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martedì 2 marzo 2010

Santa che?

Un consiglio al direttore di Avvenire: si prenoti per il prossimo viaggio!
Pare che Daniela Santanché sia stata nominata sottosegretaria per l’Attuazione del Programma, immagino di partito o di governo che poi è la stessa balla fritta...

Chissà ora il direttore di Avvenire, fresco di nomina (diciamo pure così senza infierire) da che parte andrà? Credo che per lui la Terra sia diventata piccola...

Eppoi ce la prendiamo quando ci dicono che "siamo fuori dal mondo"! Bah! vai a capirli questi farisei... ops! volevo dire cattolici (mi scusino i signori farisei!)...

Giro, giro, tondo, come è brutto il mondo, come è brutta la Terra, tutti sù alla guerra...

lunedì 1 marzo 2010

Professione Giornalista!

Illuminante dialogo a distanza su il Fatto Quotidiano tra Michele Santoro e Barbara Spinelli via Marco Travaglio. Una bella lezione di umanità, libertà, democrazia, storia e linguaggio e tecnica della comunicazione non solo televisiva... Assolutamente da non perdere.

La lettera di Santoro in risposta a quella di Travaglio:
Caro Marco,
risponderò con franchezza alla tua lettera che mi sembra venire da troppo lontano. Siamo diversi e con diverse opinioni su molte cose: legalità, moralità, libertà e televisione. Eppure forse proprio per questo siamo riusciti a diventare amici e, per un pezzo importante della nostra vita, a combattere fianco a fianco contro la censura. È questo l’unico vero miracolo compiuto da Silvio Berlusconi, aver intrecciato vicende professionali distanti come quelle di Biagi e Luttazzi, di Montanelli e di Sabina Guzzanti. La tua e la mia. Vivrei una tua decisione di prendere le distanze da Annozero con grande amarezza ma non per ragioni personali: perché sarebbe, in primo luogo, un torto fatto a un pubblico assai grande e, in secondo luogo, un ulteriore arretramento del confine del proibito che ormai comprende quasi tutti i fatti più scottanti riguardanti i potenti in Italia.

Non sarebbe tuttavia una tragedia o una catastrofe irreparabile. Nel corso della mia lunga esperienza televisiva tanti miei amici e collaboratori hanno scelto o dovuto scegliere di percorrere altre strade. È stata sempre per tutti un’occasione di rinnovarsi, una sfida per allargare gli orizzonti di quel laboratorio del quale sentiamo comunque di continuare a far parte.

Già oggi il tuo raggio d’azione è enorme: scrivi quotidianamente per il Fatto (e non solo), hai un blog seguitissimo, hai una parte da protagonista nel blog di Grillo e riempi i teatri col tuo spettacolo su Tangentopoli. Potresti quindi fare tranquillamente a meno di Annozero, senza più esporti alla fatica e allo stress del corpo a corpo televisivo dove si ha sempre la sensazione, sbagliando, di doversi giocare tutto in pochi minuti.

Una volta, quando avevi soltanto i tuoi libri, non facevi nessuna fatica ad affrontare quegli stessi «farabutti» che oggi, invece, ti appaiono interlocutori inaccettabili. Non Annozero, con i suoi milioni di ascoltatori, ma una qualunque televisione di provincia ti sembrava una buona occasione da non sprecare. Allora ero io che ti invitavo ad affaticarti di meno, a rendere più preziosa la comunicazione, a mettere un freno alla tua generosità, mentre lavoravo a migliorare le luci, la tua posizione in scena, i tempi del racconto e a inserirti più efficacemente nel contesto del programma.

Certo senza le tue straordinarie qualità di scrittore e narratore tutto questo non sarebbe servito a niente. Ma è servito. Nonostante Belpietro, Ghedini o Lupi. Loro sono sempre gli stessi. Tu sei cambiato. Non so se ti accorgi che, quando a proposito di Annozero dici che è una questione di format, stai parlando come un membro della Commissione parlamentare di vigilanza.

Non so se condividi i suggerimenti di Paolo Flores d’Arcais che pretende di spiegarmi quando spegnere e accendere i microfoni di un ospite. Un membro perfetto dell’Agcom. Un apologeta del Berlusconi-pensiero sul «pollaio». Proprio come Furio Colombo e le sue invettive contro i talk-show. D’Arcais e Colombo sono convinti che debba regnare l’ordine del discorso (scritto) che, ovviamente, per loro non è quello del telegiornale di Minzolini ma quello di Report , celebratissimo esempio di una trasmissione basata sul principio di identità e non contraddizione.

Ora, sia ben chiaro, Report piace anche a me, e molto: lo ritengo altrettanto incompatibile di Annozero con gli equilibri imposti dal conflitto d’interesse al sistema informativo. Ma non è l’unico modo possibile di fare inchiesta, come non lo era un tempo il documentario in stile Bbc. Noi proviamo a forzare la gabbia delle compatibilità, ad uscire dal seminato; per mettere a nudo le contraddizioni illiberali del palinsesto non ci accontentiamo di scavarci una nicchia alternativa. Siamo brutti, sporchi e cattivi. Raccogliamo meno consensi di Ballarò ma creiamo un maggior numero di situazioni critiche, più adrenalina, più polemiche, più brecce nella gelatina.

Perciò ho voluto e continuo a volere che, almeno per un po’ di minuti, tu occupi il centro della scena. Sei il simbolo di ciò che il recinto della televisione generalista non vuole più contenere, di tutti coloro che sono stati espulsi e non possono più rientrare. La prefigurazione di un cambiamento possibile. D’altra parte chi è espulso riesce anche a sopravvivere benissimo. Fuori dalla tv generalista l’industria culturale rende ancora possibili profitti importanti per chi produce contenuti forti; ma chi resta è meno libero e chi va via non entra più in contatto con una sterminata periferia, una enorme banlieue culturale nella quale resta confinata una buona metà della popolazione italiana. In questa periferia, almeno qualche volta, Annozero è entrato prepotentemente. Anche grazie a te, e ne vado fiero. E anche grazie a Maurizio Belpietro.

Tu, invece, pensi che Maurizio Belpietro – o Porro o Ghedini – siano soltanto un prezzo pagato alla par condicio, una legge di cui si parla senza conoscerla e di cui nessuno si occupa seriamente, quando per me rappresentano quel vuoto necessario di scrittura che rende la trasmissione imprevedibile. Perfino ciò che è successo giovedì scorso dimostra che nel nostro studio nessuno può sapere in anticipo come andranno le cose. Noi per primi.

Report ha l’andamento di un film. Annozero assomiglia ad una partita di calcio, mette in gioco non solo nozioni ma emozioni, convinzioni profonde, passioni anche viscerali. Quando il gioco diventa noioso e scontato il pubblico più infedele cambia canale. Ed è questa la ragione per cui siamo costretti a inseguire lo spettatore meno affezionato ai nostri programmi, qualche volta perfino deludendo i fan. Il contrario esatto di quello che avviene a teatro.

In passato godevo nel vederti demolire le argomentazioni aggressive con l’ironia e con una precisione chirurgica: adesso chiedi tempo. Un tempo che la tv, a tuo parere, non sarebbe in grado di concederti. Quanto tempo per rispondere a contestazioni che si ripetono come una litanìa monotona e scontata? Cinque minuti? Mezz’ora? Una serata intera? Nella tua lettera potevi essere più esplicito nel criticare la mia conduzione. Io credo che tu non l’abbia fatto perché avresti dovuto aggiungere l’elenco dei «bellissimi servizi» da tagliare per fare spazio alle tue necessità.

Invece che di Bertolaso avremmo almeno saputo tutto di Travaglio? E la volta successiva cosa avremmo dovuto fare se si fosse ripetuta la stessa situazione? La risposta sembra interessarti poco: prima viene il tuo onore, la faccia, la verità. Dovremmo ripetere il disco della condanna per diffamazione pronunciata solo in primo grado, rivedere alla moviola il tuo certificato penale, per convincere l’universo mondo (compreso Belpietro) delle tue qualità morali che al nostro pubblico non sembrano per niente in discussione. Inoltre un giornalista condannato, si fa per dire, definitivamente per diffamazione smette di essere un buon giornalista? Penso proprio di no; come Schumacher che, se va una volta fuori pista, non smette per questo di essere un buon pilota.

Hai saputo schivare e anche incassare molti colpi bassi ma questa volta è bastata una banalissima insinuazione di Porro (e non un’aggressione squadristica) per farti perdere il lume della ragione. Hai frequentato un sottufficiale dell’Antimafia prima che venisse condannato per favoreggiamento. Scusa, qual è il problema morale? Quali sconvolgimenti ha creato nella percezione che i nostri ascoltatori hanno di te questo genere di insinuazioni? Nessuno.

Le critiche, anche le più assurde, fanno parte del nostro lavoro, così come rispettare chi non la pensa come noi, non insultarlo, non delegittimarlo come interlocutore. E se sono gli altri ad aggredirci, dobbiamo rispondere come tu sai fare meglio di me, rapidamente e con le armi dell’ironia. Quando io non l’ho fatto ho sbagliato.

