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martedì 26 maggio 2015

La Trinità


Dal libro del Deuteronòmio (Dt 4,32-34.39-40)
Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,14-17)
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
 
Chiuso il Tempo di Pasqua con la celebrazione della Pentecoste, Lunedì è ricominciato il Tempo Ordinario, che avevamo già incontrato nelle Domeniche tra il Tempo di Natale e quello della Quaresima, e che ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, cioè fino a quando, con il prossimo Avvento, inizierà l’anno nuovo: abbiamo perciò davanti a noi circa sei mesi di Tempo Ordinario.
Ma chi si aspettava, già per questa prima Domenica dopo Pentecoste, una Liturgia della Parola “ordinaria” (e magari ne aveva anche un po’ nostalgia…), dovrà invece fare i conti col fatto che la Chiesa ponga proprio in questa Domenica (e anche nella prossima, quando celebreremo il Corpus Domini) una delle solennità più significative per la comprensione del mistero cristiano: la Trinità.
È di questo dunque che dobbiamo parlare oggi…
…anche se non nascondo una certa resistenza nel farlo, perché mi pare che la precomprensione un po’ semplicistica e materialistica che abbiamo di questi contenuti di fede, sia davvero troppo invincibile perché si riesca a fare un discorso capace di incidere sul nostro vissuto.
Cosa intendo dire?
Che la situazione di una persona di cultura cristiano-cattolica che sente parlare di “Trinità” potrebbe essere tratteggiata in questo modo:
1.      il rimando immediato e istintivo che ha, di fronte a questa parola, non è il vangelo, ma il Catechismo;
2.      la sensazione prima è quella di essere di fronte a qualcosa di “pericoloso”, su cui non si può scherzare, né fare domande: c’è di mezzo l’eresia e l’atavica paura cattolica di fronte ad essa (perché voleva dire morire… sul rogo!);
  1. il mistero della Trinità perciò non va indagato, ma “preso”, più o meno con le stesse modalità con cui si terrebbe in mano una scoria radioattiva;
 4.      e se mai salisse alla mente una domanda sul significato di questa parola “strana”, essa verrebbe immediatamente bypassata ricordando che il “mistero della Trinità” non per niente si chiama “mistero” e che se proprio si vuole dire cosa significa, basta guardare al dogma: “Un unico Dio in tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo”…
  1. e se ci sentiamo ancora quelli di prima… amen… vedi il punto 3.
 
Forse esagero un po’… ma la mia impressione è proprio questa… che tutti conosciamo questa parola, tutti sapremmo ripetere il dogma, tutti saremmo pronti a difenderlo con le unghie, ma poi…
… poi questa cosa non si declina in nessun modo nel nostro agire, pensare, parlare… cioè: non ha incidenza alcuna sul nostro vivere da uomini e da cristiani.
Forse allora è necessario provare a partire da un altro punto di vista, che è poi quello da cui è partita la Chiesa: e cioè che Gesù nella sua storia ha parlato (nel senso forte che si può dare a questo verbo) del Padre e dello Spirito, anzi, più radicalmente si è detto sempre in relazione al Padre e allo Spirito, quasi che la sua identità non fosse dicibile se non dentro a questa relazione. Gesù è cioè chi non può essere detto senza contemporaneamente dire Padre e Spirito.
Allora, è dentro a questa dinamica che siamo chiamati ad immergerci (battezzarci), abbandonando la visione “cosale” della Trinità (Dove stanno? Come fanno a essere uno e tre? Come devo rivolgermi loro? Sempre con in testa il Padre con la barba, Gesù lì con Lui nell’alto dei cieli e lo Spirito che non si capisce bene se è lì o qui o un po’ qui e un po’ lì…) per accedere ad una prospettiva relazionale, per la quale io – come uomo – non posso dirmi se non in relazione a Dio, che a sua volta non può che essere Padre (pensabile sempre e solo come in relazione al Figlio e allo Spirito), Figlio (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e allo Spirito) e Spirito (pensabile sempre e solo come in relazione al Padre e al Figlio).

lunedì 18 maggio 2015

Domenica di Pentecoste


Dagli Atti degli Apostoli (At 2,1-11)

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati (Gal 5,16-25)

Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,26-27; 16,12-15)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

 

Ed eccoci giunti all’ultima domenica del Tempo di Pasqua, con l’invito della Chiesa a soffermarci sul dono dello Spirito santo a Pentecoste. Come già dicevamo domenica scorsa per l’Ascensione, anche la scansione temporale dei 50 giorni dopo Pasqua (introdotta da Luca) ha una funzione pedagogica, non materialistica, tant’è vero che l’evangelista Giovanni colloca il dono dello Spirito addirittura sulla croce: «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). L’intenzione della dilatazione temporale di Risurrezione, Ascensione e Pentecoste, che la Chiesa ha fatto sua, è dunque quella di dare tempo e spazio per la riflessione su ciascuno di questi eventi, non quella di utilizzare lo schema temporale (domenica di Pasqua – 40 giorni – Ascensione – altri 10 giorni, quindi 50 dopo Pasqua – Pentecoste) come marchingegno logico per introdurre domande inappropriate; quali: ma in quei 10 giorni tra l’Ascensione e la Pentecoste il mondo è stato senza la presenza di Dio, dato che Gesù era asceso e lo Spirito non ancora donato?

