Pagine

ATTENZIONE!


Ci è stato segnalato che alcuni link audio e/o video sono, come si dice in gergo, “morti”. Se insomma cliccate su un file e trovate che non sia più disponibile, vi preghiamo di segnalarcelo nei commenti al post interessato. Capite bene che ripassare tutto il blog per verificarlo, richiederebbe quel (troppo) tempo che non abbiamo… Se ci tenete quindi a riaverli: collaborate! Da parte nostra cercheremo di renderli di nuovo disponibili al più presto. Promesso! Grazie.

martedì 27 settembre 2011

XXVII Domenica del Tempo Ordinario: I vignaioli omicidi

Il vangelo che la Chiesa ci propone per questa ventisettesima domenica del tempo ordinario è la diretta continuazione del brano di settimana scorsa: durante il duro scontro con i principi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, Gesù aveva proposto la parabola dei due figli e ora racconta quella dei vignaioli omicidi (domenica prossima racconterà la terza e ultima della serie: quella del banchetto di nozze – Mt 22,1-14).

Non si tratta più delle miniparabole sul Regno («Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo», Mt 13,44), ma di elaborazioni più complesse, che non a caso hanno uditori diversi (gli anziani, i sacerdoti…), anch’essi più “complessi” rispetto alle folle di semplici che circondavano Gesù all’inizio del suo ministero…

E, esattamente come settimana scorsa, la parabola è costruita con un marchingegno tale da rigirarsi contro gli interlocutori, chiamati a prendere posizione: «“Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?” – chiede Gesù. Gli risposero: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: ‘La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri’? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”».

Gesù, cioè, ribalta addosso ad essi, il giudizio che loro stessi avevano espresso… sono loro i vignaioli malvagi a cui sarà tolto il regno di Dio!

Interessante, allora, diventa andare a cercare che cosa ha reso questi “vignaioli”, cioè questi sacerdoti e anziani di Israele, talmente deprecabili da ricevere un giudizio così duro!

Per farlo, è importante andare a guardare anche alla I lettura, tratta da Isaia, dov’anche si racconta di una vigna… che – seppur ben curata dal suo padrone, aveva dato uva selvatica…

Fuor di metafora in Isaia il rimprovero a Israele era quello espresso dal v. 7 del capitolo 5: «La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi».

Ciò che quindi ha suscitato la delusione del Signore rispetto alla casa di Israele è stato lo spargimento di sangue e le grida degli oppressi, dove si aspettava giustizia e rettitudine!

Io trovo che questo sia un primo elemento fondamentale delle letture di questa domenica: ciò che dal punto di vista di Dio fa da discrimine tra la bontà di una vigna e, invece, una delusione rispetto ad essa è la giustizia fra le creature! Non altro!


Mi piace – a proposito – citare qualche frase di una conferenza del professor Silvano Petrosino sul tema del Regno di Dio, svoltasi all’Eremo del Carmelo di Cassano Valcuvia: «La Scrittura mette sempre in rapporto la santità che è del creatore e la giustizia, che riguarda il rapporto tra le creature. La trascendenza della santità, si manifesterà come trascendenza, nell’immanenza della giustizia. La santità che appare come qualità del creatore, è la stessa che definisce la qualità di quel certo rapporto tra le creature che la Bibbia chiama giustizia. Non c’è biblicamente alcuna possibilità di rapporto diretto con il Creatore che non passi dalle creature. Il rapporto diretto con il Creatore la Bibbia lo definisce una tentazione. Scriveva infatti Beauchamp: “Nessuna affermazione dogmatica, fosse pure la divinità di Cristo o la risurrezione della carne, regge, se rimane fuori dall’esigenza di giustizia. Essa è intrinseca alla verità, piuttosto che derivare dalla verità. Creare a partire dal nulla è dare la giustizia a un nulla di giustizia”. E Levinas: “La giustizia resa all’altro mi dona di Dio una prossimità inoltrepassabile. La preghiera e la liturgia senza la giustizia non sono niente”. Sembra quasi che la Scrittura – riprendeva Petrosino dopo le citazioni – dica a chi vuol difendere la trascendenza di Dio: non ti preoccupare di difendere la trascendenza del Creatore, preoccupati piuttosto della creazione; prenditi cura della creatura e così renderai gloria al Creatore.

Guardate a Dio in modo da non distogliere lo sguardo dall’uomo».

Questo sembra invece la grande dimenticanza – anche nel vangelo – di coloro che “hanno in mano” la vigna del Signore; ecco perché quel duro atto di accusa: «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare».

In particolare nel vangelo, la parabola mostra come la mancanza di giustizia, sia da legare al fatto che i vignaioli si rifiutino di consegnare il raccolto al padrone, prima ammazzandone i servi, poi addirittura il figlio… Il loro scopo è quello di impossessarsi della vigna («quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità»), per diventarne, loro, i padroni, come mirabilmente descrive Dostoevskij ne “Il grande inquisitore”, riferendosi però alla chiesa: «Perché sei venuto a disturbarci? [dice il Grande Inquisitore a Gesù]. Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora nelle mani del papa, e Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del tempo. [...] Abbiamo corretto l’opera Tua e l’abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull’autorità».

Ecco ciò di cui Gesù accusa i capi religiosi di Israele e ciò da cui anche la Chiesa deve sempre guardarsi: sostituirsi al Signore come padroni della vigna (cfr. Mt 23)!

Il meccanismo denunciato da Gesù pare essere infatti proprio questo: coloro a cui è affidata la vigna (Israele, i capi religiosi, la Chiesa) rischiano di dimenticarsi che il loro compito è quello di lodare Dio facendo la giustizia. Cioè dimenticano che al Creatore si arriva prendendosi cura della creatura! Dimenticano che il loro compito di vignaioli era prendersi cura di ogni pezzettino di carne umana su questa terra… Essi – piuttosto – si sentono come investiti della difesa di Dio, dei diritti di Dio (credendo che questo coincida col loro compito di vignaioli!), fin anche contro Dio stesso (il padrone della vigna) e suo Figlio!

La parabola troverà tragicamente conferma, infatti, nella vita di Gesù!

È infatti in nome della difesa dei diritti di Dio che Gesù verrà ucciso…

È infatti in nome della difesa dei diritti di Dio che migliaia di uomini sono stati uccisi lungo la storia… o umiliati, estromessi, scacciati, abbandonati…

Ma proprio questi “scartati” – pare dire Gesù – sono il nuovo popolo di Dio che farà fruttificare la sua vigna, inaugurando un Regno di giustizia, al cui centro ci sia – come unica difesa di Dio – la difesa di ogni uomo.

Il secondo punto di riflessione allora – per noi – è proprio questo: il riconoscimento che «Lui è l’amore innocente rifiutato, ma d’ora in poi chiunque sarà scartato e gettato via dagli uomini (anche per un amore sbagliato) diventa con lui membro di diritto del Regno del Padre. Ma ancor più paradossalmente, gli stessi assassini, una volta “giustamente” buttati fuori anche loro e spossessati della vigna, diventeranno anche loro pietre scartate, pronte per scoprire ed accogliere (finalmente!) l’umile disarmata ma invincibile “potenza” dell’amore (Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!).

[…] Dunque rimane per noi l’annuncio che il metodo di Dio, quello usato con il Figlio suo, è sempre lo stesso. Usa le pietre scartate da noi (quelle respinte violentemente o subdolamente eliminate dalla nostra convivenza) per costruire anche oggi la sua chiesa e salvare l’umanità. La parabola rinnova per noi (come per gli uditori di Gesù) una specie di ultima ancora di salvezza. Mentre il nostro mondo occidentale implode su se stesso a livello tecnologico, economico e progettuale (cioè politico) ‑ la nostra chiesa è tentata da uno sterile ritorno al passato, e noi consumiamo le energie a difenderci e accusarci secondo la logica devastante delle istituzioni che decadono, rischiamo di perdere la sintonia profetica con il futuro che il vangelo ci insegna. Il futuro si costruisce sempre con le pietre scartate da noi! E il Padre… come ha fatto con il figlio suo, ancora va a raccogliere nei campi di profughi di ogni razza, nelle periferie delle metropoli, nelle schiere di esiliati o diffidati di ogni istituzione civile o ecclesiale, nelle fosse comuni dove sono sepolti i grandi misfatti della storia… i suoi poveri. Loro sono i nuovi fittavoli fidati, magari neanche consapevoli della storia di questa parabola… Ma nella loro carne si ripete il mistero di Cristo Gesù» [Giuliano].

giovedì 22 settembre 2011

XXVI Domenica del Tempo Ordinario: "Che ve ne pare?"

La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.

Per non rischiare di fare identificazioni campate per aria, fondamentale è riferirsi al contesto prossimo di questo brano: il capitolo 21 di Matteo in cui il nostro testo è collocato, inizia narrando l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme; dopo l’accoglienza osannante della folla, che lo dichiara profeta, Gesù si dirige subito verso il tempio dove scaccia tutti i venditori e i cambiavalute; qui ha un primo confronto duro con i sommi sacerdoti e gli scribi, che si sdegnano nel sentirlo chiamare figlio di Davide dai bambini; confronto che si riaccende la mattina seguente quando «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli dissero: “Con quale autorità fai questo?”»; domanda cui Gesù risponde a sua volta con un altro interrogativo, riguardante il Battista «Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?», interrogativo a cui i capi religiosi ebrei non rispondono per timore della folla; Gesù conclude allora dicendo: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo».

