In questa quinta domenica del tempo ordinario, la prima lettura che la liturgia ci propone è tratta dal libro di Giobbe. Giobbe – secondo la finzione scenica che la narrazione mette in campo – era un uomo giusto, talmente giusto che Dio in cielo se ne compiaceva davanti ai suoi figli… Satan però ribatté a Dio, dicendogli che era troppo facile benedire il Signore quando tutto andava per il meglio e che se solo Giobbe avesse incontrato delle disgrazie avrebbe ben presto iniziato a maledire – altro che a benedire – Dio… Il Signore accettò allora la sfida di Satan e gli permise di far capitare a Giobbe tutte le disgrazie possibili e immaginabili: nel giro di pochissimo infatti egli perse tutto, le sue ricchezze, il suo bestiame, soprattutto i suoi figli!
Al di là però di questa “anteprima scenica” con cui si apre il libro – un’anteprima che fa quasi sorridere vedendo questo dialogo reciprocamente malizioso tra Dio e Satan – la narrazione è in realtà una delle più struggenti dell’intera Bibbia. Essa infatti sancisce la messa in crisi nel pensiero ebraico della giustizia retributiva: non è vero che ai buoni le cose vanno bene e ai cattivi le cose vanno male, anzi, sembra proprio il contrario. La storia di Giobbe è la storia del giusto malcapitato, dell’uomo integro perseguitato… della vittima innocente… Essa pone allora la drammatica questione del male per l’uomo: se esso non è spiegabile con la colpa (il male capita anche agli innocenti), che intelligibilità può avere?
Tra l’altro nel libro fanno la loro comparsa i cosiddetti “amici di Giobbe”, coloro che vogliono salvaguardare l’impalcatura della tradizione antica, quella della giustizia retributiva, sostenendo che se a Giobbe capitano tutte queste cose è perché in un modo o nell’altro se le è meritate… Lo sforzo e lo strazio di Giobbe per tutta la narrazione è invece il ribadire la sproporzione inaccettabile tra l’eventuale colpa umana e il carico di sofferenza che esso deve patire.
Proprio questo è lo scandalo – uno scandalo che supera i confini della storia “personale” di Giobbe e arriva fino a noi: questa vita è troppo segnata dal male; sembra la vita di uno schiavo o di un mercenario; di uno schiavo perché è caratterizzata per lo più da un duro lavoro, da un patimento continuo… e di un mercenario perché non si vede l’ora che finisca… nell’aldiqua è senza speranza e allora si aspira – come i mercenari appunto – almeno in un salario postumo…La vita dell’uomo è dunque un inferno, quasi più uno scontare una pena, che vivere…
Forse immediatamente, di fronte alla tragicità di Giobbe e del libro che parla di lui, ci verrebbe da sdrammatizzare: in fin dei conti non è proprio così drastica la nostra situazione… Ma se appena si volta la testa e si guarda davvero dentro alle caverne angosciose della nostra anima o dentro alle vite di tanta (troppa) gente, devastata dalla violenza, dalla guerra, dalla fame, dalla cattiveria, dalla solitudine, forse ogni sdrammatizzazione si tramuta in sorriso amaro, e poi in silenzio svuotato, e poi in pianto.
L’altro giorno m’è successo proprio così… Mi è stato proposto di vedere il filmato “Clown a Kabul” – scusate se per una volta cito un’esperienza personale e mi stacco dall’abituale formalità di questi scritti: si tratta di un filmato girato da un gruppo di cameraman e registi che hanno accompagnato la spedizione di una quindicina di clown a Kabul. È un’iniziativa legata agli ospedali del sorriso di Patch Adams e promossa da Emergency. Non riassumo il tutto, anche perché invito chi ne ha la possibilità a prenderne visione, e mi soffermo solo su una scena che descrive bene – con un esempio concreto – quanto qui sopra ho tentato di dire “teoricamente”: in uno degli ospedali di Kabul in cui questi clown vanno a portare un po’ di festa e gioia semplice (fatta di palloncini colorati e bolle di sapone), un medico sta medicando una bambina, vittima di una mina antiuomo (l’80% delle quali a Kabul sono italiane…). Fortunatamente non aveva perso nessun arto, ma aveva tutta la schiena e parte della gamba bruciate. Il medico doveva perciò medicarla, tagliare pezzi di carne bruciata e finalmente applicarle il gel rinfrescante e bendarla. Tutto ovviamente a mente serena… La telecamera si spostava alternativamente sulle mani del medico, sulle urla della piccola e sulle lacrime di sua madre che le teneva ferme le braccine… Avrà avuto 5 anni…
Di fronte a queste cose, non c’è sdrammatizzazione che tenga: Giobbe aveva ragione: «I miei giorni svaniscono senza un filo di speranza».
La tentazione sarebbe quella di chiudere baracca e burattini – concretamente file di word e computer – far calare il silenzio e chiudere il sipario…
Dire qualsiasi cosa pare infatti inadeguato: ogni parola suonerebbe come una pietra scagliata dall’esterno dentro alla vetrina di cristallo del dolore dell’uomo… di ciascun uomo… l’effetto sarebbe devastante… come spesso è stato, quando qualcuno si è permesso di dire qualcosa delle tragedie altrui…
C’è un solo modo per non tirare il sipario sulla disperazione umana, dichiarandola così senza speranza: non stare fuori dalla cristalleria, ma entrarci. È l’idea geniale di Paolo: solo un povero può avvicinare davvero un povero, solo un disperato può avvicinare davvero un disperato, solo chi ha perso un figlio, chi è stata violentata, chi ha sudato le angosce della vita e della morte, chi è stato abbandonato, chi ha visto morire… solo chi ha sperimentato sulla pelle la drammatica umana può avvicinare davvero… «mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge; con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole coi deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno».