Piuttosto, come dicevamo, i tre “momenti” (Risurrezione, Ascensione, Pentecoste) vanno presi insieme, come un unico evento, che potremmo ritradurre con queste parole più laiche: dopo la morte di Gesù, i suoi discepoli hanno fatto esperienza che non era finito tutto. E hanno provato a declinare questo “non tutto è finito” con dei racconti e delle immagini che evocassero la realtà che vivevano.

In particolare i racconti che riguardano l’esperienza della nuova presenza del Signore, nel suo Spirito, fanno riferimento al fuoco e al vento forte.

lunedì 11 maggio 2015

Ascensione


Dagli Atti degli Apostoli (At 1,1-11)
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 4,1-13)
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
 
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 16,15-20)
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
 
La festa dell’Ascensione ci riconsegna tra le mani il problema della vita della Chiesa dopo l’assenza “fisica” di Gesù risorto. Il problema è sostanzialmente il medesimo: gli apostoli hanno incontrato Gesù risorto, hanno parlato con lui, hanno mangiato con lui, ma oggi quest’esperienza non è più possibile, in quei termini: come dico ai miei bambini, “non è che dietro la pianta potete vedere Gesù risorto che vi fa cucù”.
Il racconto dell’ascensione nasce perciò proprio per rendere conto di questa impossibilità di incontrare oggi il Signore risorto in quella forma che ci è stata trasmessa dal racconto delle sue apparizioni.
Si aprono perciò alcuni interrogativi:
-          È possibile comunque incontrare ancora il Signore oggi, seppur in un’altra forma?
-          Quale deve essere la vita dei cristiani alla luce di questa apparente assenza?
 
Riguardo alla prima domanda, le testimonianze del Nuovo Testamento affermano con forza che l’ascensione non è un abbandono. Il Signore non ci consegna ad una orfanità storica: egli è ancora presente («il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano»), ma in una forma diversa. Questa forma verrà poi spiegata con il dono del suo Spirito a Pentecoste, ma, senza introdurci nel difficile districarsi tra persone della Trinità, l’elemento centrale cui rimandano i testi è la certezza dell’accompagnamento costante di Dio o meglio, del fatto che siamo come immersi in Lui. Spiegavo, sempre ai miei bambini a scuola: “quando eravate piccoli coloravate il cielo di azzurro solo in alto, come una strisciolina nella parte alta del foglio. Crescendo avete scoperto che il cielo, l’aria non è solo lassù, ma ci avvolge e ci circonda. Così è Dio: non è solo lassù, ma ci avvolge e ci circonda come l’aria”.
 

 
 
Questa è la nuova forma della sua presenza.
Alla luce di questo: quale deve essere allora la vita dei cristiani? Il vangelo di Marco è esplicito: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato (= immerso) sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Questi sono dunque i pilastri della vita dei cristiani:
-          L’annuncio (con la vita e non tanto con le parole) della buona notizia che Dio ci ama;
-          Il battesimo, cioè l’immersione di ogni uomo in questo amore;
-          Lo scacciare i demòni (non quelli fantasmici della televisione, ma quelle ferite che adombrano il cuore e bloccano il circuito dell’amore, della fantasia, della felicità);
-          Il parlare lingue nuove (non solo “lingue straniere”, ma la lingua, il linguaggio personale di ciascun uomo, per riuscire a intercettarlo e comunicare con lui nelle profondità del suo cuore);
-          Il prendere in mano i serpenti e non esserne avvelenati (cioè affrontare il male del mondo, senza rilanciarlo mai, senza farsene intaccare il cuore, ma tenendo limpido lo sguardo su cosa è “giustizia”);
-          Il guarire i malati (compito non solo dei medici, ma di chiunque si fa carico delle ferite dell’altro, nella carne e nello spirito).
 
Buona festa dell’ascensione a tutti.
 

lunedì 4 maggio 2015

VI Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 10,25-27.34-35.44-48)

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 4,7-10)

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,9-17)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

Il brano di vangelo di questa VI domenica di Pasqua è uno dei più intensi del Nuovo Testamento: condensa infatti tutta la teologia di Gesù.