È chiaro che il tono è ormai quello del battibecco, di chi non spera più di usare le parole per farsi comprendere, ma semplicemente le affila per mettere in difficoltà l’altro. E infatti è proprio a questo punto che Gesù, rendendosi conto dell’andamento che ha preso il discorso, cambia registro e tenta di coinvolgere i suoi interlocutori (sommi sacerdoti, scribi e anziani del popolo) con una parabola (le parole «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli...» seguono infatti immediatamente le ultime citate: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo»).

L’intento di Gesù è infatti quello di portare i suoi interlocutori a sbilanciarsi in un parere, in modo da stanarli dai loro apparati concettuali preconfezionati e poter così far breccia nella loro logica di pensiero: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?».

Quando essi «risposero: “Il primo”», la trappola è ormai scattata e a Gesù il gioco riesce facile; ribalta infatti contro di essi il giudizio da loro stessi formulato: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto».

Incredibilmente, il primo figlio viene così a rappresentare i pubblicani e le prostitute, cioè il così vasto gruppo di uomini e donne per antonomasia lontani dalla religione, (e dunque – direbbero i sommi sacerdoti) da Dio (quelli cioè «che con la loro vita avevano detto tanti ‘no’ al Padre, ma che, di fatto, commossi dal messaggio di Giovanni Battista, avevano finito per accogliere la sua volontà» [Giuliano]); il secondo figlio invece, viene a rappresentare la minuta schiera di intransigenti uomini religiosi («coloro – cioè – che sono l’esempio dell’assenso religioso ufficiale a Dio e sono impegnati a lavorare (… insegnare e comandare) nella vigna del Signore, e che però di fatto dicono di no, quando Giovanni propone loro, a nome di Dio, la conversione dai loro privilegi fallaci alla vera umiltà del cuore» [Giuliano]).




Questa identificazione però, anche a questo punto (dopo cioè la fatica dell’analisi del contesto prossimo), risulta in prima battuta paradossale: delinquenti e prostitute passerebbero davanti, nel regno di Dio, ai pii e devoti uomini religiosi?

Bisogna che andiamo più a fondo, perché questa è una “materia che scotta”…

Cos’è infatti che fa dire a Gesù una frase tanto forte («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»)? Che cosa ha visto, nella sua vita di uomo, nei volti e nelle storie di questi personaggi che abitualmente i benpensanti condannano? E che cosa non ha trovato invece in quelli che rappresentavano, per la mentalità comune (di allora e di oggi), il mondo della sacralità, dell’osservanza, della inappuntabilità?

-          Stando alla narrazione dell’intero vangelo ha trovato in questi ultimi la durezza di cuore (di loro dice infatti: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20; oppure rivolgendosi direttamente ad essi: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato individui senza colpa», Mt 12,7; inoltre vengono tratteggiati come pedanti osservatori delle regole, ma dimentichi dell’uomo, tanto che visto Gesù guarire un uomo in giorno di sabato «usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo», Mt 12,14; o addirittura, vedendo Gesù risanare un indemoniato, «presero a dire: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni», Mt 12,24; sono sempre i farisei insieme agli scribi poi che «vennero da Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli rispose loro: […] avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9; di essi dice infine: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi», Mt 15,14; per non citare quanto aggiungerà poi nei capitoli successivi al nostro, cfr. il cap. 23);

-          mentre nei primi (“pubblicani e prostitute” e tutti i “senza dio” che queste categorie rappresentano) ha trovato invece sempre una disponibilità a farsi incontrare, quasi un anelito della loro interiorità che accoglie da lui una parola nuova (come sa Matteo stesso, chiamato ad essere discepolo, proprio mentre era al banco dei pubblicani: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”», Mt 9,9; o come ha appreso lo stesso Gesù, «che ha fatto anche lui il faticoso passaggio dal dire di no (un no durissimo: Mt 15,22ss) ad una di queste povere di Dio, per scoprire poi che la sua “presunzione razziale e religiosa”, ereditata dalla cultura corrente, lo chiudeva alla compassione… fino a concludere che la sirofenicia (impura e pagana) “lo precedeva” nella comprensione dei disegni del Padre: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. Una donna, di religione e razza sbagliata, un cane infedele per i giudei osservanti, gli insegna a dire di sì a un disegno più grande di lui… a riscoprire anche per sé il monito antico di Dio attraverso il profeta: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» [Giuliano]).

Sono proprio questi “senza dio” infatti che, forse perché privi di un apparato concettuale che gli fa da maschera, ma anzi denudati e svergognati davanti a tutti, hanno la possibilità/capacità di porsi di fronte a Gesù in trasparenza e verità, al di là delle condizioni che vivono.

«Eretici e scismatici o credenti di altre fedi e religioni, schiavi e servi della gleba, prostitute e peccatori pubblici, ‘perfidi’giudei, poveri e ignoranti, laici e laiche, operai, indios e neri, carcerati, omosessuali, aidetici, ubriachi, drogati, divorziati, sacerdoti sposati o infedeli, atei, ragazze madri… cioè tutti coloro che sono emarginati dal consesso religioso e civile, per la loro incapacità o rifiuto a portare sulle spalle pesi superiori alle loro forze o doveri che  sovrastano le loro risorse… morali o psicologiche. Tutti costoro, rispetto a noi che viviamo da buoni cristiani e cittadini per bene, tante volte, hanno affinato un intuito istintivo più attento a percepire il cammino della giustizia» [Giuliano] e dunque ad accogliere il Signore e il suo Regno di misericordia.

Ma questa parabola… oggi a chi si rivolge?

Come allora, a chi è tra «i più vicini a Dio, i più osservanti, i più capaci di dedizione alle forme esplicite di culto e di riti per onorare Dio» [Giuliano]

Il meccanismo è infatti il medesimo che si configurava anche nei vangeli di queste ultime domeniche (la parabola del servo spietato, la parabola dei lavoratori pagati tutti lo stesso salario…), dove il punto di vista era sempre quello di chi si credeva giusto… che è un meccanismo molto presente nel vangelo, basti pensare alla parabola del figliol prodigo, dove – certo – c’è un grande lieto annuncio per chi è tra le fila dei “senza dio” (chi si identifica col figliol prodigo appunto), ma dove al centro resta la figura dell’altro fratello, quello che si ritiene giusto e del quale non si sa, alla fine, se decide di rientrare in casa e unirsi alla festa per il fratello ritrovato o di starsene fuori chiuso nella sua durezza. La parabola ha infatti una “finale aperta”, cioè è il lettore nella sua vita a decidere come va a finire quella storia… L’interlocutore è dunque qualcuno che si può identificare con questo fratello… quello che si sente giusto, appunto…

Siamo allora, di fronte, nuovamente (il vangelo sembra sempre portarci lì) a questo nodo: Come guardiamo a questo mondo e a chi lo abita? Con gli occhi di chi si sente giusto, arrivato, dalla parte giusta, dalla parte dei giusti, con l’inevitabile durezza di cuore che questo punto di vista implica? Oppure stiamo pian piano macerando il nostro perbenismo nel tentativo di avere in noi «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» che ha guardato ciascuno sentendolo suo?

Forse anche a noi  ‑ cosiddetti credenti impegnati e osservanti ‑ «tocca imparare, secondo il detto di Gesù, da chi, del tutto inconsapevolmente, ci sta “avanti” nel cammino del Regno dei cieli… Affiancarci a chi attorno a noi, appartiene ai nuovi elenchi di quelli che nell’opinione civile ed ecclesiastica corrente sono, con la loro vita, dalla parte sbagliata. Capita infatti che costoro “ci precedono”, perché sono più disponibili al vangelo, di noi che, analogamente agli antichi Ebrei, abbiamo l’appartenenza ecclesiale, i sacramenti, il culto, le devozioni e la giusta formazione morale…», [Giuliano] ma il cuore duro!

domenica 11 settembre 2011

Il perdono possibile


Perdonare settanta volte sette, è la risposta di Dio antitetica ed esponenziale (sette di Caino e settanta di Lamech moltiplicate tra loro!) alla voglia di vendetta dell’uomo.
Ma come è possibile perdonare “oltre” il “sempre” (sette!)?
Occorre forse dapprima studiare le dinamiche del nostro odio…
Aveva ragione quel professore di esegesi nel dire che la bibbia, se la si vuole veramente comprendere, “va guardata”. Solo guardando con gli occhi il testo si possono scoprire cose che nell’ascolto facilmente sfuggirebbero.
Come quel vuoto, incredibile, assurdo tra la fine del versetto 27 (gli condonò il debito) e l’inizio del 28 (Appena uscito). Un capitolo che non c’è e che invece avrebbe dovuto esserci… Uno spazio, un vuoto immenso che dice tutta la differenza, ad esempio, tra la parabola del figliol prodigo e questa. Tra la gioiosa baraonda di una festa in un abbraccio ritrovato e l’assordante silenzio di un cambio di scena vissuto come una fuga da uno scampato pericolo. Neanche un “grazie!” neanche una stretta di mano… l’importante era “farla franca”.

