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lunedì 22 marzo 2010

Libertà (per tutti e non solo per qualcuno)

Avevo scritto un post dal titolo Extra chorum, in cui constatavo con una certa amarezza di essere “solo” nel difendere il principio che, non ammettere alle elezioni chi non si dimostrava nemmeno “capace” di presentare una lista elettorale – per quanto rappresenti milioni di potenziali elettori – non era un vulnus alla democrazia, ma al contrario una forma alta e nobile di difenderla dall’arroganza del potere: il vulnus ci sarebbe (stato) se fossero (stati) ammessi violando le “regole” valide per tutti (gli altri)!... Fa piacere ora constatare che non ero poi così “marziano”... L’articolo è stato pubblicato qualche giorno dopo il mio post dal Corriere, ma non avevo avuto il tempo di presentarvelo, lo pubblico ora nella speranza che, a mente fredda o quasi, possa essere oggetto di riflessione comune...

Una mia parente, da bambina, aveva appiccicato sulla porta della sua stanza un foglio di carta con la scritta: «Rispettare le regole». Era una bambina tutt’altro che docile e riguardosa, bensì avventurosa e vivace. Forse proprio per questo aveva istintivamente capito, senza aver letto alcun libro di diritto, che delle regole non si può fare a meno, se si vuole star bene insieme. La regola non ha mai goduto di buona stampa. È una delle prime vittime della retorica sentimentale che falsifica il profondo sentimento della vita e delle sue contraddizioni. Non c’è poetastro che non vanti la propria sofferta e appassionata fantasia insofferente di norme stilistiche, anche se il suo collega Dante Alighieri ha dimostrato che rispettare la metrica, l’ordine della terzina e della rima e il numero di sillabe del verso può essere efficace per rappresentare il caos delle passioni, il mistero del mondo e di ciò che sta oltre.
La vita è un continuo confronto con la regola, che essa si dà per non dissolversi nell’indistinto e che essa creativamente muta, per renderla più adeguata ad affrontare la realtà sempre nuova, costruendo incessantemente nuove regole. Le creative rivoluzioni artistiche infrangono alcune leggi dei loro linguaggi, scoprendo così nuove forme del mondo e della sua rappresentazione, che a loro volta obbediscono a criteri rigorosi. Faulkner o Kafka, che sconvolgono l’ordine tradizionale del romanzo, ne creano un altro, non meno inesorabilmente cogente e proprio perciò creativo. Nessuna regola è un idolo, nemmeno la regola per eccellenza, la legge. Le leggi possono e talora devono cambiare, come avviene. Ma il cambiamento, anche sostanziale e radicale, deve avvenire secondo modalità e regole precise. Ciò che oggi è impressionante nel nostro Paese e contribuisce a degradare Stato e società ad accozzaglia confusa, non è la violazione delle leggi, che è sempre esistita, bensì la crescente indifferenza nei loro confronti. Più che barare al gioco – il che presuppone comunque tener conto, sia pure con intenti truffaldini, delle regole – si mescolano le carte da poker con quelle dello scopone, se un avversario tira già una scala reale si risponde facendo briscola.
Nella vicenda delle liste presentate dal Pdl in vista delle prossime elezioni nessuno ha barato, perché non si bara con l’intenzione di perdere. Si è trattato di una goffaggine, poco importa se dovuta a risse interne o a inettitudine, fondata sulla consapevole o inconsapevole convinzione che regole e leggi possano venire tranquillamente disattese. Questa disinvoltura alla fine autolesionista è offensiva in primo luogo nei confronti dei potenziali elettori del Pdl (e sono molti) che rischiano di perdere, per colpa del Pdl, il loro diritto di votare per esso. L’indecoroso ruzzolone ha creato, come è noto, un problema: la necessità di conciliare il rispetto della legge con la possibilità di molti cittadini di votare, come è loro diritto, per il Pdl, partito maggioritario che masochisticamente si toglie di mezzo. Per i maldestri autori dell’autogol, comprensibilmente desiderosi di porvi rimedio, sembra che quella violazione delle regole non conti nulla. Si sente gridare al cavillo, al giochetto; si accusa di arido e astratto formalismo chi cerca di risolvere il dilemma senza violare la legge. Sembra non ci si renda conto che ogni violazione ne tira dietro un’altra e che considerare uno sfizio l’esigenza di rispettare la legge significa minare alla radice i fondamenti della vita civile. Una società che si abitua a disattendere le norme non è più una società; non è nemmeno il branco di lupi di Kipling, che si fonda su una legge.