Peraltro è molto chiaro, in quanto mantiene una consequenzialità davvero degna di un teologo!

Seguiamolo perciò con ordine:

1-      Al primo posto c’è la relazione originaria: quella di Dio Padre con Gesù. Essa è basata sull’amore: «Il Padre ha amato me»;

2-      Segue il nostro coinvolgimento: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». La seconda affermazione del brano indica il nostro innesto in questa dinamica di amore.

 

Potremmo perciò dire che il nucleo sorgivo della teologia di Gesù è questo circuito di amore tra il Padre e il Figlio in cui, gratuitamente, siamo inseriti anche noi. L’annuncio di Gesù, la sua buona notizia, il suo vangelo è perciò il seguente: il mondo, e ciascuno di noi, è avvolto e pensato dentro ad una logica di amore.

3-      Segue poi l’invito a rimanere in questo amore: «Rimanete nel mio amore».

 

A noi, sempre “colpevolmente” preoccupati di non essere graditi a Dio (“colpevolmente” perché dato l’originario annuncio non c’è spazio per la preoccupazione di un’eventuale ritorsione di Dio, che invece – come mostra bene il brano di Genesi 3, indicando in cosa consista il peccato – noi sempre reintroduciamo con la nostra diffidenza), di fronte a questa affermazione viene subito da chiederci: cosa vuole Dio da noi per rimanere in questo amore? Per non esserne scartati? Per non esserne esclusi?

Guardiamo cioè immediatamente a quel «Rimanete nel mio amore», come ad una limitazione del suo amore. Inizialmente ha affermato che era incondizionato e invece… eccola la condizione… E immediatamente scatta in noi l’ansia di dover assolvere a questa condizione; oppure la rabbia contro un Dio che si propone come incondizionatamente amoroso, ma che immediatamente dopo l’annuncio di questo amore incondizionato, eccolo lì a porre condizioni, a volere qualcosa da noi, come sospettavamo…

4-      Tutti questi nostri timori trovano addirittura apparente conferma quando Gesù aggiunge cosa è necessario fare per rimanere in questo amore: osservare i comandamenti, fare ciò che vi comando.

 

A noi infatti, le parole “comandamenti”/“comando” evocano tutta una serie di norme morali, iter spirituali, regole liturgiche che fanno ulteriormente accrescere l’ansia, data dalla consapevolezza che non riusciremo mai ad incastrare in essi la nostra vita e nemmeno il nostro modo di essere.

5-      Ma ecco la sorpresa che fa infrangere tutta questa perversa logica religiosa contro la benevola spiegazione di Gesù su cosa siano questi comandamenti, ciò che egli ci comanda (una spiegazione che Gesù accosta alle sue parole perché, probabilmente, conoscendo bene l’animo umano, sapeva che l’avremmo frainteso). Egli infatti immediatamente aggiunge: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Ribadendo poi in seguito: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Il rimanere nell’amore di Dio coincide dunque, non con una serie di norme, codici, regole, ecc., ma con il ricircolo di quel medesimo amore con cui noi per primi siamo stati amati. A ben guardare, quella che a noi poteva sembrare una condizione che restringeva il campo dei “salvati”, in realtà è un allargamento che non ha più confini, perché tutti coloro che vengono al mondo su questa terra sperimentano almeno un frammento di questo circuito di amore. Inoltre, quello che a noi aveva immediatamente suscitato l’ansia, perché, in quanto comandato, avevamo pensato fosse qualcosa che ci avrebbe limitato nella libertà, nell’espressività, nella fantasia, qualcosa che ci avrebbe impedito di gustare la pienezza della vita, in realtà si rivela qualcosa che potenzia la vita, che ci spinge verso il bello, verso il buono, verso il gustoso della vita: l’amore.

6-      Tant’è che Gesù lo dice: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». A noi sempre incartati nella logica per cui il male sarebbe più bello, ma ci rinuncio per evitare la punizione divina, Gesù viene incontro sorridente dicendo che non ci chiede di rinunciare al bello (al bello della vita) per guadagnarci il paradiso. Anzi, ci racconta di una bellezza prima inaudita e insperata: il bello della vita è sapersi amati dall’origine e per sempre e poter dunque vivere da amanti, non da paurosi, non da rattrappiti, non da mortificati. È lui che ci svela (ci pulisce gli occhi) e ci mostra i bello della vita: «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi», «perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga».

 

Ecco tutta la teologia di Gesù, su cui dovremmo riscrivere la nostra: una teologia che esplode di amore, di fecondità, di bellezza e non lascia spazio al tetro, al triste, al mortificante.

lunedì 27 aprile 2015

V Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 9,26-31)
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.
 
Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 3,18-24)
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 15,1-8)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
 
Il vangelo di questa V domenica di Pasqua è un vangelo assai noto. L’immagine della vite e dei tralci ci è infatti stata insegnata fin da bambini e diventa difficile commentarla: sia perché, appunto, è arciconosciuta, sia anche perché nella sua immediatezza è già chiara da sé.
Eppure… mi pare di intravvedere un rischio, che è quello di risultare più attenti alle sorti del tralcio che non porta frutto e viene tagliato e bruciato. Io non so perché ci capita (se è questione psicologica, se è perché nella nostra formazione hanno sottolineato la paura dell’inferno, o la minaccia come modalità per “farci fare il bene”, o altro), fatto sta che non appena leggiamo «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano» immediatamente un brivido di paura ci corre per la colonna vertebrale. Sarà la paura dell’inferno che ci hanno istillato secoli di certa predicazione? Forse… ma io credo che più radicalmente ci sia la paura (sottostante a quella dell’inferno) che il volto di Dio sia questo: buono con chi porta frutto, duro e punitivo con chi non lo porta. In discussione, dietro alle nostre paure, come mi capita di ripetere spesso, c’è il vero volto di Dio. È lui che ci fa paura, non l’inferno o cose simili. È lui che ci fa paura. E di cosa si ha paura? Di chi non si conosce o di chi ci può fare del male (tenendo conto che i mali più grossi non sono quelli di chi ci odia, ma di chi ci ama e ci tradisce o ci abbandona o ci ferisce).
Il punto è dunque questo: la nostra paura – che fra tutti i versetti del vangelo ci fa concentrare su quello del tralcio che si dissecca – viene dalla nostra poca conoscenza di Dio (e dunque dalla diffidenza nei suoi confronti) e dal timore che ci possa tradire, abbandonare, ferire (non amare più).
I due ordini di paura (poca conoscenza / effimero amore) sono correlati: conoscere la rivelazione di Dio, Gesù, vuol dire infatti incontrare il Dio affidabile nell’amore; ma noi ci spacchiamo sempre troppo poco la testa e il cuore sul suo vangelo e lo conosciamo sempre solo un po’ per sentito dire. È lì che si apre lo spazio per la diffidenza sulla sua affidabilità.
In realtà, se guardiamo anche al testo di oggi, il tralcio che non porta frutto non è il centro del discorso. Esso è segnalato solo per far emergere, per contrapposizione (come settimana scorsa il mercenario in confronto al pastore), la bellezza del rimanere in Gesù (termine che tornerà anche settimana prossima: «rimanete nel mio amore»).
Con questa immagine della vite e dei tralci Gesù vuole convincerci della bellezza del rimanere nel suo amore, della vitalità, dell’esplosione di colori che essa produce, come la nostra primavera ci sta mostrando.
Tutta la sua vita è stata spesa per questo convincimento, per renderci persuasi che solo l’amore ci fa fiorire, mentre la paura, la diffidenza, la chiusura disseccano la nostra vitalità.
Noi invece abbiamo costruito una religiosità in cui l’appartenenza è figlia della paura dell’eventuale ritorsione altrui. E così abbiamo costruito anche le nostre relazioni tra di noi. Per questo ci dissecchiamo.
La fede invece è proprio questo sbilanciamento dalla paura al credere, dalla diffidenza alla fiducia, dalla chiusura all’apertura, dal seccare al fiorire.
Certo, resta da chiedersi concretamente in cosa consista questo “rimanere”. Ma nel provare a tradurre in vita quotidiana questo stare attaccati alla vite non possiamo abbandonare questa prima conquista: che rimanere in lui sia per la vita. Altrimenti reintrodurremmo concretezze mortifere (sacrifici, rinunce, mortificazioni, ecc…). Ripensare la nostra vita di tralci con categorie figlie della paura vorrebbe dire ritornare all’errore originario.
Bisogna allora che inventiamo linguaggi nuovi, forme inedite, gesti inusuali per dire la vitalità di una vita che ha per linfa l’amore di Dio e degli uomini, senza farci immediatamente bloccare da certe impalcature morali che – nate per essere segni di vita e di amore – rischiano, se fatte girare a vuoto e omologate a qualsiasi situazione, di ottenere l’effetto opposto, cioè di essere tombe dell’amore e della vita.
È il percorso di una vita, ma va affrontato senza paura.

lunedì 20 aprile 2015

IV Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 4,8-12)

In quei giorni Pietro, colmato di Spirito Santo, disse: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In  nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 3,1-2)

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente. Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

 

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e dò la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo giudicare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io dò la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