Siamo diversi ma apparteniamo entrambi al pubblico. Solo dal pubblico deriva la nostra credibilità. Perciò hai il diritto di proporti al pubblico come meglio credi, nella forma teatrale dei tuoi spettacoli (senza disturbatori) o, come mi auguro, nel percorso a ostacoli di Annozero. Sai che mi sono battuto con tutte le mie forze per includerti con un regolare contratto e non come un ospite occasionale nella nostra trasmissione. Sono fiero di poter dire che tu sei parte della Rai e del servizio pubblico. Come dovrebbero esserlo Sabina Guzzanti, Daniele Luttazzi e tanti altri. All’inizio di Annozero ero convinto che col nostro ritorno avremmo portato a casa una vittoria importante contro la censura e che presto il mondo sarebbe cambiato. Non è successo, anche se nel frattempo siamo diventati il primo programma di informazione.

Se la televisione è perfino peggiorata non è solo colpa di Berlusconi e dei suoi «trombettieri» ma di chi avrebbe dovuto contrastarlo e non lo ha contrastato e anche di quelli che scelgono di battersi pensando di essere gli unici a farlo con coerenza. Cavalieri senza macchia e senza paura che vogliono segnare a tutti i costi una differenza dal resto del mondo, che mettono la loro purezza e il senso dell’onore prima della libertà: la legge e le regole prima della libertà, la verità prima della libertà. Mentre leggi e sentenze sono solo lo strumento essenziale per l’ordinato funzionamento della società.

Mi chiedi di mettere riparo agli abusi. Con l’esperienza che ho cercherò di inventare qualcosa per evitare l’uso di argomenti provocatori, le interruzioni ad arte, le offese personali. Quello che non posso prometterti è la verità.

La verità profonda di una persona, che si chiami Travaglio, Berlusconi o Santoro non la stabilisce un programma televisivo, non si raggiunge stilando con attenzione la lista dei buoni e dei cattivi. A quelli che sui vostri blog chiedono di definire una volta per tutte ciò che è vero abbiamo il dovere di rispondere che la verità è sfuggente, contraddittoria. La verità è una conquista faticosa e difficile. Per quanto mi riguarda spesso è un faccia a faccia. Tra me e me.


La riflessione e la critica di Barbara Spinelli (che scrive anche su LaStampa)
Caro direttore,
se questi fossero tempi meno bui – i tempi vagheggiati da Michael Oakeshott per esempio, dove al dibattito si preferisce la conversazione – si potrebbe leggere con una certa delizia lo scambio epistolare fra Michele Santoro e Marco Travaglio apparso nei giorni scorsi sul Fatto.
Ma questi sono tempi bui e certe controversie fra giornalisti non procurano speciale godimento. In tempi bui si urla, e l’urlo mal si concilia col diletto. Lo scambio di lettere è tuttavia benefico, sia per chi fa informazione sia per chi la consuma. Finalmente nasce una discussione sul giornalismo italiano, e il fatto che essa si concentri sui talk-show – e in particolare sul modo in cui il 18 febbraio s’è scatenata un’aggressione personale a Travaglio da parte di Nicola Porro, vicedirettore del Giornale – non cambia l’oggetto in esame: l’avvento dei talk-show, cioè della parola giornalistica tramutata in spettacolo o circo, ha infatti effetti capitali sul giornalismo (scritto o parlato) e sul suo presente disfacimento.

COMPLICITÀ AMICISTICA

Mi sia consentita una premessa: penso che tra i giornalisti non dovrebbe esistere alcun tipo di propedeutica complicità amicistica. L’uso molto italiano di darsi subito del tu fra “colleghi” ha qualcosa di corporativo, di falso, anche di insidioso. È nei collettivi ideologici che scatta, automatico, l’abbraccio del Tu. Così come è incongruo parlare di amor di patria invece che di rispetto, ritengo incongrua l’amicizia preliminare fra colleghi. Amore e amicizia appartengono alla privata sfera delle scelte non obbligatorie, non consanguinee.

Tuttavia il giornalismo è un mestiere che crea una sorta di comunità, specie quando si occupa della politica nazionale e dunque è più vicino al potere: di questo vale la pena conversare. Il rischio è che il giornalista prenda gusto alla contesa politica, fino a identificarsi con la figura stessa del politico. Difficile, a questo punto, che egli ricordi la professione peculiare che esercita, e i doveri primari che ha verso il lettore o lo spettatore. Quel che tenderà a dimenticare è che il suo mestiere è sì animato, come quello del politico, da volontà di potenza e dal “piacere acre della gara” (Eugenio Scalfari lo descrive bene nel nono capitolo del libro L’uomo che non credeva in Dio) ma fondamentalmente è cosa diversa.

Contrariamente a quel che si crede è un’attività più scabrosa, proprio perché il giornalista non si sottopone al vaglio delle urne, non è rispedito a casa a intervalli regolari, e questo non gli dà il prezioso senso del limite, della propria mortalità. La censura, nella migliore delle ipotesi, viene solo dal lettore, che può smettere di comprare un determinato giornale, di guardare un determinato show, di leggere un determinato autore. Ma il vero polso della situazione il giornalista non ce l’ha. Se la censura lo colpisce, chi ha in mano l’accetta non è l’utente (l’unico che paghi quel che vede o legge) ma il padrone: un padrone più che gelatinoso in Italia, in quanto non editore puro ma industriale annodato al potere politico, quando non dipendente da esso.

Pur non dandosi reciprocamente del tu, i giornalisti sono dunque legati da qualcosa. Da cosa, esattamente? In parte dalla consapevolezza di questa diversità di vocazione: praticanti e professionisti del mestiere, tutti dovrebbero sapere che il loro potere è altro dal politico. Non è antagonista – perché l’antagonismo presuppone un comune spazio di contesa – ma semplicemente altro. Al tempo stesso,sono legati da un rapporto molto specifico con i fatti, che vanno rispettati per quel che sono evitando che sfumino in opinioni. È il motivo per cui più volte mi sono chiesta, nel 2009, come mai sia mancata una solidarietà, fra giornalisti, con Repubblica e le sue Dieci Domande.

L’undicesima domanda,non detta,era implicitamente rivolta a noi del mestiere: si possono fare domande al politico, che concernono il suo apparato di potere e più precisamente la sua maniera di creare consenso? L’indipendenza del giornalista non è differente dal potere terzo della magistratura, indispensabile all’ordinamento dei checks and balances senza il quale la democrazia scade in dittatura maggioritaria. Non a caso il giornalismo indipendente è dispositivo centrale nelle democrazie ed è chiamato Quarto Potere. Rivedendo il passaggio di Annozero in cui è andata in scena l’aggressione a Travaglio, quel che mi ha colpito è appunto questo: il giornalista che attaccava non sembrava un giornalista, l’osmosi con le fattezze del politico era totale. Porro non si occupava del tema in discussione (la corruttela della Protezione civile, le responsabilità politiche di Bertolaso), ma del giornalista che su questo tema riferiva e denunciava.

Quest’ultimo riferiva fatti(non ancora suffragati ma pur sempre elencati in ordinanze della magistratura inquirente), mentre Porro sembrava a essi affatto indifferente. Di qui l’impressione di un attacco subdolo, oltre che scorretto. Scorretto perché il giornalista che riassumeva i fatti veniva aggredito come se avesse esposto un’opinione, opinabile come tutte le opinioni. Subdolo perché Travaglio veniva attaccato personalmente, in piena coscienza che quest’ultimo non poteva improvvisamente dirottare la trasmissione e scagionarsi di fronte al pubblico (lo ha già fatto a suo tempo su Repubblica e sul suo blog). Siamo in campagna elettorale (son 16 anni che dura:quasi una generazione) e quel che lo spettatore ha visto è l’azzannarsi tra due professionisti dell’informazione: giacché questo avviene, quando il giornalista abbandona il rapporto con i fatti e, durante una competizione elettorale, entra anch’egli in campagna.

Se così stanno le cose, non conta quello che viene riferito sull’indagata Protezione civile. Non conta nemmeno la domanda posta nel corso di Annozero dal direttore di Libero Maurizio Belpietro (forse è stato teso un agguato a Bertolaso?). Altre cose contano, in trasmissioni del genere (Annozero, Ballarò, Porta a Porta): d’un tratto dall’ombra esce un missile, e tira fuori il presunto affaire delle frequentazioni di Travaglio. Un’affaire su cui è stata fatta chiarezza, ma che serve a disorientare lo spettatore-elettore. Che vuole, un giornalista come Porro? Non il Pulitzer evidentemente, perché nessun vincitore di simili premi (da Art Buchwald a Maureen Dowd, da James Risen o Anthony Lewis) passerebbe il tempo denigrando un altro giornalista. Vuol dimostrare a una parte politica di essere suo fedele palafreniere e propagandista .

NOIA E ZAPPING

Per far ciò ha stravolto il mestiere. Un mestiere che il più grande maestro di tutti noi scrivani di giornali, Walter Lippmann, ci ha insegnato fin dall’inizio del secolo scorso. La libertà, così scrisse a quel tempo, non è quella di rendere il giornalista responsabile verso l’opinione sociale prevalente: «Più importante di tutto il resto è rendere l’opinione sempre più responsabile verso i fatti». E ancora: «Non esiste libertà in una comunità cui manchi l’informazione attraverso la quale può scoprire e smascherare la menzogna». Non solo: veramente in gioco non è in fondo la libertà di opinione, e il male non consiste tanto nel sopprimere una particolare idea. “Quel che è davvero mortale è sopprimere le notizie (news)” (Lippmann, Liberty and the News, 1920). Per questo è così bello il motto della Bbc: Put the news first, in primo piano metti le notizie, i fatti, i testimoni. Porro cade nel mortale tranello. Non diversamente dall’imprenditore Berlusconi, scende anche lui in campo, annebbiando le frontiere tra arti e tra mestieri.