Però c’erano le premesse che qualcosa in quel dialogo non andava, anzi che dialogo proprio non era. Gesù mentre racconta sottolinea come “costui non era in grado di restituire” il debito iperbolico, eppure si ostina a chiedere (letteralmente) “magnanimità” (macrothimia) con lui (sic! Come dire “non fare come con gli altri”?) “…e ti restituirò ogni cosa”!

Mente sapendo di mentire! Forse mentiva anche a se stesso: l’orgia del denaro si sa, è per sua natura alienante, perché rende ubriachi nella menzogna di un mondo che non c’è. Comunque sia, non gliene fregava niente di riconciliarsi, a lui bastava salvarsi. Certo non si aspettava che gli rimettesse il debito, gli bastava che fosse dilazionato. Fino alla prossima volta, poi si vedrà, qualcosa si escogiterà… Così esce dall’incontro convinto d’aver fregato il creditore! “Che fesso!” si sarà detto… Il suo cinismo (microthimia?) è già tutto qui. Con un rancore in più verso quella “carogna di re” (si rodeva dentro) che – dal suo punto di vista – l’aveva costretto a umiliarsi… gettarsi per terra, supplicare, come fosse un pezzente…
Al che mi veniva da pensare alla povera moglie e ai poveri figli… Chissà che inferno di vita con un uomo così. Forse avrebbero preferito essere schiavi di un re magnanimo piuttosto che familiari di uno del genere…
Quello che segue è semplice conseguenza di quanto descritto: Inevitabile che sul primo che trova sulla soglia (letteralmente: uscendo) scarica tutto il suo rancore.

Non potrebbe esserci ricostruzione più plastica del vero problema che ci assilla: Noi non crediamo veramente di essere stati perdonati! In fondo siamo vittime dell’idea di Dio che ci siamo fatti! Con quel che ne consegue. Così gli attribuiamo una giustizia che è semplicemente la proiezione della nostra idea di giustizia. L’inferno forse è proprio questo.

Come uscirne?
Se ricordo bene, è il Concilio di Trento che afferma che nessuno, senza una grazia speciale, può essere certo di essere salvato! Certo se uno pensa che la salvezza non sia “una grazie speciale”… Ma dico io, come si fa a vivere con la paura di non essere perdonati! Solo quelli di radioMaria possono predicarlo, consegnando se stessi e chi li alscolta, alla dannazione di quella paura da cui non credono di essere stati liberati… Ma non sono i soli, e non vengono dal nulla! C’è una malsana tradizione in proposito… E alcuni vi hanno fondato pure la propria spiritualità!
Sono secoli che la chiesa orientale e occidentale considera preziosa – e la propone pure come modello! – la cosiddetta “preghiera di Gesù” detta anche “preghiera del cuore” o “preghiera esicasta”, in cui si ottiene la quiete (esychia) interiore ripetendo continuamente le parole “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”… che è come dire ripetere all’infinito il gesto di questo servo cinico… Avete contato quante volte domandiamo “pietà” al Signore durante la messa? Ma non è “eucaristia”? cioè ringraziamento? E quando lo manifestiamo? Persino la comunione la facciamo come se stessimo ingoiando un tizzone ardente! Eppure è un “ringraziamento di una salvezza che si compie”. È – dovrebbe essere – il capitolo che manca alla parabola… della nostra vita.

Che ci sia gente che è diventata e diventa santa con questa pseudo-spiritualità, lo si deve all’infinita magnanimità di Dio, non certo alla preghiera o al “metodo” usato. Avrebbero potuto diventarlo con qualunque altro mantra! Ma ve la immaginate una persona che passa tutto il tempo a chiedervi scusa per quello che ha fatto o peggio sta facendo? O ci crede al perdono o smetta di fare quello che sta facendo, altrimenti vada al diavolo! Tediamo pure Dio, citando – come fa satana nel deserto – la sua stessa Parola!

Molto più fine la polacca suor Faustina che dice che la più grande offesa fatta al Signore è dubitare della sua misericordia, cioè del suo costante perdono! E allora uno non passa il tempo a chiedere perdono a Dio e al fratello, ma cerca di vivere con Dio e il fratello del perdono avvenuto! Cioè passa dal perdono alla riconciliazione! Dal “lutto” alla “festa”! Dalla morte alla vita, come dice appunto il padre della parabola al figlio maggiore che non vuol festeggiare (evidentemente ascoltava radioMaria)… E questo non può non generare “rapporti nuovi”: come constatano, con tristezza, gli altri servi… La giustizia nasce sempre dalla pienezza di un perdono sperimentato, accolto, creduto, testimoniato…

E così arriviamo al cuore stesso dell’avvenimento cristiano: il cristiano è colui che si sa salvato, non ha bisogno di rivelazioni particolari per saperlo, perché si sa perdonato! Questa è la condizione “normale” del cristiano! E vive di questo e in questo perdono! Questo è il cuore della fede! Cioè di ogni avvenimento della vita che prende origine dal perdono pasquale di Cristo! Questo è quello che ci ricordano e comunicano tutti i sacramenti (memoriali). E ci ricordano continuamente gli apostoli. Per questo apparteniamo – persino nella morte – alla gioia (Paolo, nella seconda lettura) e non alla paura. Questa appartiene al passato, al futuro del presente appartiene la consapevolezza della vittoria donata. Come sa ogni buon sportivo e tifoso! Ecco perché il perdono ricevuto non può non manifestarsi nella gioiosa responsabilità di manifestare l’avvenuta riconciliazione: è il perdono da noi offerto sempre e a tutti che ci fa sacramento vivente di questo perdono ricevuto: c’è forse altro da testimoniare? Altrimenti ha ragione l’apostolo Giacomo… sono solo parole e la rimessa del debito, non può che trasformarsi in strumento ulteriore di oppressione (Lo prese per il collo e lo soffocava).

Il fallimento delle nostre confessioni, in fondo sta tutto qui: andiamo per scaricare il nostro senso di colpa, consolandoci delle parole e dei gesti benedicenti del sacerdote (a questo livello inutili), non per riconciliarci con Dio e con i fratelli, unico modo per eliminare il peso che ci opprime. Abbiamo trasformato il sacramento della penitenza come il luogo luttuoso dove Dio ci perdona e non come il “luogo di festa” in cui noi prendiamo coscienza del suo perdono che ci precede. Il sacramento della penitenza non è il luogo dove noi “ci gettiamo a terra” supplicando una dilazione dalla meritata punizione (sperando di scamparla poi al momento della morte e del giudizio finale!), ma il luogo nuziale dove noi, riconosciutici perdonati prima ancora di pentircene, vogliamo ristabilire un rapporto nuovo con la vita e il suo autore. Solo incamminandoci in questa via, possiamo uscirne veramente rinnovati nel cuore: magnanimi e non meschini.

E scopriremmo infine che se c’è una “verità” nella vendetta (costringere l’altro a cambiare, riparare il torto subito, togliere il male che ci opprime, ridare vita a una morte subita, “fargliela pagare”…) solo la forza del perdono così vissuto è in grado di ottenerla. Ma questa è l’affascinante scoperta di ogni drammatico giorno…

giovedì 8 settembre 2011

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il perdono

Come preannunciato domenica scorsa, in questa ventiquattresima settimana del Tempo Ordinario, la Chiesa ci propone la seconda parte della seconda parte (scusate il gioco di parole) del Discorso ecclesiale di Matteo, quello coincidente cioè col capitolo 18 del suo vangelo.

L’argomento centrale, come si evince immediatamente dalla domanda di Pietro del versetto 21 («Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?»), è quello del perdono… affrontato quasi per intero attraverso la parabola del cosiddetto “servo spietato”…

Dico «cosiddetto servo spietato», perché in realtà a me è sempre stato super simpatico… forse perché mi assomiglia un po’ (come potrebbero testimoniare quelli che vivono con me, descrivendo quasi plasticamente le durezze del mio cuore)… perciò definire lui spietato per me è come tirarmi la zappa sui piedi… ecco perché preferisco definirlo il “cosiddetto servo spietato”…

Perché mi sta simpatico? Beh innanzitutto per il motivo per cui dovrebbe star simpatico a tutti… cioè il fatto che – come direbbero a Bergamo – l’è ‘n pör marter (= è un povero martire). Anzi, la parabola stessa, nella sua prima parte, è costruita perché il lettore si schieri dalla parte di questo servo: «Fu presentato al re un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”». Insomma, una situazione così disastrosa, che chiunque si muove a pietà… Certo ha dei debiti, ma, se è addirittura nella situazione che gli portan via moglie e figli, non può non suscitare compassione! E difatti anche il suo creditore, cede: «Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito».