In questa quarta domenica di Pasqua, la Chiesa continua ad invitarci a riflettere sul mistero della Risurrezione. A differenza delle domeniche precedenti però, la liturgia non presenta racconti di apparizioni del risorto, ma preferisce intercettare la stessa questione partendo da altri punti di vista. In particolare essi potrebbero essere riassunti in questi termini: innanzitutto – facendo riferimento alla prima e alla seconda lettura – Qual è il rapporto dei discepoli (e dunque anche nostro) con questo Cristo ormai risorto («nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato»)? Come cioè egli agisce ancora nella storia? In che senso il suo nome è l’unico, sotto il cielo, in cui è stabilito che siamo salvati? E cosa significa sul fronte umano questo essere salvati? Questo già essere figli di Dio? Questo essere associati alla sua risurrezione? In poche parole: Che ne sarà di noi? Cosa saremo? La risurrezione è qualcosa che riguarda solo lui o in qualche modo – e se sì in quale modo – coinvolge anche noi?

Sull’altro fronte invece, quello del vangelo, la questione suona piuttosto in questi termini: Qual è la vera identità di Gesù Cristo, il crocifisso risorto? Quali sono i termini corretti per comprendere la sua morte e risurrezione? E retrospettivamente la sua storia? Dunque per dire chi egli sia?

Evidentemente il perno delle questioni poste dalle letture nel loro insieme sta in questo secondo ordine di domande: la risposta ad esse infatti apre alla corretta lettura anche delle prime, dona loro la giusta prospettiva, le inserisce in un orizzonte univoco.

Come infatti Gesù risorto sia legato efficacemente alla storia che prosegue e a noi e cosa – in Lui – noi saremo, non sono domande disgiungibile da chi egli sia stato e dunque da quale sia la sua identità: il crocifisso infatti è il risorto; l’identità storica di Gesù coincide con la sua libertà di Figlio di Dio.

È come, cioè, se la Chiesa ci invitasse a lasciar trapelare dal cuore quelle domande che l’evento di risurrezione pian piano fa emergere, le stesse in qualche modo che hanno interrogato anche i discepoli della prima ora (Adesso che è risorto Gesù sarà ancora con noi? O la grazia della risurrezione lo allontanerà per sempre dalla nostra esperienza? Ora che ha vinto la morte si dimenticherà di noi – suoi discepoli che lo abbiamo tradito? Se ne andrà abbandonandoci al non senso della storia?), e a rintracciarne il corretto orizzonte di senso nella storia di Gesù.

E – come già accennato nella disamina dei testi – il problema vero diventa: Chi è veramente Gesù? È uno di cui ci si può fidare? O è uno che – vinta la morte – ci mollerà qui? È uno che “apposto lui apposto tutti” o uno che ha a cuore il destino degli uomini? Dei suoi? Anche se traditori?

mercoledì 15 aprile 2015

III Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 3,13-15.17-19)

In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 2,1-5)

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 24,35-48)

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

 

Ancora un testo che ci parla di un’apparizione del risorto.

Tornano i temi classici legati a questi discorsi: il saluto di Gesù «Pace a voi!»; la reazione di paura, stupore e non riconoscimento da parte dei suoi (che “serve” agli evangelisti per farci sapere che Gesù risorto non era semplicemente tornato in vita come Lazzaro, ma era entrato in una condizione nuova, che lo rendeva quasi irriconoscibile); il farsi riconoscere di Gesù attraverso i segni della passione e attraverso parole e gesti in continuità con quelli che aveva usato da vivo (continuità che gli evangelisti mostrano per farci capire che colui che i discepoli incontrano, seppur in una condizione nuova, è sempre lo stesso Gesù).

Proprio su questa continuità si concentra in particolare questo racconto di apparizione. Infatti l’evangelista Luca fa dire a Gesù: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».

È Gesù stesso, dunque, in questo brano a porre quasi un ponte tra ciò che diceva da vivo e ciò che gli è poi effettivamente capitato e che lo fa essere ora lì presente, risorto, davanti a loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

È su questa frase conclusiva che vorrei oggi soffermarmi un po’. Perché, mentre il v. 46 («Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno») non aggiunge nulla di nuovo al mistero della Pasqua, i versetti seguenti, se letti con attenzione, nascondono qualche sorpresa.

Innanzitutto il v. 47: «e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme». La sorpresa riguarda proprio il fatto che, mentre noi siamo abituati a dire che la vita di Gesù si conclude con la sua passione-morte-risurrezione, qui c’è qualcosa di più. Cioè fa parte dell’evento di rivelazione di Dio, in Gesù, non solo la parabola storica della vita di Gesù, ma anche l’annuncio che di essa viene fatto dai suoi.