Scrive Santoro a Travaglio che l’intero suo “gioco” ha un obiettivo: non diventare «noioso», altrimenti «il pubblico più infedele cambia canale». Non prendersela con le aggressioni ma rispondere con l’ironia, sapendo che una trasmissione di successo non è fatta solo di fan. Sul set ha detto: «Ogni volta che volete insultare Travaglio insultate me, perché a me non me ne frega niente». Certo ogni trasmissione corre il rischio che il pubblico annoiato da monotonie cambi canale.

Ma corre anche il rischio che il canale lo cambi proprio perché il programma di Santoro è un ring che “mette in gioco non solo nozioni ma emozioni, (...) passioni anche viscerali”. Anch’egli, a suo modo, non distingue tra opinioni e notizie, e quando parla di fan – in questo è simile a Vespa – non sembra intendere i fan delle news. C’è infine nella lettera un passaggio sul quale dissento profondamente: è vero, una trasmissione non può farsi paladina di una sola verità, deve sempre strusciarsi contro idee contrarie, senza «stilare la lista dei buoni e dei cattivi”. Ma quel che è falso, quel che fa male e fa soffrire, non è un’opinione bensì un fatto, e il fatto a differenza dell’opinione non puoi relativizzarlo.

È Popper a insegnarlo, che esecrava le verità assolutizzate. A mio parere, questo dovrebbe guidare il giornalista: non la ricerca dell’idea vera – queste verità sì che sono sfuggenti, come afferma Santoro – ma l’individuazione del male concreto, fattuale, che può scaturire dalle contro-verità. Difficilmente confutabili, mali di tal genere non sono sfuggenti. Ovvio che in nessun paese democratico il giornalismo è perfetto. Ma in Italia è singolarmente imperfetto. Senza una informazione indipendente, connessa ai fatti e ai loro testimoni, non esiste funzionamento democratico, e l’aggressione che essa subisce è uno dei punti che maggiormente definisce la non-democrazia di Berlusconi.

Alterare l’informazione prendendo possesso dei media vuol dire disinformare metodicamente i cittadini, che voteranno senza sapere per chi votano e per cosa. Il vero attacco alla sovranità del popolo, sbandierata dal presidente del Consiglio, è qui.

LEZIONE AMERICANA

Prendiamo l’esperienza degli Stati Uniti. Il giornalismo americano, nei primi anni delle guerre di Bush jr, commise errori enormi, di infedeltà ai fatti e di fedeltà al potere politico. I reporter detti embedded dormivano nello stesso letto dei potenti. Ma poi è venuta l’ora della presa di coscienza, dell’ammenda anche se non confessata. I giornalisti hanno scoperto che il loro essere embedded li aveva allontanati dalla realtà. Che importanti verità fattuali, dette agli esordi da giornalisti come Seymour Hersch o testimoni come Hans Blix, non erano state ascoltate.

Certo può capitare di sbagliarsi, a Travaglio come a Hersch e a tanti altri giornalisti d’investigazione. Penso anche che in Annozero, Travaglio abbia goduto di un diritto che tutti dovrebbero avere ma non hanno: quello di dire i suoi testi senza essere interrotto. Il modo in cui oltre alle sue indagini minuziose paga anche questo diritto (dovuto a indubbio talento) non è per questo meno scandaloso, ed è sintomatico di un giornalismo in crisi degenerativa. In America, la presa di coscienza è avvenuta durante l’uragano Katrina, nel 2005, ed è stata un ciclone anch’essa, che ha messo in luce l’inettitudine, lo sprezzo della povera gente (soprattutto nera), l’arroganza-corruzione del governo e della sua Protezione civile (la Fema, ovvero Agenzia federale per il Management dell’Emergenza).

Per il giornalismo americano, è stata un’ora grande di verità, di introspezione, e di ripresa. Spero che quel momento venga anche in Italia. Che scopriremo anche noi le parole di Joseph Pulitzer: «Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema».

Vorrei essere un delfino...


Sinceramente non so quale di queste due notizie mi lascia più perplesso:

Il delfino "persona non umana"o
Italiani "persone non delfine"

Improvvisamente... vorrei essere un delfino!

domenica 28 febbraio 2010

The Cross, or not the Cross: that is the question...



Quando ci appare qualcosa di completamente nuovo noi lo rileggiamo a partire dal “vecchio” che abbiamo vissuto: questo è normale. Però in questo modo il nostro sguardo verso il futuro rischia continuamente di essere una ripetizione degli schemi del passato. Anche Gesù era troppo “nuovo” perché noi riuscissimo a comprenderlo e chi lo incontrava non poteva che ricomprenderlo a partire dal proprio vissuto.

Chi sono io per la gente e per voi, chiede Gesù solo qualche riga prima di questo Vangelo. E la risposta è catastrofica: Un profeta come ne abbiamo già avuto, il più grande forse, ma comunque una riedizione rinnovata del vecchio sistema… È quasi un insulto: Non credere di essere chissà chi! «Chi ti credi di essere?» lo usiamo spesso anche noi per ridurre l’altro alla nostra misura…

Lo sconcerto di Gesù non è nemmeno diminuito davanti alla sorprendente dichiarazione di Pietro che evidentemente ha proprio l’abitudine di dire cose che non capisce: tu sei il figlio di Dio… Qui mi sembra di vederlo Gesù: bocca aperta, occhi sgranati di stupore e gridare di gioia: Finalmente qualcuno che mi capisce!… ma l’illusione dura poco, giusto il tempo di spiegare il senso del suo essere figlio di cotanto Padre… che il Dio di Pietro non si rivela più quello di Gesù e quindi neanche Gesù non è più il figlio di questo Padre… il Dio di Pietro non è quello di Gesù, non ancora! Il Dio di Pietro non è ancora un Padre che condivide le sorti dei suoi figli, è un Dio “nobile” il suo, dal sangue blu, signorotto del villaggio terrestre che nella sua paradisiaca residenza cerca di organizzare al meglio la stalla dei suoi mezzadri… Il suo è un Dio che non si immischia più di tanto con la feccia umana. E suo figlio – secondo i vari Pietro della storia difensori di un Dio che non esiste – non può essere da meno di un damerino, signorino figlio del padrone: ci visita, ma senza incontrarci, al massimo ci stringe la mano con le sue mani lisce e ben curate e i suo vestiti troppo puliti per essere nostri e ci dà una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento: è l’idea e il comportamento dello schiavo, non di chi si considera fratello del Figlio del Padre… E così subito l’amico discepolo pone le basi del suo futuro tradimento: non sia mai che il figlio di Dio debba morire in croce!

Che cosa gli restava da fare al povero Gesù? Andare a consultare Colui che l’aveva inviato tra persone tanto testarde quanto chiuse nei propri schemi, incapaci di immaginare una libertà diversa dalla propria schiavitù…
Non gli restava che “elevarsi” su un monte portandosi appresso “il problema”: quei discepoli che si facevano sempre più zavorra per la sua missione. E provare a pregare… a incontrare quel Dio che secondo i suoi amici non poteva permettere che lui, suo figlio, morisse di una morte tanto infamante. Al massimo morire su un bel letto attorniato da amici e dalla stima trasformata in lacrime di persone che ti amano… Ma sulla croce?! Non è degna di un uomo, figurarsi se poteva esserlo per un Dio!

Ecco il problema di fondo! Al centro delle letture di oggi: Croce o non croce? (Esodo, Gerusalemme…). Non semplicemente «morte o vita», «essere o non essere»: Shakespeare ha torto, non è questa la vera domanda!

Questo è il problema della nostra vita: non se morire o non morire, in quanto morire dobbiamo tutti morire. Ma ecco! la domanda vera che continuamente rimuoviamo diventa: «di che morte voglio morire?». Questa è la domanda che noi censuriamo che è la vera risposta possibile all’altra che usiamo come paravento alla nostra sete di potere: «che vita vogliamo vivere?». Ovviamente quella di un Dio!… peccato che Dio nel frattempo abbia cambiato casacca e casato…

Ma la risposta alla domanda oramai non più censurata - «di che morte vuoi morire?» - non è risolvibile con una risposta verbale… ma con un camminare nella storia alla ricerca di qualcuno per cui morire.

Non “morire per qualcuno per cui valga la pena morire”: non esiste!… non “morire per qualcuno che si meriti la mia morte”: non esiste!… Se aspettava di trovarlo Gesù sarebbe ancora in giro a cercarlo… e noi con lui! La morte di cui vorrei morire è la morte che ti possa “servire”…

La fede allora, è questo camminare nella storia alla ricerca di qualcuno per cui morire. E questo è anche l’amore! E questo determina il mio modo di vivere e questo dà le ragioni del mio vivere! Del mio vivere con/in te!

Il senso della vita sta nel non buttare via la propria morte, ma di renderla utile, significativa, efficace per qualcuno al quale il mio morire non sia indifferente: per diventare testimoni del morire per te! Vivere così è vivere da “trasfigurati” (qui), da “rinati dall’alto” (Gesù a Nicodemo)… Destinati alla resurrezione che si attua alla consumazione nella croce!