A me – però – continua a star simpatico anche dopo… quando invece tutti lo dileggiano e anzi va a finir male, quando cioè incontra un altro servo, che gli doveva dei soldi, e non vuole aver compassione di lui… e addirittura lo fa mettere in galera…

A me continua a star simpatico perché ho sempre pensato: “Ma hai presente che spavento questo s’è appena preso!?!? Per forza poi cerca di racimolare tutti gli spiccioli che ha in giro come creditore e di non risultare più insolvente! Perché – ok che stavolta gli è andata bene con questo padrone – ma queste son fortune che non si ripetono…”.

Ed ecco la questione: troppo facilmente, invece, a questo punto della parabola la nostra simpatia per questo servo slitta sull’altro e si trasforma in antipatia… troppo facilmente diamo ragione al padrone – che cambia idea! – e difendiamo le sue scelte (probabilmente perché troppo facilmente lo identifichiamo con Dio e dunque ci sentiamo di ergerci a suoi baluardi…).

Perché mi veniva da chiedermi: se Gesù ha appena risposto a Pietro che non bisogna perdonare 7 volte, ma 70 volte 7 (cioè sempre, non 490, che seppur è un numero alto, si esaurirebbe in meno di un anno… dovendoci perdonare l’un l’altro di esistere almeno una volta al giorno, tanto siamo gli uni un problema per gli altri…), com’è possibile che adesso presenti il volto di un Dio che ti perdona una volta e poi – perché tu non fai come Lui – ci ripensa e ti punisce così terribilmente («Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto»)!?!

Forse c’è qualcosa di questa parabola che ci sta sfuggendo…


Riprendiamola perciò con ordine.

La prima scena – dicevamo – presenta il nostro pör marter che ci suscita simpatia: si tratta di un servo, con un debito grossissimo. Credo che provare a quantificarlo, possa aiutarci in maniera significativa per capire quanto invece finora c’è sfuggito… Il suo debito ammonta infatti a diecimila talenti… è «una somma straordinaria, impensabile; diecimila talenti: noi sappiamo che il reddito annuale del re Erode era di novecento talenti; un denaro d’argento era il compenso di una giornata di lavoro; dunque: un talento = diecimila giornate di lavoro; diecimila talenti = cento milioni di monete d’argento: somme fantastiche e leggendarie, soprattutto se si calcola che a quel tempo circolava molto meno denaro; è una cifra inimmaginabile in quel tempo» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 142]. Facendo un paragone coi nostri giorni sarebbe come 5 miliardi di euro…

Quell’altro servo invece gli deve l’equivalente di 5000 euro… Queste sono le proporzioni…

Ora, l’intrigo della parabola non è quello per cui noi siamo giudici esterni alla scena… né è quello per cui la nostra identificazione dev’essere fatta col secondo servo o col padrone… La simpatia iniziale per il primo servo è il segnale che quello lì siamo noi! La finzione della parabola ci porta lì: ecco perché la simpatia (cioè patire con lui / avere il suo punto di vista) non deve cambiare a metà della storia… Il punto è che noi siamo quel primo servo!

Ora conosciamo anche le proporzioni dei debiti… Noi siamo quelli che devono 5 miliardi di euro! Allora non dobbiamo fare l’errore di slittare subito sull’insegnamento morale (Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo comportarci? Perdonare), ma fermarci un attimo sul punto zero: questa parabola rivela la nostra identità. Io sono quello che ha un debito grandissimo…

Se ci pensiamo… è vero… Se ci pensiamo soprattutto in relazione alla posizione che Dio in Gesù ha assunto nei nostri confronti: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

La posizione di Dio in Gesù nei nostri confronti è esattamente questa: Egli è Colui che ha dato la sua vita per noi, prima, anzi al di là di ogni nostro merito, anzi nonostante non lo meritassimo per niente, né mai saremmo in grado di meritarlo… Non a caso ciò che anche liturgicamente è diventato normativo («Fate questo in memoria di me») è esattamente la ripresentazione della donazione per noi della sua vita («Questo è il mio corpo / sangue offerti in sacrificio[1] per voi»).

Allora, forse, il nucleo centrale della parabola più che morale è teologico e – dunque – antropologico; cioè, più che tentare di rispondere alla domanda sul “dà farsi”, risponde a quella su “chi è Dio” e – dunque – “chi è l’uomo”…

Ecco perché l’identificazione tra Dio e il padrone va bene fino ad un certo punto… perché quando del padrone sentiamo dire «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto», dovrebbero scattarci gli “anticorpi” e riconoscere quest’affermazione estranea al volto di Dio che Gesù ci ha rivelato. Quasi come un tranello dell’evangelista… La verifica finale per vedere se hai capito la parabola o no… Se non l’hai capita, vai avanti fino alla fine con l’identificazione padrone-Dio, se l’hai capita ti stoppi…

Ti stoppi e ti fermi sull’identità dell’uomo che esce da quel volto di Dio, che è quello che – a prescindere – ha deciso di dare la vita per te, di condonarti un debito spropositato, impensabile, inaccumulabile in una vita, fossi anche il più perfido dei perfidi…

Ecco, è a partire dal riconoscersi uomini così che si può procedere… Infatti «il perdono fraterno è [non causa del perdono divino, ma] piuttosto conseguenza del perdono di Dio, ne è risposta. […] Il contrasto fra i due quadri della parabola, infatti, non ha come scopo principale quello di far vedere la diversità del comportamento divino nei confronti di un uomo che sa perdonare e nei confronti di un uomo incapace di perdonare» [B.Maggioni, Il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 237], ma è quello di mostrare la giusta collocazione di ciascun uomo di fronte a Dio: ognuno di noi è l’immeritatamente perdonato.

Questa “ricollocazione” – ed ecco la seconda parte della parabola – dovrebbe aprire anche a nuove relazioni fra gli uomini, fra “immeritatamente perdonati”…

Ma – appunto – o si è guadagnato il “punto zero” della ricollocazione di ciascuno di fronte al Signore, o ogni discorso sui rapporti coi fratelli risulterà infondato, opprimente, moralistico, incatenante, ingiusto.

Si parla infatti un po’ troppo superficialmente e con inescusabile nonchalance di “perdono” (come nei casi estremi di quando gli intervistatori dei TG vanno a chiedere alla mamma o al papà di qualche ragazzo/a appena morta se perdonano gli assassini… o come nei casi – meno estremi, ma non meno drammatici – in cui senza fare i conti con la storicità della nostra carne, dei nostri sentimenti, dei nostri passettini interiori, ci imponiamo di perdonare / amare qualcuno)…

Il perdono è invece una cosa seria, che ha a che vedere con il dolore, con la sofferenza, con le ferite nella carne dello spirito… Implica una rielaborazione viscerale, cioè letteralmente un riordinamento / ricollocazione delle viscere…

Di tutto questo la parabola non parla: in proposito è molto più esplicito il dramma di Gesù durante la sua passione, quando il suo dubbio è esattamente questo: “Ma io devo morire / dare la vita per questi qui che non hanno capito un tubo? Che mi amano così poco da avermi lasciato qui solo?” (che è la domanda della vita di ciascuno: “Ma io devo dare la vita per questi qui?!?!??”). La risposta definitiva di Dio in Gesù è stata “Sì”. E a sottolineare quanto forte sia il legame tra questa risposta (l’amore come risposta al non amore) e il perdono come determinazione definitiva di Dio, c’è la celebre frase che Luca mette in bocca a Gesù morente: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

«La parabola spiega invece il perché anche al cristiano sia ormai possibile perdonare» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, 142].



[1] Cfr. il senso che dà a questa parola F. Hadjdj in Farcela con la morte, Cittadella Editrice, Assisi 2009.