L’unica via era e rimane, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, il rinvio delle elezioni, sola soluzione atta a consentire il voto di tutti i cittadini a tutte le liste senza calpestare il diritto. Ma l’insensibilità all’osservanza delle leggi sembra diffondersi come un liquame gelatinoso; la sua sorgente è la classe politica, ma non so se a quest’ultima si contrapponga un Paese reale più sano e meno inquinato. In questo caos è sempre più difficile distinguere guardie, ladri e derubati. Certo, siamo tutti insofferenti di leggi e di regole, sempre impari, nella loro inevitabile convenzione, al fluire della vita. La maturità di un individuo e di una società consiste nell’armonia con cui si sanno conciliare giustizia ed equità, rispetto delle leggi e capacità di risolvere umanamente i conflitti che in certi casi la loro rigidezza può provocare, senza passare disinvoltamente al di sopra di esse, ma trovando una modalità anche formale di risolvere quel conflitto. Talvolta il summum ius può diventare summa iniuria, massima ingiustizia, e allora si pone un conflitto che va risolto. Ma se non c’è nessun ius, c’è sempre e soltanto la massima iniuria, il trionfo dell’ingiustizia ovvero dei più forti privi di freni nella loro oppressione dei deboli. Nessuno può amare la legge, perché essa esiste in quanto esistono i conflitti e ognuno di noi vorrebbe vivere in un mondo in cui non ci fossero conflitti né contraddizioni, in una beata innocente età dell’oro in cui ogni pulsione e desiderio potessero essere appagati senza ledere nessuno.
L’amicizia, l’amore, la contemplazione del cielo stellato non richiedono codici, giudici, avvocati o prigioni e nemmeno regole precise come quelle del golf o del calcio. Ma codici, giudici, avvocati e prigioni diventano necessari quando qualcuno impedisce con la forza a un altro di amare o di contemplare il cielo stellato. «Il dominio del diritto – scriveva il grande poeta romantico tedesco Novalis – cesserà insieme con la barbarie». I meandri della legge possono incutere angoscia e paura, come testimonia tanta letteratura. Ma la barbarie non cessa e c’è bisogno di diritto. E anche di regole nei rapporti umani; regole, in questo caso, non certo codificate o imposte né rigide, ma tacitamente presenti nel tono, nella modalità, nella musica ossia nella sostanza umana di ogni relazione, anche di amicizia e di amore. Pure il quotidiano vivere civile ha bisogno di regole non scritte, ma fondanti, che esprimano il rispetto dell’altro; un senso immediato e spontaneo che nasce dall’osservanza di regole intimamente accettate e divenute naturale modo di essere. Non è questo lo stile di chi oggi ci governa. Mi auguro che chi lo desidera possa votare per il partito che ha rischiato di impedirglielo con quell’improvvida sciatteria, purché ciò avvenga senza violare le leggi.
Quel partito usurpa il nome di liberale; sarebbe paradossalmente più coerente se usurpasse il nome di democratico, perché ha assai poco di quell’illuminato sistema di leggi, pesi e contrappesi, poteri e contropoteri che il liberalismo ha elaborato per tutelare umanamente le libertà. Il Pdl appare piuttosto talvolta una versione scivolosa della democrazia: l’appello al Popolo, l’investitura plenaria, la concezione della politica quale rapporto privilegiato, unico e permanente del leader con una specie di assemblea generale degli italiani ricordano – in forme abnormi – piuttosto Rousseau che Stuart Mill; si richiamano al mareggiare della folla in piazza più che alla divisione dei poteri. Anche quello che è avvenuto con le liste elettorali sembra fatto più in nome del «Popolo» (disinvoltamente identificato col proprio partito o con la propria fazione) che in nome delle garanzie, delle distinzioni e della legalità liberale. Che i due maggiori partiti italiani, reciprocamente avversi, debbano scambiarsi il nome?
Claudio Magris, 15 marzo 2010

venerdì 19 marzo 2010

Quando "ciascuno" diventa "qualcuno"