Non a caso il v. 48 dice: «Di questo voi siete testimoni». Voi siete testimoni non solo del fatto che Gesù ha patito ed è risorto il terzo giorno, ma che nel suo nome ciò che va predicato a tutti i popoli è la conversione e il perdono dei peccati.

Gli apostoli sono “apostoli” (= inviati) per questo: sono “mandati” ad annunciare a tutto il mondo la vita, la morte, la risurrezione di Gesù e la conversione e il perdono dei peccati.

Attenzione: non ad annunciare la vita-morte-risurrezione di Gesù, poi a minacciare per la conversione, e infine – per i convertiti – tornare ad annunciare il perdono dei peccati.

Ma ad annunciare la vita-morte-risurrezione di Gesù, la conversione e il perdono dei peccati.

martedì 7 aprile 2015

II Domenica di Pasqua


Dagli Atti degli Apostoli (At 4,32-35)

La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

 

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 5,1-6)

Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20,19-31)

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Ci hanno insegnato a stigmatizzare Tommaso. Eppure è lui che nel vangelo di Giovanni ci rappresenta più di tutti: perché noi – come lui – non c’eravamo a vedere il risorto. Ma soprattutto perché – noi come lui – vorremmo poter vedere e toccare… per poi credere.

Non ci convince nemmeno l’espressione di Gesù «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto», tant’è che – a distanza di 2000 anni – riesce ancora a darci da pensare… e anche a darci un po’ fastidio. Perché in fondo, non siamo, a torto o a ragione, non siamo d’accordo con lui: qualcosa in noi si ribella.

La verità è che è difficile credere davvero (non solo a parole o attraverso slogan) nella risurrezione. Io credo che – se la Chiesa in questi 2000 anni ci avesse creduto un po’ di più – avrebbe costruito un mondo diverso. In realtà le nostre vite continuano a essere costruite in base al principio che poi si muore… e quindi… con tutto quello che viene di conseguenza.

Non abbiamo costruito un mondo in cui “poi si risorge, e quindi…”.

Non credo nemmeno che questa sia solo la situazione di noi poveri post-contemporanei, immersi in un mondo in cui la maggioranza delle persone è atea o agnostica. Credo che – anche nei secoli più “cattolici” della storia dell’umanità – sia sempre stata la certezza della morte e non la fede nella risurrezione a guidare le scelte della vita (personale e sociale).

Ha ragione p. Mario, quando in predica dice che abbiamo relegato Dio (Padre e Figlio) nell’aldilà, come si fa coi morti (non con i risorti, che sono dei viventi, stando al vangelo). Io penso che l’abbiamo fatto per comodità (perché il Dio di Gesù è un Dio scomodo, con il suo continuo invito all’amore disarmato) e anche perché siamo dei sani materialisti: abbiamo cioè fatto sostanzialmente questa equiparazione: Dio ha scelto di non agire nella storia (di consegnarla all’uomo) dunque Dio non c’è o è nell’aldilà, lontano: praticamente morto.

E così siamo rimasti con la storia tra le mani, un Dio considerato praticamente morto e di fronte solo la certezza della nostra fine (con una vaga e arcaica speranza – un po’ sciamanica – che quanto abbiamo sentito fin da piccoli sull’aldilà sia poi magari pure vero, chissà). Per questo abbiamo costruito una storia di morte.

Che la storia sia nelle nostre mani e che Dio non vi agisca in senso materiale è un dato inequivocabile; che di fronte a noi ci sia l’incontro con la morte è altrettanto ineluttabile. Nessuna di queste due cose è messa in dubbio dalla rivelazione del volto di Dio che Gesù ha attuato con la sua vita.

Ma di certo il terzo elemento (che Dio sia nell’aldilà, dunque praticamente morto) è esattamente quanto il lieto annuncio di Gesù smentisce: la sua risurrezione – culmine della parabola storica della sua esistenza – ci annuncia invece che Dio è presente e vivo e con noi fino alla fine del mondo, con la sua promessa che la morte non ha l’ultima parola neanche nelle nostre esistenze.

Provare a credere nella risurrezione vuol allora forse dire provare a credere nel Dio dei viventi, nel pensare a noi stessi come a “viventi” e non come a (prima o poi) “morenti”. Che tra l’altro è quello che facciamo – senza accorgercene – molto più spesso di quanto crediamo: ogni volta infatti che – anche senza consapevolezza – acconsentiamo alla vita (respirando, mangiando, ridendo, annusando, guardando, ecc…), di fatto facciamo un atto di fede in lei, nella vita e nel Dio della vita.
Raro caso in cui la carne è pronta, ma lo spirito è debole.

lunedì 30 marzo 2015

Pasqua


Dal Vangelo secondo Marco (Mc 16,1-7)

Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall'ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: "Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto"».