mercoledì 31 agosto 2011

XXIII Domenica del Tempo Ordinario: La correzione fraterna

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario, sono tutte incentrate su un unico tema: quello dell’amore fraterno, che si esplicita in un’istanza molto chiara: «ciascuno si deve far carico del proprio fratello perché ognuno è la sentinella che deve avvertire il fratello per il pericolo imminente» [P.Pezzoli, La casa sulla roccia: il vangelo secondo Matteo, in G.Facchinetti-P.Pezzoli-P.Rota Scalabrini, Scuola della Parola, LIG, Bergamo 1999, 138].
Abbiamo dunque a che fare con testi il cui oggetto precipuo è la cosiddetta “correzione fraterna”… Non a caso la Liturgia della Parola propone come brano evangelico un testo tratto dal capitolo 18 di Matteo, quel capitolo cioè nel quale è inserito il “Discorso ecclesiale”.
Come abbiamo avuto già modo di dire, infatti, il vangelo di Matteo «obbedisce a due strutture. La prima, più evidente e più tipica, consiste nella successione di grandi discorsi, attorno ai quali si organizza il materiale narrativo. Il c. 18 è il quarto discorso: dopo il discorso programmatico della montagna, il discorso missionario e il discorso in parabole, ecco un discorso ecclesiale, che si occupa di alcuni problemi interni alla comunità.
Ma dietro il succedersi dei discorsi si intravede la struttura del vangelo di Marco, che racconta la vicenda di Gesù iniziando dal battesimo, continua col ministero in Galilea e poi in Giudea e si orienta sempre più chiaramente verso la passione. Secondo questa struttura il discorso del c. 18 si trova nel contesto degli annunci della passione (cf. 16,21; 17,22-23; 20,17-19). La collocazione è significativa. Il nostro discorso offre delle norme di vita comunitaria da leggere nella prospettiva della sequela, intesa come un cammino verso la croce. Possiamo dire che almeno in parte, il c. 18 intende rispondere alla domanda: come deve costruirsi una comunità che intende porsi alla sequela del Crocifisso?
[…] Il discorso si divide in due parti [Mt 18,1-14 e Mt 18,15-35: la Liturgia domenicale della Parola ci propone la II parte, spezzata a sua volta in due domeniche successive: XXIII domenica del TO, Mt 18,15-20; XXIV domenica del TO – domenica prossima –, Mt 18,21-35]. Ciascuna parte si sviluppa attorno a un interrogativo: “Chi è il più grande nel regno dei cieli?” (18,1); “Quante volte devo perdonare al mio fratello che pecca contro di me?” (18,21). Ciascuna parte termina con una parabola: la parabola della pecorella smarrita (vv. 12-14) e la parabola del servo perdonato ma incapace di perdonare (vv. 23-35). Ciascuna parte è costruita attorno a una parola chiave, continuamente ricorrente: la parola “piccolo” la prima, la parola “fratello” la seconda» [B.Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 226-227].
Come detto la Liturgia domenicale della Parola tralascia tutta la prima parte del discorso ecclesiale, la cui tematica principale è quella dei piccoli / dei bambini (cui ho fatto comunque cenno perché mi pare importante leggere nella sua interezza questo capitolo 18) e si concentra – in due domeniche successive – sulla seconda, quella del perdono o della correzione fraterna.
Tutta questa lunga premessa, che magari a qualcuno è risultata un po’ troppo scolastica e noiosa, mi è sembrata invece necessaria perché ci permette di rilevare da subito un elemento molto interessante: quando nel vangelo si parla esplicitamente di chiesa (“Discorso ecclesiale”, appunto), gli assi semantici, attorno ai quali tutto ruota, sono il termine piccoli con la tematica della loro custodia e il termine fratelli come chiave di lettura delle relazioni intra-comunitarie.
È come se parlando di Chiesa, il vangelo mettesse lì due grandi binari orientativi:
-          Tra voi i piccoli siano custoditi!
-          Tra di voi siate fratelli!
È all’interno di queste macro linee guida, che poi le indicazioni si fanno più puntuali…

Sarebbe interessante soffermarsi su questi due pilastri, verificando magari la vita delle nostre comunità ecclesiali a partire da essi, ma ci porterebbe troppo lontano e, forse, ci lascerebbe anche un po’ troppo l’amaro in bocca (che non va bene all’inizio di un nuovo anno sociale), perciò torniamo ai nostri 6 versetti odierni e alla tematica più circoscritta della correzione fraterna.
Essa è descritta come un percorso a tappe:
1-   «se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»;
2-   «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»;
3-   «se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»;
4-   «se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».
La correzione fraterna descritta in questo brano di vangelo riecheggia una prassi ecclesiale presente nella comunità di Matteo… e ciascuno di questi elementi andrebbe spiegato bene, in particolare l’ultimo, quello che noi chiamiamo “s-comunica”… perché forse è quello più frainteso…
Ma mi pare che un criterio ancora più fondamentale per collocare nella giusta prospettiva queste tre tappe, sia quello di risalire al contesto cui pensavano Gesù / Matteo quando dicevano / scrivevano queste parole e vedere in che modo oggi anche per noi esse possano essere vitali.
In questa prospettiva il dato essenziale da mettere in evidenza è il fatto che – quando scrive – Matteo pensa alla sua comunità, che era una comunità piccola!
Anche se quest’osservazione può apparire una banalità e uno può ritrovarsi a dire “Beh, e allora?”, in realtà io credo si tratti di un elemento che scaravolta tutto il senso di questo brano… quello almeno che noi siamo soliti attribuirgli, che è più o meno questo: siccome per una volta su un argomento specifico nel vangelo non ci sono indicazioni generiche, ma una specie di “ricetta”, seguiamola! Con tutti i peccatori nella Chiesa, seguiamo questo iter!
Invece no! Perché l’atteggiamento suggerito da Gesù per affrontare il problema del peccato e dei peccatori, implica il riferimento (vincolante) a comunità numericamente limitate, dove il clima è quello familiare… comunità quindi molto diverse da quelle parrocchiali cui noi siamo abituati a pensare, che spesso contano migliaia di abitanti, centinaia di fedeli che non si conoscono nemmeno tutti per nome…
In una situazione di questo tipo è impensabile applicare il “metodo” proposto in Mt 18 in maniera pedissequa, come se si trattasse – appunto – di una “ricetta magica”…
È infatti solo all’interno di relazioni nelle quali ci si riconosce effettivamente, e non solo nominalmente, fratelli, che è possibile un intervento quale quello suggerito nel vangelo. Senza dimenticare che anch’esso, nella formulazione in cui è giunto a noi, è già “formalizzato” e “schematizzato” per un uso comunitario… Non per niente, all’inizio, dicevamo che esso risente della prassi usata nella comunità di Matteo!
Ciò che allora è da tenere di questo brano non è la pura applicazione acritica della “ricetta”, ma ciò che la “ricetta” implica, cioè:
-       Che bisogna sempre separare peccato (da condannare) e peccatore (da custodire con ogni mezzo, foss’anche quello di un periodo fuori dalla comunità perché possa ritornare: questo – e solo questo! – è il senso della scomunica nella chiesa).
-       Che non si può aziendalizzare il vangelo sulla falsa riga dell’aziendalizzazione della chiesa che ogni tanto sembra comparire in questo III millennio… Essa, infatti – per quanto si estenda in tutto il mondo – è Chiesa quando consente rapporti autenticamente fraterni. È infatti solo fra due o tre (riuniti nel suo nome), che ci si può ammonire. Perché altrimenti va perso il principio guida dell’ammonimento, che è il seguente: «il perdono e l’amore precedono: la correzione nasce dall’amore. Si corregge – altrimenti che diritto avremmo di correggere? – perché si ama» [Ivi, 238]. Ecco perché questo vangelo dovrebbe avere come destinatarie le piccole chiese che sono le famiglie, le comunità di base, le piccole fraternità, i cantieri antropologici dove si prova a vivere il vangelo… e non le macro organizzazioni ecclesiali in cui non ci si conosce (dunque non ci si ama) nemmeno…

giovedì 25 agosto 2011

XXII Domenica del Tempo Ordinario: Tale Padre… Tale Figlio…

Il vangelo che la Chiesa ci propone in questa ventiduesima domenica del Tempo Ordinario è la diretta continuazione di quello di settimana scorsa. Come abbiamo visto, «è Gesù stesso che prende l’iniziativa di interrogare i discepoli intorno alla propria persona: che cosa pensa la gente del Figlio dell’uomo? E voi chi dite che io sia? La domanda cade sul punto centrale attorno al quale gravita tutta la catechesi dell’evangelista Matteo. Per rispondere all’interrogativo […] la gente ricorre a note figure del passato: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta. Con questo la gente coglie in qualche modo la grandezza di Gesù, ma non ne coglie affatto l’originalità. Non si può esprimere il significato di Cristo ricorrendo a schemi interpretativi già conosciuti. Il discepolo va oltre la folla, ed esprime con assoluta chiarezza la messianicità e la filiazione divina di Cristo. […] Ma anche questa piena affermazione della messianicità di Gesù e della sua filiazione divina non è sufficiente. Il discepolo può correre il rischio di ricadere nella logica degli uomini; può ancora una volta leggere il mistero di Gesù alla luce di un sapere già dato, privandolo così della sua originalità. Se non vigila, il discepolo rischia di attribuire a Gesù la divinità che viene dalla “carne e dal sangue”: una divinità secondo gli uomini, conforme a quello schema di grandezza che gli uomini sognano. Invece la divinità di Gesù obbedisce ad altri schemi. Ma allora occorre una profonda conversione: non solo rinunciare a esprimere Gesù ricorrendo alle figure degli antichi profeti, ma anche rinunciare ad esprimerlo ricorrendo alla comune nozione di Dio. [Infatti] la tentazione che fu di Gesù [«Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane», Mt 4,3ss], e che ora è dei discepoli [«Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»], è la tentazione di sempre: rifiutare – in nome del Messia glorioso – il Servo di Dio» [B. Maggioni, il racconto di Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 2004, 209-212].

La cosa interessante sarebbe provare a rintracciare in noi dove risiede tale “tentazione di sempre”. Cioè andare a ripercorrere il nostro modo di pensare a Lui, di pregare Lui, di vivere di Lui e vedere dove a istruirci sulla sua identità è il vangelo e dove invece è “uno schema interpretativo già conosciuto”, “una comune nozione di Dio”…


A me pare, infatti, che troppo spesso in noi rispunti quel “già conoscere”, “già sapere” tutto di Dio, di Gesù, della morale, che invece che favorire il nostro relazionarci a Lui, fa come da cortina, impedendoci di incontrarlo veramente per ciò che è stato (dunque, che è!)… impedendogli in qualche modo di essere sé… Esattamente come con le persone sulle quali abbiamo un pre-giudizio, che non incontriamo mai per quello che sono o provano ad essere, ma sempre nell’immagine distorta che le lenti della nostra pre-comprensione ci fan vedere…

Mi si dirà che è impossibile incontrare qualcuno in maniera totalmente neutrale, senza averne in qualche modo un pre-giudizio: già il come una persona ci viene incontro, il come è vestita, ecc… anche senza che noi lo vogliamo, fa scattare in noi un giudizio (non necessariamente negativo), cioè un tentativo di definire ciò che mi sta davanti, di organizzarlo all’interno delle “cose” già note… in qualche modo etichettandolo.