Il brano del vangelo di Giovanni che la Chiesa ci propone per questa quinta domenica di Quaresima, è un testo molto conosciuto – la sua parte centrale è divenuta addirittura proverbiale («Chi è senza peccato, scagli la prima pietra») –, ma forse la familiarità con cui ci accostiamo ad esso rischia di farci perdere qualche sfumatura, o peggio travisarne il contenuto.
Infatti, di fronte alla frase «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra» – frase tra l’altro piuttosto diversa dalla nuova e più corretta traduzione che la CEI ha proposto nei mesi scorsi («Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei») – la riflessione è inevitabilmente orientata verso un amaro prendere coscienza della generalità del peccato e della sua diffusione che accomuna tutti: come se il problema del testo fosse questo, cioè ricordare a tutti che siamo peccatori, e che dunque tutto va inevitabilmente male, e che il mondo in cui viviamo fa schifo, ecc… ecc… ecc…
In realtà questa maniera immediata con cui ci viene da leggere il brano è assolutamente riduttiva. Per comprenderlo basta far un poco la fatica di collocarlo all’interno del contesto letterario in cui Giovanni lo pone. Il rischio è altrimenti quello di prenderlo come un fungo solitario spuntato non si sa bene da dove…
Innanzitutto la collocazione: siamo al capitolo ottavo del vangelo di Giovanni. Gesù si trova a Gerusalemme dove – come ci informa Gv 7,1-10 – è salito con i suoi fratelli per la festa delle Capanne. Nonostante vi si fosse recato «non apertamente, ma quasi di nascosto» (7,10) – dato che dopo l’ultima volta che vi era stato «non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo» (7,1) – suscita subito un certo vespaio: «I Giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: “Dov’è quel tale?”. E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: “È buono!”. Altri invece dicevano: “No, inganna la gente!”. Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei» (7,11-13).
In mezzo a questo rincorrersi di voci e pareri sul suo conto, Gesù pensa bene di recarsi al Tempio e mettersi ad insegnare (7,14): «I Giudei ne erano meravigliati e dicevano: “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?”» (7,15); altri dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (7,25-27); fino a giungere al commento dell’evangelista stesso, che dopo i vari tentativi di risposta di Gesù, annota: «Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora» (7,30).
La situazione si ripete diverse volte, fino all’ultimo giorno della festa, quando sacerdoti e farisei sgridano le guardie per non aver condotto da loro Gesù in catene: «“Perché non lo avete condotto qui?”. Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato così!”. Ma i farisei replicarono loro: “Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”. Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!”. E ciascuno tornò a casa sua» (7,45-53).
Proprio a questo punto inizia il nostro capitolo 8, con Gesù che si reca «verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro » (8,1-2). È a questo punto che scribi e farisei gli conducono la povera donna «sorpresa in flagrante adulterio» (8,4), che – come ormai dovrebbe essere chiaro – non è affatto il centro del brano, non è il problema dei farisei, ma mero espediente per colpire Gesù: «La posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (8,4-6).