Fare una tenda, per godersi il bello della vita, come Pietro vorrebbe, senza sapere ancora una volta che cosa cerca, vuol dire proprio buttare via la vita stoppandone il cammino. Ma in questo modo si ha una sola certezza, quella di sprecare la propria morte e con essa la propria vita!

sabato 27 febbraio 2010

La Storia? Siamo noi!

Chi è causa del suo mal...Ho ricevuto questa email... ve la rigiro: fa riflettere!

«Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo.
Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?
Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e tornaconto personale.
La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie sempre il tornaconto.
Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.
Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della gente e causa del suo stile enfatico e impudico.
In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.

Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile, e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole rappresentare».

Elsa Morante, Opere, vol. I, Mondadori (Meridiani), Milano 1988, L-LII.

Qualunque cosa abbiate pensato, il testo è del 1945 e si riferisce a Mussolini...

La paura

In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa – come di consueto – ci invita a riflettere sul brano della Trasfigurazione; quest’anno secondo l’evangelista Luca.

«Nel vangelo di Luca (come pure in quello di Matteo e Marco) il racconto della trasfigurazione è inquadrato in un contesto preciso e significativo. Non soltanto, è preceduto dalla confessione di Pietro, dal primo annuncio della passione e dalle istruzioni di Gesù sulla via Crucis del discepolo stesso, ma è anche seguito dalla guarigione del fanciullo epilettico e dal secondo annuncio di passione. Dunque, la trasfigurazione è raccontata in un contesto dominato dal tema della Croce.
I tratti del racconto (vocabolario, immagini, riferimenti alle Scritture) dicono chiaramente che esso appartiene al genere “epifanico-apocalittico”: vuole cioè essere una rivelazione rivolta ai discepoli, rivelazione che ha come oggetto il significato profondo e nascosto della persona di Gesù e della sua opera. Questo significato profondo e nascosto della persona e dell’opera di Cristo ci viene comunicato, da una parte, mediante riferimenti all’Antico Testamento (Mosè ed Elia e – più impliciti ma ugualmente presenti – i riferimenti al Figlio dell’uomo di Daniele e al Servo di JWHW di Isaia) e, dall’altra, mediante riferimenti a due episodi della vita di Gesù: il battesimo (con il quale il nostro racconto ha indubbiamente diverse analogie) e i racconti pasquali (con i quali ha pure una innegabile parentela di vocabolario e di immagini).
I due rilievi fatti sono comuni a tutta la tradizione sinottica. Ma su questa tradizione comune Luca ha introdotto due importanti modifiche: l’accenno alla preghiera di Gesù (“Salì sulla montagna a pregare. E mentre pregava…”); e l’esplicitazione del contenuto del colloquio che si svolge fra Mosè, Elia e Gesù: “Parlavano del trapasso (esodo) che egli doveva compiere a Gerusalemme”».


[B.MAGGIONI, il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, 186-187]

Siamo dunque di fronte ad una scena di rivelazione: una scena per molti aspetti simile a quella descritta dalla prima lettura (Gn 15,5-12.17-18), quando Abram è testimone del patto che il Signore stipula con lui «quando, tramontato il sole» passò «un braciere fumante e una fiaccola ardente in mezzo agli animali divisi».
Ciò che immediatamente fa da rimando tra le due letture, è l’atteggiamento, da un lato di Abram e dall’altro di Pietro, Giacomo e Giovanni. Del primo si dice infatti che «Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono»; degli altri, similmente che «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno» e che «All’entrare nella nube, ebbero paura».
Dunque il sonno e la paura come sentimenti ricorrenti dell’uomo di fronte al Signore che si rivela, che si mostra, che si fa conoscere.

Se da un lato questa reazione umana ci sembra istintivamente normale (quella che probabilmente anche noi avremmo/abbiamo o che immagineremmo/immaginiamo), perché di fronte a Dio è ovvio “non reggere il confronto” (sia fisicamente: sonno; che emotivamente: paura); dall’altro però, tale reazione, non può non risultare un po’ eterogenea rispetto a ciò che di fatto è il contenuto di quella rivelazione: di fronte a Gesù (che con Mosè ed Elia durante la trasfigurazione parla della sua croce!), al Dio Padre di tutti che Egli ha rivelato, è ancora così normale avere paura?
“Ovviamente no”, la risposta dovrebbe essere questa… eppure essa risuona così anaffettiva, privata della sua drammaticità, quasi stoicamente falsa, se detta un po’ troppo in fretta, se arriva subito a sciogliere l’impasse, se non fa la fatica di stare a bagno maria nelle angosce ataviche o ingenerate che abitano il cuore dell’uomo.
A me pare che il rapporto fiducia/paura, affidamento/angoscia, sia spesso sciolto – da alcuni – un po’ troppo celermente in grandi proclami della fede: “Il cristiano è colui che non ha paura, perché ha riposto la sua fiducia nel Signore!”, “Bisogna avere paura di quelli che hanno paura”, “Chi teme non crede!”, ecc… ecc… ecc…
Perché:
- se è vero – e molte volte noi stessi l’abbiamo ribadito (cfr. la riproposizione delle citazioni di Sequeri, da Il timore di Dio) – che va scardinato senza esitazioni dal nostro cuore il dubbio diabolico (divisorio) del serpente che proponeva un volto di Dio contraffatto (un dio ambiguo, geloso dell’uomo; dal quale l’uomo può aspettarsi tanto il bene quanto il male, ecc…), un dio di cui avere paura perché apre «lo spazio dell’incredulità: [...] il sospetto cioè che il comandamento invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione»;
- se è vero che questa paura dell’arbitrio di Dio, per la quale si teme che «dietro un volto apparentemente buono e promettente, Egli ne celi forse uno inquietante e minaccioso», va scardinata precisamente in nome di Gesù, che per tutta la vita non ha fatto altro che «attivare un processo di interno confronto fra l’immagine dell’abbà e la rappresentazione faraonica di Dio coltivata nel fondo della nostra coscienza» ribadendo incontrovertibilmente come «prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano»;
- se è vero che l’esercizio della fede di una vita consiste nel «togliere ogni ombra di dominio e di assoggettamento alla relazione che caratterizza Dio», per cui «neppure a fin di bene Dio esercita la propria potenza», e nel realizzare che «nella concretezza del rapporto instaurato con Dio non v’è alcuno spazio per l’ipotesi formulata dal serpente» e che «lo spazio dell’incredulità, sin dall’inizio, si apre [solo] nell’immaginazione [e mai] nell’esperienza»;
- è altrettanto vero che tutto questo non può mai diventare puro oggetto di insegnamento intellettuale, preteso auto o etero convincimento volontaristico, nominalistico discrimine tra “chi è dei nostri e chi non lo è”.
Tutte queste riduzioni della drammatica del vivere umano portano un cattivissimo servizio alla costruzione del Regno di Dio, perché saltano precisamente ciò che Gesù aveva posto a fondamento di tutto il suo essere e agire e parlare e vivere e morire: l’in-carnazione, lo strettissimo tenersi alla carne, la sua insuperabilità.
In questo senso la paura di morire, che è l’altra faccia della medaglia della paura di vivere, della paura di Dio, della paura di essere se stessi (ecc… ecc… ecc…) e che radicalmente racchiude non un dubbio intellettualistico su cosa ci sarà dopo la morte, sulla reale esistenza di Dio e di un Dio così, sulla sensatezza del faticare quotidiano (ecc… ecc… ecc…), ma le più tremende e penose angosce in cui ci dibattiamo nei nostri letti, sotto i nostri tavoli, negli angoli delle nostre pareti, sul ciglio delle strade, o sull’orlo dei precipizi, non si può “sanare” nell’estrinsecismo del sistema-scuola, nell’illusoria organizzazione dei tempi familiari, nell’asettica proposta catechetica delle nostre parrocchie, nell’interrogatorio moralistico di certi confessionali, nel fasullo mondo della trasgressione (comunque intesa), ma solo nella coraggiosa e solidale (bisogna essere almeno in due: «li inviò a due a due», Lc 10,1) discesa nei nostri inferi, senza paura di aver paura, perché l’avremo. Ma solo passando di lì, dentro a quella paura lì, dentro a quella angoscia lì, non saltata, ma incarnata, smetteremo di fronte ai nostri drammi e a quelli degli uomini del nostro tempo, di fare la figura di Pietro che «non sapeva quello che diceva». Non a caso infatti Gesù, diversamente, sa sempre cosa dire e cosa dice: lui infatti nella fornace ardente della trasfigurazione, ha guardato in faccia il suo inferno, il suo esodo. E l’ha fatto non da solo! Perché la paura è questione di pancia non di testa e si cura solo con le coccole, non coi discorsi: «Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!».

venerdì 26 febbraio 2010

L'Apocalisse italiana

Sembra che qualcuno dopo la condanna per corruzione del signor (si fa per dire) Mills, stia gridando alla persecuzione e giochi a fare la vittima.

Modestamente, se le parole (pronunciate e scritte) hanno ancora un senso, ben altri sono i perseguitati: l'uomo e la donna italiani che ancora credono nel lavoro onesto e nella giustizia sociale! La vittima sei tu che leggendomi speri ancora in un cambiamento per una vera giustizia per tutti. Mentre ancora una volta dopo aver messo le mani sul "rapace" quel poco che ancora resta di una giustizia istituzionale se lo vede sfuggire per una legge ingiusta approvata da parlamentari che venendo meno alla loro missione per il "bene comune" dichiarano prescritti reati che non dovrebbero esserlo mai!

