha dato alla luce la libertà: ora non è più vero che tutto al suo interno si muove secondo leggi naturali pre-scritte; ora è comparso qualcuno che – se vuole – può fare diverso.

È di fronte a questo che Gesù mette i suoi: andare dietro a Lui vuol dire farsi carico di questa possibilità di fare diverso… diverso da come suggerisce lo spirito di conservazione, diverso da come suggerisce l’istinto di sopravvivenza, diverso da come suggerisce la convenienza… Egli infatti chiede di orientare tutte le decisioni secondo un altro criterio, quello dell’amore per l’altro uomo, questo a costo di se stessi, con la fatica di arginare lo straripante io che ci abita e che ha sempre paura di morire e per questo vuole imporsi, salvarsi, avere la meglio… Gesù invece annuncia la possibilità di fare diverso, di convertire questo io dalla paura che lo fa diventare rivale degli altri e aggressivo, possessivo, egocentrico… alla serenità di chi non deve più temere la morte, perché essa – per amore e dall’amore – è stata vinta.

 

Prendendo la propria croce… L’ultimo passo… anch’esso bisognoso di un chiarimento…

Cosa si è infatti pensato con questo “prendere la propria croce”? Che se sei cristiano (ma anche no, visto che – senza accorgercene – spesso suggeriamo questo atteggiamento anche agli altri…) devi accogliere il male che ti capita nella vita con seraficità: per esempio, se ti viene il tumore, cosa vuoi farci? È la tua croce… Portatela… E via di questo passo…

Attraversando i dolori e i patimenti umani, come elefanti in una cristalleria, noi che dovremmo essere gli esperti di umanità, ci ritroviamo a dire delle mostruosità tali, che se ce ne rendessimo conto ci chiuderemmo in cantina dalla vergogna, senza verso di farci uscire!

Prendere la propria croce è un’altra cosa… non è una disgrazia da accettare, ma è la consapevolezza che seguire il Signore, vuol dire seguire uno che è morto in croce, cioè uno che ha fatto (Lui per davvero!) dell’amore per l’altro uomo l’unico criterio delle sue scelte e questo l’ha portato a morire nudo sul patibolo! Nella sua storia si è visibilizzato che chi sceglie l’amore come criterio non può che finir male, perché l’amore è per definizione dis-armato, dunque feribile… E allora il Signore te lo dice all’inizio: “guarda che se mi segui finisci là”, per evitare che gli vai dietro così, mosso magari da un po’ di entusiasmo… e per farti capire che c’è in gioco qualcosa di serio… la vita.

Prendere la propria croce vuol dire allora decidere di seguire il Signore con la consapevolezza e la determinazione che questo ci porterà… alla croce (che quindi non è il tumore, ma tutte quelle conseguenze che il seguirlo comporta, in termini di conservazione, sopravvivenza, convenienza, ecc…). Perché Lui dice che questa è la Vita vera…

lunedì 3 settembre 2012

XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Dal libro del profeta Isaia (Is 35,4-7a)

Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d'acqua.

 

Dalla lettera di Giacomo (Gc 2,1-5)

Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d'oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?

 

Dal Vangelo di Marco (Mc 7,31-37)

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

«Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Il vangelo, che la Liturgia di questa Ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario ci propone, termina così, con questa grido di gioia che alcuni stranieri (siamo infatti «in pieno territorio della Decàpoli») innalzano dopo aver incontrato Gesù.

Chissà se sanno che stanno pronunciando il compimento delle profezie antiche? «“Ecco il vostro Dio”. […]. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto».

Certo la domanda è retorica, perché indubbiamente Marco – il redattore del vangelo – lo sa e non a caso mette proprio queste parole sulle labbra di questo ex sordo e “malparlante” e dei suoi amici.

Marco vuole proprio dire questo: con Gesù è arrivato Dio!

E Dio quando arriva, fa così: raddrizza le gambe storte, apre le orecchie sorde, schiude gli occhi ciechi, scioglie le parole ai muti…

Dio è questa cosa qua, inequivocabilmente, dopo Gesù.

E non importa nemmeno più – ora – se sono le gambe storte o gli occhi ciechi dei nostri o di quegl’altri: qualche versetto fa – infatti – (versetti che la liturgia omette) Gesù si è fatto convertire da una donna sirofenicia… la donna che ha fatto cambiare idea al figlio di Dio…

Perché lei voleva che lui le guarisse la figlioletta… ma lui era titubante, perché né lei, né – quindi – la bimba erano figlie di Israele, ma straniere, appunto… infedeli. E lui pensava di essere venuto soprattutto e certamente prima per il suo popolo. Ma le parole di lei riescono ad intercettarlo nel profondo e a con-vertirlo, cioè a fargli girare la mentalità: quest’infedele ha fede in lui e ha una bimba malata a casa. Ed ecco… la liberazione dal male avviene! Anche per loro! Dunque, d’ora in avanti, senza più dis-criminante.

Il nostro sordo e malparlante di oggi infatti è il primo beneficiario di questa conversione di Gesù alle parole della mamma sirofenicia: anche lui è straniero, ma stavolta Gesù non risponde a chi glielo porta «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini», ma lo prende subito… addirittura in disparte, cioè lo coinvolge in una dinamica a tu per tu, fatta di gestualità, intimità, simbologia, parole, che lo aprono, cioè lo dis-chiudono, lo liberano, lo slegano… come spesso è per chi ha il coraggio di relazionarsi a quelli con “il nodo alla gola” (per chissà quali infiniti motivi) con il linguaggio della prossimità, della tenerezza, del non-ribrezzo e dell’assenza di paura... un linguaggio che va certo accompagnato da una parola che lo spieghi e da una simbologia che lo renda inequivoco, ma che se perdesse la sua carica di “pelle a pelle” rimarrebbe anch’esso muto, irrecepibile, lontano.

Ma questa metodologia “pelle a pelle” di Gesù, che – tra l’altro – come è di tutte le metodologie è sempre insieme anche un modo d’essere “pelle a pelle”, a noi spaventa un po’… perché è troppo compromissoria… non a caso a furia di “pelle a pelle” con gli uomini, la sua pelle è rimasta appesa ad una croce… e perciò tendiamo sempre un po’ a sottrarcene, a stare lontani, a “fare il bene” da lontano…

Invece, forse, dovremmo avere di più il coraggio di una com-promissione con le povertà altrui (che sono talmente vaste e varie che non lasciano fuori proprio nessun uomo che è su questa terra) senza attivare quei meccanismi di censura e di presa di distanza che siamo così bravi a creare (le pacche sulle spalle alle persone che hanno appena perso qualcuno che amavano, i bonifici bancari per i bambini che muoiono di fame, le retoriche sulla carcerazione come mezzo di recupero, ecc… ecc… ecc…). Per arrivare – almeno un po’ – a far nostra la logica del Padre che – come ci ricorda Giacomo – «non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo?».

 
 
 

domenica 2 settembre 2012

L'ultima intervista

Il rito della lavanda dei piedi in Duomo

Padre Georg Sporschill, il confratello gesuita che lo intervistò in Conversazioni notturne a Gerusalemme, e Federica Radice hanno incontrato Martini l'8 agosto: «Una sorta di testamento spirituale. Il cardinale Martini ha letto e approvato il testo».

Come vede lei la situazione della Chiesa? «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione».

Chi può aiutare la Chiesa oggi? «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».

Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa? «Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»

Lei cosa fa personalmente? «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».

Georg Sporschill SJ, Federica Radice Fossati Confalonieri
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