Gioco antico, questo del sacrificio del piccolo, del povero, del diverso, della donna, dello straniero, per logiche di potere altre… antico e però ancora molto attuale. Gioco, il cui capro espiatorio è necessariamente un signor “nessuno”, senza volto, senza nome, senza storia, senza possibilità di parola. Capro espiatorio che per forza deve essere “nessuno”, perché se fosse “qualcuno”, potrebbe esserci chi lo riconosce, chi lo reclama come suo, chi lo difende… Questa donna invece non è nessuno. Nessuno dice come si chiama, chi sono i suoi genitori, chi era suo marito e perché lo tradiva (molte donne nella Palestina del tempo erano lapidate come adultere perché, in realtà, violentate dai soldati romani – ma contro Roma i farisei non si mettevano…), se aveva figli a casa che la aspettavano… Niente: un mero espediente anonimo per arrivare a “stanare” Gesù – minaccia del potere costituito. Proprio come le masse degli espedienti anonimi di oggi…
Un esempio su tutti: i famosi rimpatriati in Libia… meri espedienti anonimi del fantomatico bisogno di sicurezza degli italiani, ingenerato dalle paure disseminate maliziosamente e con molte manipolazioni nell’opinione pubblica. Rimpatri sbandierati come soluzione per il problema reale dell’immigrazione e dell’integrazione… Peccato che i rimpatri siano minimi (pensate per esempio al fatto che se un membro delle forze dell’ordine ferma oggi un clandestino, deve portarlo in Questura per le pratiche necessarie – perdendo diverso tempo… – e poi deve farsi carico di condurre il “delinquente” in luoghi atti al successivo rimpatrio – dopo ovviamente il processo per direttissima e solo se ha un documento di riconoscimento, perché se non ce l’ha dopo il processo per direttissima gli viene dato il foglio di via e lasciato andare da solo a rimpatriare –, di solito un CPT. Ovviamente il CPT più vicino. Per esempio c’è a Milano. Ma se questo è pieno, l’altro più vicino, per esempio in Emilia Romagna. Ma se è pieno, l’altro più vicino. Fino al paradosso che agenti lombardi portino i clandestini a Barletta o in Sicilia… Ora, considerando che per andare e tornare nel sud Italia ci vogliono almeno due giorni, che di solito le forze dell’ordine hanno famiglia, che spesso gli si consiglia di non fare straordinari, perché i soldi son pochi, che altrettanto di frequente gli si consiglia di non sprecare troppa benzina, credete davvero che siano molti quelli che seguano questo iter!??!?!); e oltre che minimi i rimpatri sono spesso tragici (e per questo vi rimando ai servizi postati da Mario in questo blog il 2 febbraio 2010 “I frutti del respingimento” e il 18 marzo 2010 “La salvezza viene sempre da fuori…”, dove – soprattutto nel filmato – si vede bene in cosa consistano i “respingimenti” che – quando vengono proclamati – pacificano le nostre notti trepidanti per paura dei ladri…).
Dunque questi “respinti” – almeno per certi aspetti – sono proprio simili a questa “donna-fantoccio” di cui non interessa niente a nessuno, se non per l’occasione che dà per sopprimere chi minaccia con la sua verità l’ordine costituito…
Gesù si accorge subito della situazione in cui lo vogliono trascinare, della scelta a cui vogliono costringerlo – o entra nella loro logica dis-umanizzante, (nel senso che toglie umanità – carne, storia, volto, nome) che tratta con legalismo le persone, rendendole appunto “numeri”, “casi”, “anonimi”, per salvare se stesso; o si scontra, armando la mano di chi vuole ucciderlo – e decide di tacere: «Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra» (8,6).
«Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (8,7-8).
La “donna-fantoccio” diventa improvvisamente “qualcuno”, diventa “lei”, un volto, un corpo, una storia, contro cui lanciare, a titolo personale e non nascosti nella mischia, una sassata, che deturperebbe quel volto, macchierebbe di sangue quel corpo, porrebbe fine a quella storia… Da caso legale anonimo a persona a cui è ridonata – con una semplice frase incastonata tra lo stare chinato di Gesù a scrivere per terra (cioè con gli occhi che guardano in giù!) – la pienezza della sua umanità riconosciuta.
Tant’è che i presenti capiscono subito che Gesù ha disinnescato la loro trappola maliziosa, e «cominciando dai più anziani, se ne andarono uno per uno» (8,9)… per lasciare sulla scena Gesù e la donna soli (almeno così sembra a questo punto del racconto) a riconfermare, nel dialogo breve ma intensissimo che hanno, il fulcro centrale della buona notizia che è l’incontro con Gesù: il fatto che lo sguardo con cui lui guarda è sempre quello di chi vede di fronte a sé “qualcuno” e mai “nessuno”! Questo è il lieto annuncio: che per Gesù ognuno è “qualcuno”! Con la sua storia, i suoi peccati, il suo volto, il suo nome, le sue bruttezze, le sue bellezze… Ciascuno è “qualcuno” agli occhi di Dio!
Mentre gli altri tipi di potere hanno sempre bisogno di tanti signor nessuno da macellare lungo la storia, da tritare nel loro procedere… masse di anonimi che l’istituzione ha schiacciato sotto la sua immensa macchina divoratrice… e che però erano padri e madri, amati e amanti, figli e figlie di qualcuno… proprio come i nostri “respinti”… che noi consideriamo massa anonima ed indesiderata, ma che è fatta di volti, di nomi, di storie… di gente che è nata da una donna specifica, che avrà sofferto nel generarli, che li avrà allattati, custoditi, mandati un po’ a scuola se si poteva o a cui comunque ha insegnato tante cose… e che magari è ancora lì ad aspettarli… loro che invece – abbandonati nel deserto – muoiono in posizione fetale invocando il suo nome… proprio come i nostri soldati nelle Guerre Mondiali… proprio come chissà quanti dimenticati…