E sarebbe interessante chiedersi perché la chiesa – che per così tante cose si rifà a Paolo – ultimamente preferisca invece dimenticare questo insegnamento di disponibilità a perdere la propria identità per avvicinare davvero l’altro e voglia invece ribadire con fermezza i confini della sua fisionomia.
Anche perché… a ben guardare… Paolo qui non usa proprio solo “farina del suo sacco”… Infatti… è farina di Gesù! Per primo lui infatti e nel modo più radicale possibile (per questo definitivo e insuperabile) ha applicato il “farsi uomo con gli uomini”, ha vissuto la drammatica umana che sola e per davvero l’ha avvicinato agli uomini.
E in questo senso la scena descritta dal vangelo di Marco è commovente: «La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva». Solo uno che si è fatto uomo con gli uomini può essere capace di una delicatezza tale: Gesù probabilmente per età avrebbe potuto essere il nipote di questa anziana donna acciaccata dalla febbre; le si fa vicino, la prende per le mani, l’aiuta ad alzarsi… la rigenera… letteralmente, la risuscita… chissà che dolcezza dev’essere passata nel loro scambio di sguardi… La dolcezza della com-passione, della con-naturalità, della con-divisione della drammatica umana…
Quella stessa che ha caratterizzato tutta la storia umana di Gesù e che dunque, proprio perché questa sua storia umana è la rivelazione di Dio, è quella stessa che caratterizza la faccia del Padre!
Marco tenta di dirlo sinteticamente continuando a raccontare la seconda parte della “giornata tipo di Gesù” (la prima era il vangelo di domenica scorsa). Dopo la mattinata in sinagoga e la guarigione dell’indemoniato, dopo la visita alla casa di Pietro e la guarigione della suocera, «la sera, dopo il tramonto del sole» prosegue infatti con la com-passione verso «tutti i malati e gli indemoniati».
Tra l’altro è interessante che Gesù imponga qua quello che gli specialisti chiamano “segreto messianico”: «non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano». Gesù non vuole essere frainteso, non vuole che i demoni lo chiamino “Figlio di Dio” mentre fa i miracoli. Sa infatti che i miracoli sono ambigui: invece che come gesti di liberazione dal male, dunque di com-passione della drammatica umana, potrebbero essere letti come gesti di potenza. Lui invece proprio dentro al miracolo è come se domandasse alla gente: “Credi che è onnipotente l’amore e non il potere?”. Perché la morte, la malattia, la natura, le forze degli spiriti in cui credevano e da cui erano oppressi, non erano vinti da Gesù perché lui poteva non morire, non essere perseguitato, non annegare dominando il vento, ecc…, ma perché affermava la potenza dell’amore fin dentro queste cose. Infatti ha poi Lui stesso subìto le sberle, gli sputi, le offese, le frustate, la morte, senza fare nessun miracolo, senza dirci niente della potenza di Dio. Ha taciuto la potenza di Dio, ma ha portato l’amore, la comprensione, la tenerezza, il perdono agli uomini proprio dentro alle realtà di prima: la morte, l’oppressione, la solitudine, ecc…
Questo è l’insegnamento, vissuto fino in fondo da Gesù: l’amore è indistruttibile perché non ha niente che lo rovini. Questa è la vera potenza del Regno. Non degli strani miracoli, o anche dei gesti, dei messaggi degli angeli. Attraverso i miracoli, o anche dei gesti, dei messaggi degli angeli, Gesù, momento per momento, cercava solo di indicare cosa stava avvenendo sotto la scorza, sotto la superficie. Ma ciò che veramente stava avvenendo era una lotta di amore: la forza sul vento, la forza sulla malattia e sulla morte erano cose esterne, solo segnali.
Proprio perché c’era in gioco questo non voleva essere frainteso. Proprio per questo «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava»: per “farsi Dio con Dio”… e solo così “uomo con l’uomo”…
È da lì infatti che gli esplode quella che qualcuno ama chiamare la “morale orizzontale”, cioè “doveri e divieti” non legati a un codice morale, a un’etica sussuofoba o moralistica su tanti altri fronti, ma legati alla faccia degli altri: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». Nessuno deve restare fuori da questo “farsi … con …”!
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4 commenti:
Quanta passione, quanta umanità e quanto desiderio di immergersi in questa vita. Lo spendersi sino all'ultimo per .... con ...
Chia, ti rendi conto che se segui Lui, mai e poi MAI puoi chiudere baracca e burattini. Perchè con il tuo IO sprofondato nel male, nel dolore, nell'ingiustizie.... sei immersa nel Suo io.
Ed allora non abbandoni. Puoi vacillare, far fatica,essere offuscato, ma ci resti sino in fondo, con il desiderio di donare il LUI che hai incontrato.
Un abbraccio
@chia mi sono piaciuti particolarmente queste riflessioni:
...la morte, la malattia, la natura, le forze degli spiriti in cui credevano e da cui erano oppressi, non erano vinti da Gesù perché lui poteva non morire, non essere perseguitato, non annegare dominando il vento... ma perché affermava la potenza dell’amore fin dentro queste cose…
Infatti ha poi Lui stesso subìto le sberle, gli sputi, le offese, le frustate, la morte, senza fare nessun miracolo, senza dirci niente della potenza di Dio.
Sei unica!
mi spiace mario,
ma quelle frasi non sono mie. unico dunque ne è l'autore: giuly
cara chia, anche se hai riportato frasi che non sono tue ma di giuly, il fatto stesso che tu le abbia postate significa che le hai condivise,le hai fatte tue. Però sarebbe preferibile,in casi come questi, che venisse citato tra parentesi l'autore, che dici? ;-))
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