Perché non dovrebbero esserlo mai? Perché il danno che la società riceve dalla corruzione è peggiore di qualunque catastrove naturale e sociale: peggio di una bomba atomica, la corruzione inquina in modo permanente ogni dimensione del bene comune, prolungandone gli effetti nei secoli per generazioni e generazioni.

Il risultato di un clima di corruzione è sotto gli occhi di tutti: perdita della coesione sociale, rapporti umani inquinati dal sospetto, sfaldamento di una nazione che si ritenga tale in quanto fondata sul patto sociale della reciproca fiducia. E c'è anche chi spaventato da tanto cancro sociale fa come lo struzzo e grida alla magistratura di non "destabilizzare il sistema": facendo finta di non accorgersi che il sistema - con questa corruzione diffusa - è già destabilizzato e ci sta destabilizzando: se qualcuno non la ferma, la fine si fa prossima.

Infatti ciò che fino a ieri erano semplici metafore, sono oggi concrete realtà fisicamente riscontrabili... Dal Lambro alla Sicilia! Mattone dopo mattone, l'Italia a tutti i livelli ci sta "franando" addosso!

Se non ci convertiamo in fretta, da questa Quaresima, prima o poi, inevitabilmente faremo la fine dei topi siciliani e dei pesci e uccelli lombardi... E non è detto che sopravviveremo fino alla prossima! Credere di potersi "salvare" è pura illusione e colpevole incoscienza...

Ora visto che nessuno può decidere al posto di altri... la domanda diventa, parafrasando il Vangelo di oggi: "cosa posso fare io concretamente per cambiare giustizia?"

Si accettano proposte concrete...

lunedì 22 febbraio 2010

Domanda Cubica! (per risolvere un'affermazione a tre incognite)...


Corriere della Sera di oggi, Bertolaso: «…gli italiani mi credono e mi rispettano perché sanno che io poi quegli impegni li mantengo…»

(Quali?)3

domenica 21 febbraio 2010

Casi isolati...

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'Mazza oh! quanti casi isolati!

sabato 20 febbraio 2010

La bellezza ci renderà liberi

Qui potete scaricare il programma di Radio1 ideato e condotto da Francesca Barra. Ogni puntata contiene una storia legata ad organizzazioni criminali che appartengono alla memoria comune, o il racconto di casi di cronaca di stretta attualità.di Carlo Lucarelli su l'Unità

Vorrei segnalare un programma radiofonico che va in onda su Radio1. L’ho scoperto qualche tempo fa, per caso - disattenzione mia - mentre ascoltavo la radio in macchina. Quando si guida con la radio accesa succede così, la musica e le parole a volte svaniscono sotto il rumore del motore, dei pensieri e della guida, per riaffiorare all’improvviso e farsi sentire di nuovo.
Così ad un certo punto sento parlare di mafia, con serietà e intensità, e già mi stupisce che se ne parli, a quell’ora poi, tarda mattinata. A colpirmi, soprattutto, sono i riferimenti a due parole che risuonano spesso nel programma: una è bellezza, e l’altra è cultura.
Così capisco che la voce femminile che conduce il programma - si chiama Francesca Barra - mi sta raccontando attraverso storie e interviste di come si possano usare la bellezza e la cultura contro le mafie. Anzi, come si debbano usare. Che è un’idea giusta, che condivido in pieno assieme a tanti altri che la pensano così, altri autori, altri scrittori o altri artisti che si stanno dando da fare: che la lotta alle mafie sia certo un problema militare, politico ed economico, ma anche culturale, perché sono anche cultura e bellezza che ti fanno venir voglia di vivere libero e felice in un mondo normale invece di sopravvivere male per morire comunque di violenza, meschinità e sottosviluppo in un mondo mafioso.
La condividono anche i mafiosi questa idea della pericolosità di bellezza e cultura. E ne hanno paura. La prova? I ventitrè proiettili trovati davanti a un teatro di Milano dove Giulio Cavalli (di cui ho già parlato altre volte e ancora lo farò finché sarà costretto a vivere - lui, un attore - sotto scorta) doveva tenere uno dei suoi spettacoli, che è stato sospeso. È così. La bellezza e la cultura, alle mafie, fanno paura.

venerdì 19 febbraio 2010

Il diavolo siamo noi, quando dentro ci dividiamo da Dio

In questa prima domenica di Quaresima, la Chiesa – come di consueto – ci invita a riflettere sul brano delle cosiddette “tentazioni nel deserto”; quest’anno secondo l’evangelista Luca. Questo ci costringe – rispetto alla lettura corsiva del vangelo di Luca che stavamo conducendo durante le settimane del Tempo Ordinario – a fare un passo indietro: eravamo infatti giunti a leggere e meditare il sesto capitolo di questo vangelo, mentre il brano odierno è collocato da Luca al capitolo 4. Esso, precisamente, sta dopo i primi 2 capitoli dedicati all’infanzia, e il terzo, in cui è presentato il battesimo di Gesù e la sua genealogia, ed immediatamente prima dell’inizio vero e proprio del ministero pubblico di Gesù, che – come dicevamo qualche settimana fa (terza domenica del Tempo Ordinario) – Luca colloca a Nazaret.
Questo quarto capitolo si apre con la comparsa sulla scena di due personaggi inaspettati: uno già presentato in precedenza, uno che appare qui per la prima volta: si tratta dello Spirito Santo e del diavolo. Il primo era già comparso durante la scena del battesimo («Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba», Lc 3,21-22): ciò che qui appare come inatteso è il fatto che sia precisamente lui a guidare Gesù nel deserto.
La prima sorpresa dunque è quella per cui – a differenza di quanto a volte trasmette il sentire popolare – Gesù non si imbatte casualmente nelle tentazioni, non finisce nel deserto spinto dal diavolo, ma in qualche modo – nel suo dialogo personale col Padre, che è lo Spirito – sceglie di andarci, sceglie di mettersi in una situazione di assoluta nudità di fronte a Dio e a se stesso e dunque in una condizione fragile, attaccabile, denudata appunto.
Ma perché Gesù sceglie di andarci? Di correre questo rischio? Alla ricerca di cosa? Se non sapessimo che è il Figlio di Dio diremmo: è un uomo che sta per iniziare un esporsi a livello pubblico, è un uomo che ha appena fatto un’esperienza forte e non del tutto comprensibile come quella del battesimo al Giordano, dell’entusiasmo del Battista, della voce che parlava dal cielo… probabilmente vuole fermarsi un momento per riflettere bene su chi lui sia e voglia essere, su quale sia la sua identità e la sua missione, il suo desiderio e il modo di perseguirlo…
Diremmo così, se non fosse il Figlio di Dio… Ma, visto che è il Figlio di Dio, si può ancora dire che nel deserto ci va alla ricerca di se stesso e di Dio, della sua identità e di quella di Colui dal quale si sente mandato? Non dovrebbe già sapere tutto, vedere tutto, non avere nessun dubbio?