Un’ultima cosa… il capitolo ottavo di Giovanni – dopo che sulla scena ricompaiono dei “loro” a cui Gesù rivolge nuovamente la parola e fa un lungo discorso (8,12-58), che si conclude con la pretenziosa frase «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono» – finisce così: «Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui» (8,59), a sottolineare che chi fa di “ciascuno” “qualcuno”, è scomodo al potere costituito, che si nutre di “signori nessuno”, e diventa bersaglio delle medesime pietre da cui aveva scampato “qualcuno”, anzi “qualcuna”…

sabato 13 marzo 2010

È questione di sguardi

In questa quarta domenica di Quaresima, che la Chiesa tradizionalmente chiama laetare perché sospende il cammino di penitenza dei quaranta giorni prima di Pasqua, anche il vangelo sembra rimandare a quel clima di allegrezza che si mostra a livello liturgico (i canti della Messa non parlano che di gioia e di consolazione; si fa risentire l'organo, rimasto muto nelle tre Domeniche precedenti; è consentito sostituire i paramenti violacei coi paramenti rosa, colore che pur rimanendo legato al viola della penitenza, è alleviato dal bianco dell'imminente solennità; ecc…): il capitolo 15 di Luca è infatti uno dei più inequivocabili nel trasmettere la letizia dell’essere figli di questo Padre.
La cosiddetta parabola del padre misericordioso, più conosciuta come quella del figliol prodigo, mette in gioco infatti – al di là delle altre molteplici cose che si potrebbero dire – un gioco di sguardi sul personaggio del padre. È interessante guardare a questo racconto ponendosi come uno spettatore che osserva lo svolgersi della scena con in testa una domanda fondamentale: A partire da ciò che fanno e dicono i vari personaggi, qual è l’idea del padre che hanno in testa? Il primo figlio che immagine ha di suo padre? E il secondo? E il padre stesso, come si propone sulla scena? Cosa dice di sé, agendo e parlando?
Le domande evidentemente sono fondamentali, perché in ultima analisi è la stessa questione che il lettore stesso è chiamato a porsi: Io che idea ho di questo padre? E fuor di metafora: Qual è la mia idea di Dio? Senza dimenticare che la parabola è raccontata in un particolare contesto, quello in cui vedendo Gesù circondato da pubblicani e peccatori, «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, a partire dalla storia narrata nella parabola, proviamo a delineare le varie idee di padre che emergono nei cuori e nelle teste dei personaggi. In primo luogo quella del figlio più giovane, il primo a comparire sulla scena. Egli, dopo essersene andato ed essere caduto in disgrazia, ragiona più o meno in questo modo: suo padre non potrà certo riaccoglierlo come un figlio, ma se non altro lì a casa si può mangiare; suo padre – egli pensa – avrà perciò il buon cuore di accettarlo come suo servo. Ragiona cioè nella maniera che pare più logica anche a tutti noi, che infatti parte da un presupposto solitamente assai condiviso, quello della retribuzione/reciprocità. Il padre punirà i suoi misfatti (non lo può riaccogliere come figlio; anzi il figlio non spera nemmeno in questa eventualità, non gli salta nemmeno in mente come possibile), ma potrebbe riaccoglierlo come servo, in nome dell’antico affetto o per lo meno della pietà a cui spera di muoverlo. In qualche modo cerca da lui il dovuto, o poco più del dovuto.
Proprio in questa logica va rintracciata la prima identificazione cui la parabola di Gesù chiama colui che la ascolta: precisamente questo modo di ragionare del primo figlio, questo suo modo di pensare il padre, coincide col nostro modo di pensare Dio. Non un Dio cattivo, anzi un Dio che come servi ci riaccoglierebbe mosso a pietà dalla nostra miseria. Diremmo: un Dio giusto. Che dà il giusto. A ognuno il suo: anche il perdono ai pentiti.
Ma proprio qui la parabola fa scattare il suo meccanismo, creando uno stacco sorprendente, quasi incomprensibile: al lettore che segue annuendo al discorso che il figlio giovane si fa tra sé e sé («Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), si presenta una scena non prevista: il padre «quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Non lascia nemmeno finir di parlare il figlio, che tentava di ripetere il pensiero che aveva formulato nel suo cuore («Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”») «e cominciarono a far festa». Dove la cosa più interessante, più imprevista, quella che dovrebbe far sobbalzare l’ascoltatore è che – contrariamente all’immagine del padre che il figlio più giovane aveva in testa – questi non aspetta il suo pentimento e – solo a posteriori – gli concede di essergli servo, ma piuttosto preventivamente lo perdona e lo riaccoglie come figlio.
Il punto critico è perciò quello per cui lo sguardo con cui il figlio guardava al padre era sbagliato, falsificava la realtà, non era conforme all’identità del padre. Più precisamente ancora: lo sguardo con cui il figlio si sentiva guardato dal padre non corrispondeva alla realtà, allo sguardo con cui il padre lo guardava.
E questo è il punto interessante per gli ascoltatori, dunque anche per noi: Qual è lo sguardo con cui guardiamo a Dio? È conforme alla realtà (di Dio)? Alla sua identità? E soprattutto, come è lo sguardo con cui ci sentiamo guardati da lui? È in sintonia con questa parabola? Con questa scena in cui emerge, per esempio, che – ben al di là del luogo comune per cui Dio ci perdona se ci pentiamo – in realtà egli ci perdona a prescindere? Cioè continua a custodire la nostra identità di figli e a guardarci così, anche quando noi roviniamo o sfuochiamo questo nostro volto (Non a caso il salmista lo chiama «salvezza del mio volto e mio Dio» (Sal 42,6d) e un grande teologo come P.A. Sequeri ricorda che «L’uomo può confondere Dio con il serpente, e cedere alla suggestione che lo inclina ad apprezzare l’invito all’incredulità come un atto di amicizia. Ma, anche quando ciò accade, Dio non confonde l’uomo con il serpente»!)? È in sintonia con il resto del vangelo? Con lo sguardo con cui è necessario che Gesù guardi ai poveri, agli affamati, agli afflitti, ai perseguitati… agli incompiuti della storia, per chiamarli beati (Lc 6,20-23)? O allo sguardo che deve avere per proclamare e vivere come unica strada per la felicità l’amore ai nemici (Lc 6,27-38)? O la disposizione che deve avere perché a lui si avvicinassero «tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo»?
Perché questo è il Dio che Gesù rivela nel suo vangelo, esattamente come così è la vera identità del padre che emerge dalla parabola, al di là dell’idea dell’uno e dell’altro figlio…
…A proposito dell’altro figlio… il maggiore, quello che entra sulla scena solo nel finale… Anche la sua idea di padre non si scosta molto da quella del fratello: anche lui ha in mente un padre giusto, che dà il giusto, il dovuto, incapace del contrario, cioè del gratuito, delle cose gratis, dell’amore a perdere. Ma proprio qui sta l’inganno… Nel tentativo, suo e nostro (e dei farisei che occasionano la parabola, tanti simili a questo secondo figlio…), di bilanciare la vita sul dovuto: su ciò che mi è chiesto e ciò che è giusto io riceva… sul reciproco scambio, sul do ut des, sul tanto mi tanto, come se il dovuto potesse appagare il desiderio di Vita dell’uomo...
Il p(P)adre è altro rispetto a questo calcolatore e bilanciatore, sembra dire la parabola. Dio è altro, sembra dire il vangelo. La felicità è altrove, sembra dire Gesù: solo la verità dello sguardo con cui Dio guarda all’uomo senza dimenticarsi mai che è suo figlio, e solo l’acquisizione da parte dell’uomo di questo sguardo che vede l’altro senza mai dimenticarsi che è suo fratello, è Vita!