Questo è vero: noi – in prima battuta – possiamo conoscere solo definendo le cose, cioè nominandole (quindi dandogli un nome, un’etichetta, appunto), ma anche confinandole (cioè dandogli dei confini, un riquadro entro cui stare: “Tu sei quella cosa lì per me”)!

E anche con Dio “funziona” così: l’imbattersi in Lui, per noi, segue la stessa dinamica dell’imbattersi nelle cose, nel mondo, negli altri... Anche Lui emerge nella nostra coscienza per distinzione (“Dio non è questa cosa”), per nominazione (“Dio è quest’altra”), dandogli un confine / un’etichetta (“Dio è questa cosa e non è quest’altra”)…

Fin qui c’è davvero poco spazio per la libertà umana… questo processo del conoscere è innato… fa parte del come siamo fatti… è fuori dal nostro spazio di manovra. È uno dei confini del nostro essere finiti: l’uomo quando conosce razionalmente, lo fa così.

E però il processo conoscitivo non finisce qui! In seconda battuta, infatti, entra in gioco la nostra libertà: il nostro deciderci di fronte a quell’oggetto di conoscenza in cui ci siamo imbattuti e cui, nella nostra testa, abbiamo iniziato a dare una forma.

E il decidersi consiste essenzialmente nel decidere di entrare o meno in una relazione con quell’oggetto di conoscenza: è qualcosa / qualcuno per cui “vale la pena” sbilanciarsi oppure no?

È a questo punto che si formula in noi tutta quella serie di considerazioni (più o meno consce), del tipo: mi è utile / non mi è utile; è bello / non è bello; è giusto / non è giusto; ecc… entrare in relazione con questa cosa / con questa persona?

Spesso rispondiamo “No”, troppo spesso… purtroppo. Ci fermiamo infatti a quella che comunemente chiamiamo “la prima impressione”, che spesso è negativa (ci identifichiamo e identifichiamo ciò che non siamo noi, per distinzione, appunto) e scegliamo di non entrare in una relazione. (C’è anche da dire che il dire molti più no che sì è anche dovuto ad un limite spazio-temporale: nessuno potrebbe mai dire sì a tutte le relazioni che gli si propongono in vita).

Capita poi –a volte, invece – di dire di sì: è a quel punto che parte un nuovo percorso.

Io credo che con il Signore il nostro itinerario sia stato più o meno come quello appena descritto: ci si è imbattuti in Lui (per molti di noi quando ancora eravamo in fasce), ci si è formati una “prima impressione” – una prima etichetta, mutuata soprattutto dall’ambiente familiare e sociale in cui siamo cresciuti –, si è deciso che “valeva la pena” entrare in questa relazione… come dicevamo per i più svariati motivi: perché avevamo paura che facendo altrimenti saremmo andati all’inferno; perché così facevan tutti; perché il gruppo di amici / amiche del quartiere frequentavano l’oratorio; perché abbiamo intuito che lì dentro c’era una verità di senso sulla vita; ecc…

Come dicevamo, la scelta di entrare in quella relazione è stata frutto di tutta una serie di considerazioni – a noi più o meno note (cioè più o meno consapevolizzate) – che arrivavano da tante parti diverse, dentro e fuori di noi: alcune considerazioni oggi ci appaiono più nobili, altre più grette, ma in noi ce n’erano di tutti i tipi… Non esistono infatti decisioni pure… Tutto il nostro agire è spurio… frutto di nobiltà e grettezza, grandezza d’animo e bassezze, coraggio e paure, amore e odio, libertà e gelosia, ecc… ecc… ecc…

Anche il nostro decidere di seguire il Signore! Che per altro lo sapeva… Scrive infatti san Paolo in proposito: «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8)… Cosa di cui ci dimentichiamo quando si tratta degli altri… Infatti continuiamo a propugnare la teoria che il Signore ama i peccatori che si convertono! Mentre stando al vangelo, la buona notizia era che il Signore ama i peccatori (punto!). Non che li ama solo se si convertono… Anche perché se no che buona notizia è per i peccatori? Se si convertono, infatti, già di loro non sono più peccatori… Va beh… ma questa è un’altra storia…

Tornando a noi… Io credo che il vangelo di oggi si rivolga proprio a persone come noi che hanno già fatto il percorso descritto: imbattersi nel Signore, dargli un’etichetta, decidere di “collocarlo” fra le relazioni “da tenere”…

La questione ora diventa… come “tenere” questa relazione…

Ci sono infatti relazioni nella nostra vita che noi continuiamo a “tenere”, ma che non si evolvono dallo stadio dell’“etichetta”: l’altro è sempre letto a partire da come io l’ho inteso, l’ho inquadrato, l’ho confinato…

Ecco io penso che il vangelo di questa domenica con la citazione di don Bruno Maggioni che ho messo all’inizio, vadano a toccare esattamente questo punto: Non ci staremo forme mica relazionando anche col Signore in questo modo? Non è che forse continuiamo a darGli quel nome (quell’etichetta) che nasce dalla “comune nozione di Dio”? Cioè: non è che abbiamo compresso la storia di Gesù (sentita chissà quante volte) all’interno di uno schema comprensivo che gli era estraneo? Come se l’avessimo confinato (dato una definizione) in cui Lui non sta? In cui Lui non si riconoscerebbe?

Mi pare infatti che troppo spesso in noi rispunti quell’immagine di Dio – nota a tutti e già conosciuta da tutti, atei compresi – scritta a prescindere da Gesù. La sua storia, poi, appunto, è un’altra storia…

Esattamente quello che facciamo anche nelle relazioni tra di noi, quando presumiamo di sapere già tutto dell’altro, senza mai stare ad ascoltare la sua storia, guardare il suo volto, conoscere le sue ferite, ecc…

Ciò di cui allora forse urge che prendiamo coscienza – a partire dal vangelo che la liturgia ci propone – è il fatto che noi dovremmo dire chi è Gesù a partire dalla sua storia… e dire chi è Dio a partire dalla storia di Gesù. Questo è ciò che anche nell’ultimo Concilio ha ribadito la Chiesa! È la storia di Gesù a istruirci rispetto a quale sia il volto di Dio!

Se alcuni tratti del volto di Dio che abbiamo in testa noi e che magari abbiamo mutuato dalla “comune nozione di Dio” non collimano con quelli che emergono dalla storia di Gesù, ebbene, vanno abbandonati… Non solo: vanno abbattuti! Sono infatti idoli, cioè false immagini… Spesso ben mascherate!

Per esempio, l’immagine di “Dio super-io”…

Quest’operazione di “abbattimento degli idoli” è ancor più necessaria per il fatto che “distorcere il volto di Dio” è un’operazione che ha delle conseguenze assai rilevanti sulla nostra vita… Se infatti ci pensiamo come discepoli, non possiamo non vedere quanto sia pericoloso per noi (e per chi ci sta intorno) seguire la falsa immagine del volto di Dio!

Saremmo discepoli di un dio falso, di un dio che non esiste!

Ecco perché Gesù, nel vangelo di Matteo, ogni volta che fa un annuncio della sua passione (ne farà tre, il nostro è il primo della serie) unisce sempre anche un’indicazione su chi è il discepolo. È come se dicesse: “Io sono questa cosa qui, sono Dio in questo senso qui («Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno»), quindi voi siete questa cosa qui, siete miei discepoli, se fate così («Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua…»)”.
La domanda allora che dobbiamo continuamente riproporci è questa: Il Signore della mia vita è quello coi tratti di uno che muore in croce per amore, pur di non rinnegare l’amore? E io sono suo discepolo?

giovedì 18 agosto 2011

XXI Domenica del Tempo Ordinario: Sciogliamo tutti!

Il testo del vangelo che la liturgia ci propone per questa ventunesima domenica del tempo ordinario è tratto dal capitolo 16 di Matteo.

Dopo l’episodio della cananea di settimana scorsa (Mt 15,21-28) e dopo alcuni episodi che la liturgia domenicale non ha lo spazio di presentare (le guarigioni di Gesù presso il lago – Mt 15,29-31; la seconda moltiplicazione dei pani, Mt 15,32-39; la discussione coi farisei e i sadducei e l’istruzione ai discepoli sul loro lievito, Mt 16,1-12), al v.13 si dice che Gesù giunse nella regione di Cesarea di Filippo.

È questo un posto diventato famoso, perché qui – come raccontano Matteo e Marco – Gesù pose ai suoi discepoli la decisiva duplice domanda su cosa la gente e poi i discepoli stessi avessero percepito della sua identità: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», «Voi, chi dite che io sia?».