Evidentemente le domande sono retoriche, perché nascondono un falso modo di intendere l’identità del Figlio di Dio, un’identità che perde il dogma cristologico fondamentale, quello della piena umanità insieme alla piena divinità. Quanto perciò avremmo detto se non avessimo saputo che Gesù è il Figlio di Dio, va detto comunque; anzi è la condizione che rivela se abbiamo capito davvero cosa vuol dire “essere Figlio di Dio” per Gesù, che non a caso è un concetto che si riempie di significato solo dopo che abbiamo percorso l’avventura umana di Gesù e non prima! Cosa voglia dire “Figlio di Dio” infatti non lo si sa a priori, prima che Gesù viva la sua storia – come se gli fosse stato attribuito questo titolo perché la sua vita coincideva con l’idea preconcetta che si aveva su come dovesse essere un “Figlio di Dio” – ma a posteriori: cioè – vedendo quella vita – si è detto: “Questi è il Figlio di Dio!” (cfr. «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”»Mc 15,39).
Gesù dunque, il Figlio di Dio, va nel deserto per mettersi a nudo di fronte a se stesso e di fronte a Dio, perché – come ogni figlio di uomo su questa terra che cresce – ha il problema dell’identità (Chi sono?) e della libertà (Chi voglio essere?).
Lì, incontra il secondo personaggio misterioso presentato dal primo versetto di Lc 4: il diavolo.
L’etimologia del suo nome, forse può aiutarci a inquadrarlo almeno un po’: dia-ballo letteralmente vuol dire gettare in mezzo / attraverso; diavolo vuol allora dire divisore, colui che divide. In questo senso il diavolo di cui parla Luca non è il personaggio folcloristico con le corna e la coda che spesso associamo a questo nome: quel diavolo – semplicemente – non esiste; è solo la visibilizzazione, la personificazione di ciò che è male. Chi ha incontrato allora Gesù nel deserto? Non un personaggio in carne ed ossa, bensì dentro se stesso la possibilità del male, la possibilità di attaccare il cuore a qualcosa che non fosse l’amore del Padre, la possibilità di scegliere di dar retta ad altro rispetto al progetto del Padre. Il dare una fisionomia a quest’esperienza è solo strumento letterario per poterla raccontare, per poter raccontare dell’esistenza del male, dell’esperienza del suo starci fronte e penetrarci fin nelle midolla. È nel nucleo più intimo di noi stessi infatti che si dà questo incontro, non fuori, nel buio, al cimitero o chissà dove. Il diavolo è l’esperienza della possibilità che la divisione da Dio, dagli altri, da noi stessi si annidi nelle profondità più intime di noi stessi. Questo è il male.
E questa è l’esperienza di Gesù, stigmatizzata – perché possa essere verbalizzata – come se fosse un’esperienza con dei confini precisi (40 giorni, il deserto…), ma che in realtà accompagna l’esistenza tutta di Gesù, come non a caso lascia intendere Luca, quando conclude il brano con l’espressione: «il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato». «Dunque la prova non è un episodio chiuso, ma aperto. È previsto un tempo in cui Satana ritornerà. La prova si riproporrà nella vita di Gesù e, più tardi, nella vita della comunità dei discepoli. In un certo senso, tutta la vita di Gesù fu accompagnata dalla prova […]. Una prova insistente, proveniente da varie parti (da Satana, da scribi e farisei, dalla gente) e tuttavia sempre uguale nel contenuto: il tentativo, cioè, di distogliere Gesù dalla fiducia nella parola di Dio e indurlo a percorrere strade umanamente più promettenti» [B.MAGGIONI, il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, 94-95].
Dunque Gesù nel deserto e poi in tutta la sua vita, ha a che fare con la tentazione del male: come mostra bene il racconto evangelico non si deve intendere questo come se il problema riguardasse i peccati che Gesù potrebbe commettere; in gioco non c’è se Gesù ha detto una parolaccia, ha risposto male a qualcuno o è stato con una donna; non si tratta dei peccati al plurale; ma del male radicalmente inteso, del peccato al singolare, che biblicamente parlando è sempre e solo la lontananza da Dio e dal suo progetto (quello che Gesù chiamava Regno).
Ma, forse, dire così ancora non basta… rischieremmo infatti di pensare a un Dio che considera male ciò che non è conforme al suo pensiero: un Dio un po’ egocentrico, diremmo… Ma dicendo così – ancora una volta – mostriamo di dimenticare di che Dio stiamo parlando e di riempire questa categoria linguistica con i significati che gli diamo noi e non con quelli che emergono dalla sua auto-Rivelazione. Perché è logico che se pensiamo a un dio alla maniera umana, come se fosse uno come noi, rimarremmo subito risentiti e irrigiditi nel sentirci dire che il male è allontanarsi da Lui e dal suo progetto, dal suo Regno. Immediatamente infatti ci verrebbe da pensare: “Siamo capaci di stare in piedi da soli”; “Non ci vorrà mica togliere la libertà di decidere?”; “Chi è per dirci cosa è bene e cosa è male?”.
Ma se proviamo a mettere da parte tutti i preconcetti su Dio e a stare a ciò che dice il vangelo, vedremmo che Lui e il suo progetto non sono mai autoreferenziali come i nostri, o oscuri in alcuni aspetti, vantaggiosi per certi lati, ambigui in altri, ecc… Ma che inequivocabilmente la sua posizione di fronte all’uomo è quella dell’essere dalla sua parte, dalla parte della sua Vita, della sua riuscita, della sua umanizzazione, della sua felicità: il Regno di Dio sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, vite imprigionate che si liberano, persone povere a cui è annunciata una lieta notizia, ecc… Questo e solo questo è il progetto di Dio.
A questo il divisore interiore (il diavolo) – che poi siamo noi stessi – invita a sottrarsi; da questo progetto suggerisce di dividersi; da questo Dio; confondendo l’uomo con illusorie salvezze, illusorie felicità, illusorie gratificazioni… Per questo è spesso stato associato all’idea della falsità: perché nessuna persona che avesse lucidamente in testa e in cuore chi sia Dio e chi Egli sia per l’uomo si lascerebbe abbindolare dalle mezze verità del diavolo; egli invece ci riesce perché continuamente confonde l’immagine vera del volto di Dio. Non a caso tutte le tentazioni che subisce Gesù fanno riferimento a una falsificazione delle intenzioni di Dio, della sua identità, della sua volontà: addirittura il diavolo fa questo lavoro citando la Bibbia!
E per questo il diavolo è spesso stato associato all’idea della morte: perché lasciarsi convincere da lui, vuol dire davvero andare incontro alla propria morte, sottrarsi cioè a Dio e al suo progetto, che – come dicevamo – coincide precisamente e solo con la Vita dell’uomo.
Questo discorso, se da un lato ci libera da ingenue paure su mostri o simili che costellano la nostra immaginazione, dall’altro permette di provare a riflettere un po’ più seriemente sul problema del male e del suo insinuarsi nel nostro animo: come dicevamo infatti il problema non è quello dei peccati (al plurale), ma quello dell’orientamento interiore di fronte al Dio di Gesù e al suo progetto di Vita per l’uomo, per ciascun uomo. In questo senso, potremmo chiederci: In chi io ripongo la mia fiducia? A chi dò retta quando devo decidere e non so cosa decidere? Le mie reazioni non programmate (quelle che inevitabilmente si hanno di fronte a situazioni inaspettate) rivelano il mio essere per la Vita o per la sopravvivenza? Cos’è che mi determina? La paura della morte o la fiducia nella vita?
Perché il diavolo molto più che a un gigante con le corna, assomiglia a quell’angoscia che ci si insinua dentro quando ci fermiamo a pensare che prima o poi moriremo… e che forse resteremo nella tomba… e che nessuno – al di là delle belle parole dei preti – verrà a tirarci fuori… e dunque la nostra vita ha proprio poco senso… che forse non val la pena impegnarsi per essere un uomo migliore, per costruire un mondo migliore… il diavolo, in altre parole, siamo noi quando ci diciamo e ci convinciamo che non è possibile Vivere, che non è possibile amare, che non è possibile guardare fraternamente ad ogni uomo...
Gesù – dentro a questa dinamica – è chi non ha ceduto a questa insinuazione e ha continuato a credere anche quando tutto e tutti sembravano dire il contrario che era possibile sempre credere nella Vita, abbandonarsi fiduciosamente ad essa, consegnarsi ad essa, amando chi lo tradiva, perdonando chi lo crocifiggeva, mantenendo il cuore pulito di fronte a chi gli faceva del male, in modo da poterlo poi riaccogliere e fargli trovare – nel proprio spazio interiore – una casa anche a lui…

venerdì 12 febbraio 2010

Beato te, incompiuto

In questa sesta domenica del tempo ordinario, l’ultima prima che inizi la Quaresima, la Chiesa ci invita a riflettere su uno dei brani più famosi, ma più difficili del vangelo di Luca: quello delle beatitudini. Famoso, perché tutti sanno che Gesù ha proclamato delle beatitudini; difficile, perché la sua interpretazione non pare essere così immediata come a volte si preferisce credere…
Per tentare di delinearne una possibile comprensione, cerchiamo allora innanzitutto di collocarlo all’interno dell’organizzazione che Luca – scrivendo il suo vangelo – dà al materiale che ha a disposizione. Siamo all’interno del capitolo 6. Dopo i primi 2 capitoli – dedicati all’infanzia di Gesù (che dovremmo avere nelle orecchie perché sono quelli che abbiamo meditato nel tempo natalizio appena trascorso) – e dopo il cosiddetto “trittico sinottico” (battesimo di Giovanni Battista, battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto) che occupa i capitoli 3,1-4,12, Gesù torna nella sua regione, la Galilea e lì inizia il suo ministero pubblico. Prima di questo nostro capitolo 6, sono quindi già avvenuti diversi episodi importanti della vita di Gesù, alcuni dei quali (ma non tutti!) ripresi dalle letture delle domeniche passate: insegna nelle sinagoghe, suscitando lo stupore e l’ammirazione di molta gente; vive l’esperienza negativa della predicazione a Nazaret, dove pronuncia la famosa frase «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria»; guarisce molti malati e scaccia i demoni; inizia a suscitare scandalo, guadagnandosi l’antipatia degli scribi e dei farisei per l’autorità e la libertà con cui interpreta la legge di Israele – in particolare le norme sul sabato e sul digiuno; mostra di avere un rapporto personale ed intensissimo col Padre – si ritira a pregare, è accompagnato dalla «potenza dello Spirito Santo»; chiama i discepoli.
In particolare questi due ultimi momenti, sono quelli che significativamente precedono in maniera immediata il discorso che Gesù fa alle folle e nel quale sono contenuti i versetti di cui ci occupiamo noi oggi:
- v. 12: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio»;
- vv. 13-16: «Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore». Gesù dunque proclama le beatitudini dopo aver pregato tutta la notte e aver chiamato a sé i Dodici.
Precisamente a questo punto (v. 17), inizia infatti il cosiddetto “discorso della pianura” – chiamato così per sottolineare la differenza del passo parallelo di Matteo che colloca invece il discorso sulla montagna (il famoso “discorso della montagna”), per richiamare l’esperienza di Mosè che ricevette le tavole della legge sul monte Sinai: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva» (Lc 6,17-20).