 

Quest’anno ho scelto di commentare il vangelo che si legge il sabato sera, durante la veglia di Pasqua. È tratto dal vangelo di Marco, ma prima di iniziare a dirne qualcosa, qualche precisazione.

Originariamente il vangelo di Marco finiva al v. 8 del cap. 16.

Durante la liturgia del sabato santo invece ci vengono fatti leggere i primi 7 vv. di questo capitolo: viene cioè omesso l’ottavo, che recita così: «Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite».

Questo – come detto – era l’ultimo versetto dell’intero vangelo di Marco, che dunque si concludeva con il mancato annuncio di risurrezione!

È evidente che l’annuncio poi c’è stato, altrimenti non ci sarebbe stato neppure il vangelo, ma Marco con questa finale, voleva ribadire un’ennesima volta l’incomprensione cui la vita di Gesù è stata radicalmente sottoposta. Per la Chiesa invece questa finale era troppo tranchant e perciò successivamente è stata aggiunta quella che viene chiamata la “finale canonica”, cioè i versetti 9-20.

La cosa più dura da mandar giù, ancora oggi, di fronte a quel v. 8, è che i sentimenti esplicitati sono lo spavento, lo stupore e la paura. «Nessun segno di gioia» – commenta don Bruno Maggioni nel suo il racconto di Marco. «Di fronte all’inaudito atto di Dio, da parte dell’uomo, anche da parte delle persone piene di venerazione, che amavano Gesù, che mostrano un certo coraggio, c’è soltanto incomprensione totale» [E. Schweizer, Il vangelo secondo Marco]. Questo v. 8 – sempre secondo Maggioni – «è la conclusione di un motivo che percorre tutto l’episodio e, più ampiamente, l’intero vangelo: Marco infatti non ha perso occasione, lungo il suo racconto, per ricordare l’incomprensione dei discepoli, il segreto messianico, il timore e la paura di fronte alle manifestazioni di Gesù. È la reazione normale dell’uomo non solo di fronte al Gesù terreno, ma anche ora di fronte al Gesù risorto, di fronte alla Parola annunciata dalla comunità. Si direbbe una incomprensione invincibile. Ma non è così: se non altro, di fronte al disorientamento delle donne, c’è la fiducia di Dio che affida ad esse – proprio ad esse – la sua promessa: “andate dunque, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea; là lo vedrete, come vi disse”. L’incomprensione dell’uomo non arresta il piano di Dio. […] La conclusione del v. 8 non è l’ultima parola: è semplicemente la reazione normale di fronte alla promessa di Dio. La promessa di Dio è l’ultima vera parola».

Il vangelo di Marco si conclude perciò così: con i sentimenti umani dello spavento, dello stupore e della paura e con la promessa di Dio.

Mi pare doveroso fermarsi almeno un attimo su questo punto, prima di andare troppo facilmente a consolarci nella gioia della Pasqua. Anche perché la situazione tratteggiata da Marco, mi pare renda bene lo stato “normale” delle nostre esistenze, molto più della gioia un po’ artificiale che le feste comandate ci inducono ad avere. Noi infatti – abitualmente – e soprattutto di fronte alla consapevolezza o all’esperienza della morte, siamo spaventati, stupiti (ma nel senso di “sconcertati”) e impauriti. Uno spavento, uno sconcerto e una paura che restano in sottofondo anche quando non pensiamo alla morte o quand’essa non ci tocca da vicino: sempre – seppur magari in maniera soffusa e addirittura inconsapevole – siamo un po’ spaventati, sconcertati e impauriti… dalla vita.

Non a caso molte delle nostre scelte (che a volte prendono le fattezze di un dibattersi come dei pesci fuor d’acqua, mentre a volte sono ingessate dentro ad una presunta od ostentata pacatezza e solidità) potrebbero essere lette come i continui tentativi di mettere a tacere quello spavento, quello sconcerto e quella paura, come continui tentativi di silenziarli, di sopirli o di far finta che non esistano, almeno per un po’. Tutto ciò che viviamo è segnato da questo buco nero che ci mangia la vita e cui noi, per placarne un po’ la voracità, siamo pronti a sacrificare qualsiasi cosa: quanto tempo usiamo per fare delle cose che ci facciano sentire vivi, cioè che ci allontanino la paura della morte; quanto relazioni consumiamo per lo stesso motivo?