Sono domande che giungono – sia per i discepoli, sia per i lettori del vangelo – quando ormai la vita pubblica di Gesù è già ben delineata (per questo ciascuno dovrebbe dare la sua risposta!)… a questo punto del vangelo infatti Egli ha già detto molte cose (Matteo, per esempio, nei capitoli precedenti ha riportato il discorso della montagna, il discorso missionario, il discorso in parabole)… ne ha anche già fatte molte (a partire dai racconti sulla sua infanzia, l’inizio della sua vita pubblica, fino ai miracoli e alle controversie coi farisei)…

Proprio a questo punto, quindi, Gesù sembra voler fermare un attimo il flusso degli eventi e fare il punto della situazione: Cosa ha capito di me la gente? Cosa han capito di me i miei?

Ed ecco che arriva la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»!


Una risposta forte! Una risposta grande! Soprattutto in bocca ad un ebreo! Dunque, possiamo immaginare che – certo Pietro l’avrà detta con convinzione ed entusiasmo (sull’onda dell’affetto e dell’ammirazione smisurati che aveva per il suo amico e maestro Gesù) – ma anche con una punta di trepidazione (“Non starò mica esagerando!?!?”).

E invece… nella reazione di Gesù (cui paiono sussultare di gioia le viscere), ecco la conferma di essere nel giusto: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»!

Gesù stava tastando il terreno: voleva capire in che misura ciò che aveva detto e fatto, avesse mostrato effettivamente alla coscienza della gente chi Lui fosse (questa, infatti, pare essere la sua preoccupazione fondamentale: che la sua vita, il dipanarsi della sua singolarità, la sua libertà storica, sia incontrata nella sua verità dai singoli uomini e donne che incontra. E tutto ciò è così importante perché Egli sa che nello svolgersi della sua storia, si rivela Dio! E… dall’idea di Dio che uno ha in testa dipende tutto l’orizzonte di senso su cui impostare la vita, l’idea di uomo, di amore, di relazioni, di morte...).

Ecco perché la risposta di Pietro è così importante per Lui: perché è il riconoscimento! Pietro ha capito che in quell’uomo lì si dà qualcosa che non è contenibile nelle categorie solite della religiosità ebraica: Gesù non è Giovanni Battista redivivo o Elia o Geremia; la sua persona non è esauribile nella categoria di profeta. Egli – dice Pietro – è il Messia, colui che deve venire a salvare gli uomini, e il Figlio di Dio, qualcuno che ha a che vedere direttamente con Dio (la Chiesa poi dirà Dio lui stesso, che per l’ambiente ebraico – da cui provenivano Pietro e tutti i primi cristiani – è una delle bestemmie peggiori, perché infrange il primo – e più importante – comandamento, fondante lo stretto monoteismo ebraico: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me» – Dt 5,6-7).

Ecco perché a Gesù nasce come un guizzo di gioia interiore («Beato sei tu, Simone»!)… perché sta intuendo…

Un guizzo, che lo porta a fare qualcosa di inaudito…

Infatti, di fronte alla professione di fede di Pietro, Gesù – a sua volta – fa la sua di professione: «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»!

Gesù – cioè –, di fronte alla dichiarazione di Pietro di fidarsi di Lui e, in Lui, di Dio, risponde con la sua professione di fede nell’uomo: il Dio di Gesù Cristo è il Dio che si fida dell’uomo: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»; «A te darò le chiavi del regno dei cieli»!

Se già è sconvolgente per la mentalità del tempo che Pietro dica di Gesù «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», ancora di più lo è il fatto che Gesù dica a Pietro «A te darò le chiavi del regno dei cieli»! Che Dio, cioè, nel suo Figlio e attraverso il suo Spirito si fidi dell’uomo per la realizzazione del suo regno, cioè per la realizzazione del mondo come Lui lo vuole, è qualcosa che fa sobbalzare!

Di tutto questo “sobbalzo” – però – la tradizione cristiana ha come un po’ attenuato la portata… ciò che infatti, di questo brano, la nostra memoria cristiana ha trattenuto è soprattutto quel potere di “legare e sciogliere” in terra ciò che resterà legato e sciolto in cielo… Questo è ciò che attira immediatamente l’attenzione.

Non a caso la scelta della prima lettura va esattamente in questa direzione, menzionando la decisione di Dio di porre sul trono di Giuda Eliakim, del quale viene detto: «Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire», che è un’espressione che richiama quella del vangelo.

Vorrei dunque spendere qualche parola in proposito…

Noi infatti immediatamente associamo queste affermazioni (quella di Isaia su Eliakim e quella di Gesù su Pietro) ad un conferimento di potere, che – per quanto riguarda il NT – colleghiamo subito al sacramento della riconciliazione… Il percorso mentale che facciamo mi pare possa essere delineato in questo modo: se a Pietro è stato conferito questo potere di legare o sciogliere, vuol dire che lui e i suoi successori (indistintamente papi, vescovi, preti) hanno il potere – attraverso la confessione – di decidere chi va in paradiso e chi no… ragionamento dal quale derivano poi – a cascata – tutta una serie di altre considerazioni come per esempio quella dell’assoluta necessità di confessarsi prima di morire, ecc…

Ora, io credo che – per orientare il tutto ed evitare fraintendimenti o letture riduttive – vada colta una piccola parolina che Isaia mette in quella che è la nostra prima lettura: «Eliakim sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda»!

Cioè, è vero che dentro alle parole del profeta e dentro alle parole di Gesù c’è in gioco un conferimento di potere, ma questo è un potere diverso da quello che inseguono le logiche umane. Questo potere evangelico non è capriccioso (questo lo lego / questo lo sciolgo; a questo apro / a questo chiudo), ma paterno. Ha cioè in sé il germe del contagio della paternità di Dio; dicevamo infatti che è l’attestazione della fiducia che Dio ripone nell’uomo per la costruzione condivisa (tra Dio e l’uomo, appunto) del Regno!

Ecco perché quell’invito dovrebbe suscitare in tutti noi che tentiamo di essere almeno un po’ discepoli, il desiderio di usare di questo potere animati dallo stesso Spirito di paternità proprio di Dio! Cioè mai come un qualcosa di nostro, da usare contro gli altri. Ma un qualcosa di tutti, messo – immeritatamente – nelle nostre mani perché arrivi a tutti!

Da cui io penso non si possa che dedurre che è proprio necessario che i cristiani si mettano sulle strade del mondo per sciogliere tutti! Altrimenti… è un potere discriminante («che è una parola terribile, perché ha una radice semantica che suggerisce che di là ci sono i criminali» [Giuliano]) non attribuibile al Dio di Gesù!

venerdì 12 agosto 2011

XX Domenica del Tempo Ordinario: Dio anche per noi stranieri

Le letture che la Chiesa ci propone per questa ventesima domenica del Tempo Ordinario mi hanno suscitato un vero e proprio fermento di riflessioni, spunti, intuizioni… io vorrei provare a mettere tutto per iscritto, ma temo che l’effervescenza che m’ha preso, mi porti a fare un po’ di confusione… perché vorrei dire tutto quanto m’è passato nell’anima, ma non sempre è facile tradurre questi “attraversamenti” in pensieri razionali e in discorsi compiuti… Ne risulterà perciò forse – e me ne scuso fin da ora – una lectio un po’ turbolenta, che – appunto – vuol più provare a metter lì delle suggestioni, che a compiere un percorso organico…

Innanzitutto vorrei sottolineare come tutte e tre le letture contengano un riferimento chiarissimo agli stranieri:

-          Isaia dice: «Gli stranieri li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7).

-          San Paolo scrive alla comunità cristiana di Roma (dunque a cristiani non ebrei, anzi a cristiani romani… romani esattamente come coloro che occupavano la Palestina…); scrive cioè a stranieri – particolarmente non amati – e gli scrive riconoscendo la loro piena titolarità cristiana;

-          Infine il vangelo parla dell’incontro di Gesù con una donna straniera (una Cananea), con la quale Egli ha un confronto proprio in merito alla sua “estraneità” al popolo eletto…

E allora, mi veniva da pensare al grande problema degli immigrati, degli stranieri che arrivano nella nostra Italia, delle inconsulte reazioni che tutto ciò ha provocato nei mesi scorsi (e di cui oggi ci siamo totalmente scordati, perché presi da altro… dal terrore che i nostri soldi diventino carta straccia), della strumentalizzazione della sofferenza della gente, del razzismo inconsapevole di tanti di noi, ecc… ecc… ecc… Ci sarebbe da andare avanti fino a domani mattina solo a parlare di questo…

Ma ciò che invece vorrei far notare è come la reazione a tutto ciò – cioè a queste letture che ci richiamano a questi problemi – solitamente sia di stampo morale: bisogna accogliere gli stranieri, bisogna aiutarli, bisogna rispettare la loro diversità, ecc… che son tutte cose vere e sacrosante, ma che – mi pare – non arrivino fino al nodo vero della questione, che invece il testo biblico centra in pieno: gli stranieri siamo noi!