Prima però di approfondire il cosa diceva Gesù, è forse utile soffermarsi un momento sui suoi interlocutori, su coloro ai quali diceva; perché, se è vero che è il contenuto che fa il discorso, è anche vero che anche l’uditorio concorre a delinearne i tratti. E soprattutto nella nostra condizione di lettori (assenti al momento della proclamazione delle beatitudini), diventa importantissimo ricostruire il contesto delle parole, per evitare che esse – prese a-storicamente e in maniera de-contestualizzata – vengano travisate, fraintese, manipolate.
Dunque gli interlocutori: essi sono delineati al v. 17, di loro infatti il vangelo dice che sono «una gran folla di suoi discepoli e una gran moltitudine di gente [...], che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie». Gente dunque che – avendo sentito parlare di Lui – aveva come intuito che in quell’uomo c’era qualcosa di promettente, qualcosa che poteva far bene alla loro vita, qualcosa che poteva “aggiustare” la loro vita. Non era dunque gente già risolta, con la vita sistemata, con i conti che tornavano... Era gente che – ognuna per i motivi più disparati (bisogni fisici, psichici, affettivi, esistenziali, ecc...) – anelava a una Vita che non aveva. E questo è molto interessante anche per noi... Per noi che se ci guardiamo con un po’ di onestà ci scopriamo inesorabilmente gli incompiuti della nostra stessa storia, eppure gli stessi che, per mascherarlo, continuamente si ritrovano sempre molto preoccupati di “essere all’altezza”, di “essere capaci”, di “essere pronti”, di “essere bravi”, di “essere apposto” davanti agli altri e davanti a Dio...
Il contesto del vangelo delle beatitudini sembra invece andare su un’altra strada (una strada molto pacificante): per ascoltare il Signore infatti, sembrano molto più avvantaggiati gli incompiuti, quelli che sistemati non sono, quelli che – come noi – hanno in cuore la perenne trepidazione sul senso delle cose, sul senso della vita, sul senso dell’esserci... Anzi… più paradossalmente ancora… non solo gli incompiuti sono gli avvantaggiati per ascoltare il Signore… ma addirittura sono loro l’oggetto delle beatitudini che Gesù proclama: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo».
Ciò che di queste parole emerge subito come interessante, soprattutto se si hanno nelle orecchie le beatitudini di Matteo (dove i poveri, sono i poveri in spirito; gli affamati, sono gli affamati di giustizia, ecc…), è vedere come Luca non riferisca l’incompiutezza ad un’idealità spirituale, ma la radichi alla realtà vera: non parla di povertà, fame, lacrime metaforiche, ma di povertà, fame e lacrime vere; parla di incompiutezze vere! Gli incompiuti veri sono beati!
E qui ci troviamo di fronte all’incomprensibile (inaccettabile) paradossalità delle beatitudini: al di là di ogni nostro tentativo di spiegazione, di interpretazione, di ammorbidimento, ci risulta interiormente insopportabile che i poveri siano detti beati, che gli affamati siano detti beati, che chi piange sia detto beato, che noi stessi quando siamo poveri delle nostre povertà, affamati delle nostre fami, piangenti tutte le nostre lacrime, siamo detti beati. “Non è vero” ci nasce detto dentro. E non solo “non è vero”, ma addirittura è irrispettoso per chi è povero, affamato e piangente, dire di lui che è beato. Come può Gesù dire questa cosa di fronte alla folla di incompiuti che gli sta dinnanzi? Come può dirlo, oggi, di fronte ad un mondo così lacerato dai milioni di uomini che muoiono di fame, di fronte ai miliardi che sono sotto la soglia di povertà, di fronte agli innumerevoli, che afflitti dai mille mali di sempre, piangono la loro infelicità, i loro figli, i loro padri, la cattiveria del cuore degli uomini, la loro sfortuna, il loro non senso? Come può dirlo a noi dilaniati interiormente da una vita che non regala la compiutezza che promette?
Ma forse la domanda più pertinente è: Con che sguardo guarda Gesù per vedere in quegli e in questi incompiuti (in noi) dei beati? Con gli occhi di chi? Gesù certo non è un illuso e non è nemmeno uno che si prende gioco della sofferenza altrui… Se li/ci dichiara “beati” è perché li/ci vede, li/ci pensa, li/ci considera “beati”. Ma appunto, questo è il punto: Come fa a giudicare “beato” chi piuttosto è considerato “maledetto” dalla storia degli uomini; o se “maledetto” oggi è termine in disuso, diciamo “non riuscito”, “incompiuto”, “fallito”, “insignificante”, “irrilevante”, ecc…?
Una possibile via d’uscita potrebbe essere quella di domandarsi se davvero su questa terra c’è qualcuno che può dirsi, o essere detto, escluso da questa incompiutezza… e più radicalmente se da questa incompiutezza ci si può affrancare… o ci si debba affrancare…
Forse infatti ha ragione A. Rizzi quando nel suo Dio in cerca dell’uomo scrive: «L’uomo è povertà. In quanto oggetto e destinatario dell’agape l’uomo è l’essere-di-bisogno; dove bisogno dice a un tempo la relazione a un insieme di beni da fruire e la problematicità del possesso di quei beni. Nella prima faccia il bisogno dice ricchezza, almeno virtuale, potenzialità di espansione e di felicità; nella seconda, dice che ogni bene conquistato non è mai garantito, che ogni ricchezza acquistata è sempre insicura, ogni espansione precaria, ogni felicità fragile. Non siamo mai le cose che abbiamo, neppure le più intime: il nostro modo di essere è l’avere, in un senso più profondo di quanto dica l’abituale distinzione tra essere e avere. Infatti quella distinzione si istituisce sul piano valutativo, come discriminazione tra beni autentici e beni estranianti; ma sia gli uni che gli altri non diventano mai noi stessi al punto da essere inalienabili, rimangono sempre sotto il segno dell’aleatorietà. Qui non siamo più sul piano della valutazione, ma della struttura dell’esistenza umana, di quella che possiamo chiamare povertà radicale dell’uomo. […] Povertà non è sinonimo di finitezza. Un essere finito potrebbe avere tutto ciò che gli compete, e averlo in maniera così salda e sicura da non correre pericoli per la propria realizzazione: […] parlare di povertà in questo caso avrebbe senso soltanto misurando l’uomo su un metro, a lui estrinseco, di infinito. […] Povertà non è limite del proprio essere; è limite dentro il proprio essere. […] Ma abbiamo detto povertà radicale. E con questo intendiamo porre una distinzione tra le situazioni attuali, effettive, di povertà e quella condizione di base, quella fragilità che permane anche nelle situazioni di opulenza e di esteriore sicurezza, e che nessun possesso o potere può superare. […] È questa crepa che chiamo povertà radicale; quella che una famosa immagine biblica chiama i piedi d’argilla che reggono la statua di metalli preziosi. […] Ma: gloria Dei vivens pauper. Quest’espressione di Oscar Romero, che riprende e precisa quella di Ireneo (gloria Dei vivens homo), costituisce la definizione dell’essere umano alla luce dell’agape divina. Dire che Dio ama l’uomo come altro da sé equivale a dire che nell’uomo egli ama il povero: non ciò che l’uomo ha ed è, ma quell’essere-di-bisogno che è bisogno di avere e di essere. […] Ma proprio questa povertà, che in sé non ha né è nulla di amabile, viene amata da Dio e da lui colmata: e in questo gesto Dio si rivela Dio. Dunque, la volontà di colmare il povero – ogni uomo in quanto povero – è la parola originaria che Dio dice su di sé: è la sua gloria. Quando parliamo della predilezione di Dio per i poveri non tracciamo un limite al suo amore – quasi Dio amasse soltanto coloro che sono attualmente poveri – ma indichiamo il luogo privilegiato in cui riconoscere questo amore. Nella preferenza di Dio per i poveri attuali si testimonia la qualità del suo amore per tutti gli uomini nella loro povertà radicale».
Forse allora la parola “beato” detta al povero, all’affamato, al piangente, è la parola “beato” detta all’uomo, detta a me: perché risuoni come l’incontrovertibile prendere posizione di Dio sia quella che autorizza l’incompiutezza umana alla beatitudine della vita. Anche per me allora, dentro a questa incompiutezza mortificante, è possibile la Vita (= vita beata, quaggiù!).

lunedì 8 febbraio 2010

Scuola di Preghiera Teresiana






Primo Incontro



Secondo Incontro
(Purtroppo gli interventi senza microfono non si sentono, vedremo se riusciremo a porvi rimedio... con calma!)

venerdì 5 febbraio 2010

Il percorso dei discepoli: di ieri e di oggi

Le letture che la Chiesa ci propone per questa quinta domenica del tempo ordinario sono tutte e tre molto ricche e decisamente interessanti. Non potendole però approfondire tutte in maniera adeguata, non resta che concentrarsi su una in particolare (il vangelo), ma non senza aver prima notato come in ognuna sia ripercorso in qualche modo il medesimo schema:
- c’è (o c’è stato) un incontro col Signore (la teofania di Isaia: «Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio»; l’apparizione a San Paolo: «Ultimo fra tutti apparve anche a me»; e l’incontro con Simone: «In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra»);
- un prendere coscienza della propria inadeguatezza – di fronte a questo incontro – da parte dell’uomo (Isaia dice: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti»; Paolo si autodefinisce un “aborto”; e Pietro vedendo quanto fatto da Gesù gli «si getta alle ginocchia, dicendo: “Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore”»);
- una conferma del Signore (per Isaia, quanto narrato ai versetti 6-7 del capitolo 6: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato”»; per Paolo la consapevolezza che «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono»; per Pietro, la parola che il Signore gli rivolge: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»);
- e infine l’accettazione della relazione col Signore (Isaia: «Eccomi, manda me!»; Paolo: «Dunque, sia io che loro, così predichiamo»; Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» / «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono»).