giovedì 11 marzo 2010

Extra chorum

C’è un luogo comune che gira come un fantasma in questi giorni ed è che senza il PDL, a milioni di cittadini sarebbe negato il diritto di scelta e quindi le elezioni in qualche modo sarebbero falsate!
Dal nostro amato presidente Napolitano, da autorevoli esponenti politici di destra e di sinistra, da autorevoli opinionisti del Corriere e Repubblica, passando per la Stampa e compagnia bella, è tutto un coro unanime su questa tesi. La differenza se c’è, sta solo nella contestazione del modo con cui si è voluto rimediare al cosiddetto pasticcio

Vorrei spiegare perché considero un’eminente balla una tesi del genere. Luogo comune, ove la mancanza di un minimo di posata riflessione ha impedito di cogliere la prospettiva giusta…

Il diritto di voto non è un diritto assoluto, senza regole e senza limiti.
Mi vengono in mente almeno tre casi (solo per esemplificare) in cui una persona non può essere votata (oltre al limite di età che permette o impedisce il diritto di voto attivo e passivo!):

1) Ad esempio: io non posso votare una persona che non ha costituito una lista, anche se io la ritenessi l’unica al mondo in grado di meritare il mio voto.
Così nessuno di noi potrebbe votare Adriano Celentano, tanto per fare un esempio banale: la mia scheda verrebbe annullata e il mio voto non conteggiato se non tra il numero dei votanti e tra le schede nulle.