È un po’ come il discorso dei peccatori… Leggendo il vangelo noi ci mettiamo spesso a guardare le cose dal punto di vista (morale) dei giusti invitati a usare misericordia verso i peccatori, dato che Dio è misericordioso… Poche volte (magari legate a particolari situazioni della vita) ci viene istintiva l’identificazione col peccatore (non a caso nei nostri discorsi vien sempre fuori la necessità che – va bene tutto – però poi: “Che il Signore venga e faccia una bella distinzione finale – inferno/paradiso – tra i peccatori e noi!” ci scappa detto…). Ecco… per gli stranieri è la stessa cosa… Ogni volta che si parla di loro nella Bibbia, noi pensiamo non ad un messaggio rivolto a noi, ma un messaggio rivolto a loro (poverini!), mentre a noi non rimane altro che collaborare con Dio (da bravi figli che siamo – cosa che loro invece, così implicitamente pensiamo, non sono) al suo progetto di accoglienza anche nei loro confronti, ecc…

In realtà gli stranieri (così come i poveri e i peccatori) non sono l’occasione per la mia carità, ma sono un luogo teologico vero e proprio, in quanto paradigmatici della vera identità di ciascuno di noi. Noi siamo gli stranieri a cui pensava Isaia, cioè quelli non appartenenti per razza al popolo ebraico. Noi siamo i Romani a cui Paolo scrive per riconoscergli la possibilità di essere cristiani nonostante non siano ebrei. Noi siamo quella donna cananea che ha aperto la missione di Gesù al di là dei confini giudaici!

Cioè, queste letture sono rivolte a noi! E ciò che ci dicono è la buona notizia che Dio non è solo il Dio di un popolo, di una razza, di un gruppo (a cui noi non apparteniamo), ma può e vuole essere anche il Dio della mia vita… della mia vita non abilitata (per razza, eredità o merito) ad esserlo!

Allora, vedete che le cose cambiano… La prospettiva cambia… E diventa stupefacente andare a vedere come questa cosa è accaduta nella storia… quella volta… che poi ha spalancato le porte a tutti...

È ciò che è raccontato nel brano di vangelo di questa domenica attraverso tre passaggi sconvolgenti:

1-      Gesù cambia idea;

2-      è una donna straniera a fargliela cambiare;

3-      e la cambia su una questione fondamentale: Dio non è solo il Dio degli ebrei.

Per capire davvero la portata di questi elementi, che coraggiosamente la prima comunità cristiana ha voluto tramandare per sempre a tutta la Chiesa, proviamo a guardarli uno alla volta, da vicino.

1- Innanzitutto, dire che Gesù – che noi crediamo il Figlio di Dio – abbia cambiato idea “strada facendo”, lasciandosi provocare dalla storia che man mano viveva e dagli incontri che in essa faceva, non è una cosa così indolore. Ancora oggi (anzi forse molto più oggi che allora), affermare una cosa del genere scatena immediatamente reazioni di iper-prudenza, di attenuazione delle parole, di ridimensionamento della cosa. Non fa niente se è scritto in modo inequivocabile nel vangelo: la paura atavica della dissacrazione di Dio e della sua possibile ritorsione (eterna) è più forte. E allora si ha bisogno come di liofilizzare la vicenda terrena di Gesù, di renderla eterea, di de-storicizzarla.

Ma perché fa così paura dire che Gesù ha cambiato idea? Il timore è che questo possa mettere in discussione la sua divinità e – di conseguenza – la nostra salvezza. Cioè che, se Gesù non sapeva già tutto in anticipo (con l’esclusione quindi della possibilità per lui di cambiare idea, di evolvere nella presa di coscienza di sé, del Padre e della sua missione), ma “si è fatto” strada facendo (come fanno tutti i figli di questo mondo – e come peraltro di Lui dice anche il Credo…), allora forse non era Dio... Ecco il terrore sottostante!

Ma il problema è che in tutto questo ragionamento, che forse non esplicitiamo mai, ma che soggiace al nostro modo di rapportarci a Dio e dunque a noi stessi e agli altri, c’è un pregiudizio di fondo: il fatto che siamo noi a decidere il modo in cui Gesù deve essere Dio: deve sapere tutto e in anticipo (onniscienza), deve potere tutto ciò che vuole (onnipotenza), deve essere forte, grande, eterno... Insomma un plenipotenziario degli attributi degli abitanti dell’Olimpo... questo è il dio che abbiamo in testa noi, perché – ci chiediamo – se non fosse così, come potrebbe salvarci?

E seppur il vangelo è lì a smentire continuamente questa immagine e a invitarci a convertirla, essa rispunta sempre. Come per esempio qui, nella fatica, personale ed ecclesiale di prendere sul serio il fatto che Gesù abbia cambiato idea, che Gesù cioè fosse uomo per davvero e che questo, lungi dal diminuire la sua divinità, la rivela invece in pienezza: Gesù è Dio così, facendosi uomo. Tutti i tentativi di ridurre, mitigare, diluire la sua personale vicenda storica, pensando così di salvaguardarne la divinità, in realtà perdono l’una e non trovano l’altra, se non, al massimo, in una forma evanescente, inconsistente, insapore e incolore, tanto lontana dalla vita dell’uomo da apparire superflua, se non addirittura inutile (come di fatto accade oggi).

E pensare che tutta la vita di Gesù dice il contrario... nasce povero e nudo dal grembo di una donna; di lui il vangelo dice che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52); che ha provato la lotta col male (Mt 4,1 ss); che si è lasciato provocare dalle discussioni con gli altri uomini (Mt 9,14 ss); che «si meravigliava» (Mc 6,6); che si intristiva e piangeva (Gv 11,35); che si commuoveva (Mt 14,14); che incontrava, andava, ritornava, amava, pregava; che provava «paura e angoscia» (Mc 14,33)… che – per dirla alla De Andrè – «è morto come tutti si muore, come quegli altri, cambiando colore».

E a meno di dire – come è stato detto dall’eresia docetista –che Gesù facesse finta, è necessario, di fronte a questa evidenza, assumere con serietà e radicalità il fatto che Gesù sia Dio proprio nel modo di farsi uomo! E che – viceversa – dentro a questo “farsi uomo” di Gesù, fatto di storia e incontri, riflessioni e esperienze, ci sia anche il suo modo di essere Dio: un Dio che sceglie di essere Dio-con-gli-uomini o Dio-mai-senza-l’uomo, che dunque sceglie di non scrivere la storia a prescindere da lui, ma di inventarla insieme con lui… sapendo il rischio che corre…

2- Secondo sconvolgimento: anche le donne in maniera inconcepibile per la mentalità ebraica di allora ed ecclesiastica di oggi – sono entrate in questo flusso di presa di coscienza di Gesù! E lo hanno fatto in modo radicale. È curioso quanto peso – ancora una volta con un coraggio smisurato – la prima comunità cristiana abbia riservato nei vangeli agli incontri di Gesù con le donne. Non solo per la loro quantità o frequenza, quanto per la loro decisività: Gesù nasce dal grembo di una donna; non ha paura di andare contro le prescrizioni ebraiche e di suscitare scandalo facendosi da loro toccare («Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. […] Gesù, voltatosi, la vide e disse: “Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita”», Mt 9,20.22) e amare («Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato», Lc 7,37-38), difendendole pubblicamente («Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei», Gv 8,7); addirittura attribuendo all’incontro con una di esse la stessa necessità di farne memoria che assegna all’eucaristia («In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» Mt 26,13); scegliendo tra tutti, appena risorto, di andare dalla sua Maria Maddalena («Maria!», Gv 20,16)…

E poi la nostra di oggi… quella donna che ha fatto cambiare idea al Figlio di Dio… una donna… che era straniera!

3- Testimone emblematica del fatto che il Signore è uno che accetta di avventurare la sua libertà nell’intreccio con quella della sua creatura, a prescindere da qualsiasi barriera razziale, culturale, di genere, incontrandola invece in quell’intimità di sé (la stanza interiore) che fa l’uomo umano (e cioè abilitato all’incontro col divino – il divino di Gesù Cristo).

Ecco il terzo sconvolgimento! Il più sconvolgente perché ha sconvolto per primo Gesù stesso! Egli infatti ha dovuto prendere coscienza di dover cambiare idea e di dover uscire dalla mentalità giudaica del suo tempo che pensava la salvezza come dono esclusivo per Israele. A ben guardare infatti Gesù inizialmente si dedica «alle pecore perdute della casa d’Israele», non va nei territori pagani e non a caso chiama dodici discepoli: egli infatti vede la sua missione come la costruzione del nuovo Israele!

Ma… la vita gomito a gomito con la gente, nonostante il tentativo, anche duro, di trattenersi («egli non le rivolse neppure una parola») lo “converte”… gli fa cambiare strada… e spalancare le porte dell’incontro con Dio, in lui, a tutti gli uomini! Anche a noi stranieri!
Forse perché «dire no a chi ‘da vicino’ ti chiede qualcosa, è sempre più difficile» [Relazione per i 25 anni della fraternità di Lessolo].
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...

I più letti in assoluto

Relax con Bubble Shooter

Altri? qui

Countries

Flag Counter