L’annuncio di risurrezione risuonato duemila anni fa e poi continuamente proclamato per mare e per terra non ha interrotto questa condizione umana. Marco ne era ben consapevole, per questo non dice che le donne erano spaventate, sconcertate e impaurite sotto la croce, ma lo dice immediatamente dopo che hanno ricevuto l’annuncio di risurrezione. È un annuncio che non è magico: non cambia la storia nella modalità di un pulsante che, una volta schiacciato, innesta una situazione nuova. Niente di ciò che riguarda Dio è magico. Tutto è storico: anche l’annuncio di risurrezione, che non cambia la nostra interiorità come un pulsante, ma può iniziare ad interloquire con la nostra condizione di spaventati, sconcertati, impauriti per natura. Per arrivare, forse, a farci muovere qualche passetto verso la fiducia in quella promessa di Dio, che ha l’ultima parola.

lunedì 16 marzo 2015

V Domenica di Quaresima


Dal libro del profeta Geremia (Ger 31,31-34)

«Ecco verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro dicendo: “Conoscete il Signore”, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato».

 

Dalla lettera agli Ebrei (Eb 5,7-9)

Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 12,20-33)

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Il vangelo che la liturgia ci propone per questa quinta domenica di Quaresima è tratto dal capitolo 12 di Giovanni. Sebbene questo possa far pensare che si è ancora abbastanza all’inizio della vita pubblica di Gesù (i capitoli totali di Giovanni sono infatti 21), in realtà siamo ormai prossimi alla fine: con il capitolo 12 infatti si chiude la prima parte del vangelo di Giovanni e con il capitolo 13 iniziano i racconti degli ultimi giorni (la lavanda dei piedi).

Il nostro passo è dunque particolarmente significativo perché dopo la risurrezione di Lazzaro e l’ingresso trionfale a Gerusalemme, questo è l’ultimo discorso pubblico di Gesù. Esso è occasionato da un gruppo di Greci, probabilmente proseliti o simpatizzanti del giudaismo, che avvicinatisi a Filippo gli pongono una delle domande esistenzialmente più pregnanti di tutto il Vangelo: «Vogliamo vedere Gesù».

La questione è fondamentale perché essi in questo Gesù che vogliono vedere individuano qualcuno che potrebbe essere significativo in ordine alla risoluzione del problema dei problemi: il rapporto dell’uomo con Dio. Evidentemente la prospettiva in cui questi uomini guardavano a questa problematica non era quella di oggi (per esempio era pressoché data per scontata l’esistenza di Dio o degli dei), eppure anche le nostre corde interiori suonano di fronte a questo “voler vedere”.

Ciò che c’è in gioco infatti non è tanto o non è solo il corretto rapporto dell’uomo con Dio: cioè banalmente cosa l’uomo deve o non deve fare per stare in pace ora e nell’aldilà. Sebbene a volte anche il cristianesimo si sia appiattito su questa visione riduttiva, non si può negare che essa non sia in grado di rispondere all’anelito originario dell’uomo.

Il problema infatti è quello molto più radicale e determinante di quale sia l’origine (non in senso biologico, ma fondativo) della nostra vita, il suo senso, il suo compito e compimento, il suo fine da conciliare con la sua fine. La questione è cioè se ci sia o meno Qualcuno (e chi sia questo Qualcuno) che tiene in mano le fila disperse di quello che siamo (come singoli e come storia), se ci sia Qualcosa su cui vale la pena fondare una vita e anche perderla, se c’è Qualcuno insomma che non permetta che tutto questo sia un meschino gioco del caso che ci fa tornare e rimanere in polvere per l’eternità.

Per questo diventa così importante il vedere. Anche oggi spesso si sente dire: “Ah, se solo potessi vedere Dio”, o viceversa “Non credo in Dio perché non l’ho mai visto”… E quante volte anche a noi sale questo desiderio di una conferma, di una certezza, di una risposta…

lunedì 9 marzo 2015

IV Domenica di Quaresima


Dal secondo libro delle Cronache (2Cr 36,14-16.19-23)

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 2,4-10)

Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

 

Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,14-21)

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Quarta Domenica di Quaresima sono davvero impegnative, direi quasi scomode…

Risulta faticoso infatti trovare tra di esse un nesso e, anche scegliendo di concentrarsi solo sul vangelo, il compito non pare semplificato.

Questo perché i versetti di Giovanni, proposti dalla liturgia, sono solo una sezione del ben più lungo discorso tra Gesù e Nicodemo, che inizia addirittura 10 versetti prima, e presi così risultano un po’ estemporanei… inoltre il brano scelto consiste in una sorta di approfondimento teologico su quanto precede: una specie di commento a mo’ di monologo, in cui si concentra quasi una sintesi di tutto il messaggio di Gesù nel Quarto Vangelo. Un monologo – non a caso – dal finale aperto (Nicodemo non risponde nulla!)… Ma essendo un discorso che approfondisce quanto precede, per comprenderlo è inevitabile fare un passo indietro e capire cosa lo precede?

Vediamo innanzitutto ciò che l’evangelista ha finora raccontato.
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