Lo schema che così viene a comporsi – proprio per il fatto che attraversa tutte le scritture sia antico che neotestamentarie – diviene in qualche modo l’indicazione del percorso di ogni discepolato, di ogni relazione con Dio. Per tutti infatti – anche per ciascuno di noi – c’è un incontro col Signore, un venire a sapere di Lui, un imbattersi nella sua parola o nella sua vicenda; un non sentirsi all’altezza; un ritrovare una conferma del proprio esistere; uno sbilanciarsi per acconsentire ad una donazione che diventa radicale, totale, totalizzante…
Il problema è che forse spesso questi momenti (questi passaggi) nella vita reale vanno al di là di ogni possibile schematizzazione, per cui può capitare di vivere insieme alcune di queste fasi o prolungarne altre, o riviverle più volte… col rischio di non saperle ben riconoscere o – peggio – di fossilizzarsi su una di esse, mentre invece è nella loro coralità che tratteggiano il percorso compiuto del discepolo.
Innanzitutto la domanda che a noi può sorgere è quella dell’incontro con Dio… Pietro ha incontrato Gesù sulle rive del lago Gennèsaret, a Paolo è apparso il Signore risorto, Isaia ha addirittura vissuto una teofania… ma a noi? Niente di tutto questo: nessun evento di questo tipo… E allora la domanda nasce spontanea: Davvero ho incontrato il Signore? Non è stata una mia autosuggestione? Non mi ha semplicemente fatto piacere crederlo? Si può davvero incontrare il Signore?
A tutte queste domande mi sembra pertinente rispondere con le parole di un grande biblista dei nostri giorni, don Roberto Vignolo, il quale in un suo libro (Personaggi del quarto vangelo), parlando di un grande assente, Tommaso – assente almeno quanto noi – che però pretenderà e otterrà – a differenza nostra – di vedere per credere, scrive così: «In che cosa consisterà la forma specifica della fede che non vede rispetto alla visione che conduce Tommaso [noi potremmo dire: Isaia, Paolo, Pietro] alla fede? Come dovrà intendersi una fede “beata perché crede e non vede”? In che termini il lettore sarà non solo non penalizzato rispetto a questi personaggi, ma piuttosto fortunato, paradossalmente anche più di loro? L’enigmatico macarismo di Gv 20,29 [«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»] […] non intende affatto celebrare l’esaltazione di una fede cieca (e quindi più pura) contro una fede appagata di visione miracolistica (e quindi mediocre). Nemmeno rappresenta un deprezzamento per l’esperienza di Tommaso, e dei testimoni oculari in genere. [Piuttosto] una risposta può venire considerando come Giovanni, collocando un macarismo ad epilogo del suo Libro, recuperi abilmente la tradizione per cui un libro, in quanto condensa un patrimonio di esperienza vissuta e funge da strumento di comunicazione tra le generazioni, va considerato come una vera e propria fortuna. […] La fortuna dei lettori/uditori non contemporanei non starà nel contenuto quantitativo del Libro, che è materialmente parziale e più limitato rispetto all’evento. […] Ma questa forma della fede si rivela tuttavia a propria volta singolarmente “felice” per le seguenti ragioni: 1/ è fede necessariamente ancorata alla mediazione kerygmatico-testimoniale, che cioè dipende da una testimonianza – proprio come la fede degli stessi testimoni oculari. […] Per tutte le generazioni successive a quella dei testi oculari la gerarchia che prevede il primato della parola nella fondazione della fede non si limita più ad un’affermazione di principio, ma diventa una necessità, un a priori di fatto, che trova nella forma dei “segni scritti” l’adeguata mediazione per la fede che “non vede”. 2/ Questo kerygma specificamente testimoniale chiede e sollecita un ascolto che, lungi dall’essere cieco, intende piuttosto “far vedere” e “insegnare come vedere”. [Infatti] mentre si fa ascoltare come testimonianza verbale scritta, il Libro fa vedere sia ciò che i testi oculari hanno potuto vedere (il contenuto cristologico della rivelazione), sia come essi abbiano potuto farlo (il loro cammino di fede)». Dunque alla domanda “Si può davvero oggi incontrare il Signore?” i testi neotestamentari rispondono risolutamente di sì, anzi in maniera ancora più “beata”/fortunata/facilitata che i testimoni oculari.
Il cammino del discepolato quindi non trova oggi un’interruzione in partenza, per il fatto che oggi visioni, teofanie o rivelazioni particolari sembrino essere assenti dal palcoscenico della storia. Anzi, il fondamento per tale percorso sembra essere quello del primato della Parola… Il cammino di relazione col Signore nasce infatti dal nostro imbatterci in quella sua Parola, in quella sua iniziativa libera e gratuita di farsi incontrare, di farsi conoscere, di farsi prossimo… L’iniziativa dunque è sua… e per questo è per tutti: perché non è da conquistare, ma è donata!
Certo è che di fronte a tale donazione l’uomo si sente inadeguato, non all’altezza, non degno, nelle forme più svariate: “Per me capire la Parola di Dio è troppo difficile”, “Viverla poi…”, “Io sono troppo giovane”, “Io troppo vecchio”, “Io troppo peccatore”, “Io troppo imbranato”… Ma spesso non ci si rende conto che dietro a queste nostre obiezioni – pur vere da un certo punto di vista – in realtà si nasconde un frustrato desiderio di onnipotenza, che si presenta sotto il suo contrario: la rassegnazione. Siccome non posso essere dio, siccome non posso essere l’uomo/la donna ideale che ho in testa, siccome non posso essere il discepolo ideale, allora mi tiro indietro, mi tiro fuori da questo circolo, me ne sto per i fatti miei (e che gli altri vedano che me ne vado!)… O tutto o niente, o perfetto o distrutto, o dio o nulla… Questo è l’uomo… Questi siamo noi… quando cadiamo nella falsa illusione che essere amati voglia dire essere amabili! E siccome ci consideriamo non amabili, non crediamo sia possibile essere amati…
E invece ecco la riconferma del Signore, presente – come visto – in tutte e tre le letture… L’elemento forse più difficile di tutto il percorso del discepolato: riconoscersi amati/graziati/perdonati. All’uomo che non si sente amabile, che non si perdona la sua inadeguatezza e per questo vorrebbe andarsene, sparire, magari orchestrando una sceneggiata che almeno per un momento lo rimetta al centro dell’attenzione, Dio risponde con l’inaspettato sguardo di chi problemi per la nostra inadeguatezza proprio non se ne fa… Anzi… ci si era fatto prossimo quando noi eravamo ancora inconsapevoli della nostra inadeguatezza… e Lui l’aveva già contemplata, accettata, amata… (forse ne aveva anche maternamente sorriso).
È solo dentro a questo orizzonte che prende senso il decider-si del discepolo: solo in questo abbraccio che “tutto-accoglie” si può arrivare (anzi si deve arrivare) a dire: «Eccomi, manda me!», si deve arrivare cioè a giocarsi la vita…
Purtroppo invece a noi capita molto più spesso di non dar credito a questo orizzonte e di arenarci in qualcuno di questi momenti e non venirne fuori più: perché non crediamo sia possibile oggi un farsi prossimo del Signore, oppure perché troppo velocemente arriviamo a sentirci perdonati (nel giusto), senza passare dal rendersi conto purificatore che “Io non sono dio!”, oppure perché non crediamo nell’amore altrui che va ben al di là della nostra amabilità, oppure perché in ogni caso ci fa troppa paura dire «Eccomi, manda me!»…
In ogni caso, dietro ad ogni nostra interruzione sta sempre un’errata considerazione di chi sia Dio e dunque di chi sia l’uomo.

mercoledì 3 febbraio 2010

La Bestia e la sua coda: gli indemoniati del Nord!

(ANSA) - TRENTO, 28 GEN - ''Sottoporre sistematicamente tutti gli immigrati ad esame sanitario e psichiatrico''. La proposta è della Lega Nord del Trentino.

La richiesta è contenuta in un'interrogazione al presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai. Troppe volte gli immigrati, legali e non, che giungono sul nostro territorio hanno serie problematiche sanitarie e/o psichiatriche, con grave pericolo di contagio per tutti i malcapitati che dovessero venire in contatto fortuito con questi soggetti''. (ANSA)
_____ vedi anche: _______
ilmessaggero.it
ilmattino.it

gli altri giornali? nel web, silenzio!

__ si vorrebbe non dire, ma tacere ci renderebbe colpevoli! __

Che dire? Resta ben poco da dire è ora che si passi ai fatti: a questo punto urge una visita pischiatrica con probabile ricovero coatto a tutti coloro che in un modo o nell'altro fanno parte della Lega o peggio simpatizzano (e sì perché qui simpatizzare ci rende ancor più colpevoli!) per simili pensieri satanici (come altrimenti definirli?): forse ci vorrebbe anche un esorcista, ma di quelli seri!
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