2) Non solo, ci sono persone, che anche se volessero e potessero (nel senso che ne hanno le qualità), per legge è impedito loro di presentarsi alle elezioni come candidati. Ministri di culto, magistrati, membri delle forze armate, ecc. sono tra questi. Ma anche coloro che sono stati raggiunti da una condanna penale per certi reati che toglie loro, come pena ausiliaria e per un certo limitato numero di anni, il diritto di voce passiva nelle elezioni.

3) Ci sono inoltre alcune norme particolari, come quella che vieta esplicitamente il terzo mandato per un presidente di regione, o l’incompatibilità di cariche (es: sindaci e presidenti di regione) anche se questa persona sarebbe di per sé eleggibile perché rispetta tutte le altre condizioni…

Si dovrebbe ammettere a rigor di logica che anche in questi casi ai cittadini è tolto il diritto di votare una determinata persona o gruppo di persone. Certamente! E questo gli è tolto espressamente per legge: cioè chi non entra in determinate categorie e/o entra in altre, ha il diritto o gli viene negato il diritto, di presentarsi alle elezioni e per conseguenza, all’elettore viene concesso o negato il diritto di votarlo!
E nessuno grida allo scandalo. E giustamente nessuno dice che le elezioni sono falsate o meno democratiche! E se fate il conto, sono milioni le persone coinvolte!

Ma in questi giorni ha diritto di cronaca una quarta categoria (chiamiamola così anche se di per sé non è categorizzabile) a cui è negato il diritto di voto e io non vedo perché questo dovrebbe rendere meno democratiche o “falsate” le nostre elezioni.

Il rigore infatti con cui sopra si ammette o si nega a delle persone ad essere eleggibili (e quindi si nega o si ammette il diritto di voto, a queste persone, da parte del cittadino elettore) si riversa anche nel rigore con cui devono essere presentate le liste per la validità della eleggibilità! Questo proprio a difesa del diritto di voto del cittadino-elettore e alla democraticità delle elezioni onde evitare che dei furbi, si facciano passare per ciò che non sono.

Ora, se un partito, movimento o lista o quant’altro, per proprie ragioni, qualunque esse siano, non sono in grado, per propria colpa, di rispettare una qualunque di queste condizioni (perché è chiaro che devono essere rispettate tutte in quanto basta una per non essere eleggibile), non si sottrae ai cittadini il diritto di voto, ma anzi in tal modo il diritto è salvaguardato e semmai sono gli esponenti della lista che si negano il diritto (e lo negano anche ai loro eventuali elettori e/o aderenti) di presentarsi alle elezioni. In altre parole, nessuno nega loro il diritto, anzi il diritto viene protetto da abusi e prevaricazioni varie soprattutto da coloro che, con il rifiuto di sottomettersi alle verifiche necessarie, se ne autoescudono automaticamente.

Nessun partito, qualunque esso sia, ha dunque il diritto di presentarsi alle elezioni fino a quando non ha ottemperato alle condizioni che rendono i propri candidati eleggibili. E di conseguenza nessun elettore ha il diritto di votare un candidato fino a quando questo non risulti di fatto eleggibile.

È falso quindi affermare che si nega un diritto. Semmai lo sarebbe fare il contrario, ammettendo chi il diritto per propria responsabilità, l’ha perso!

È altresì falso affermare dunque che la non accettazione di una lista nel rispetto delle leggi vigenti che ne regolano il diritto, costituisca un vulnus (come afferma per es. Veltroni in un’intervista a repubblica) al sistema democratico. Il vulnus sarebbe semmai fare il contrario: ammettere chi questo diritto non ha o l’ha perso per propria incapacità o altro, esponendo così gli elettori a esercitare “indifesi” un diritto su una persona che di fatto non ha il diritto di riceverlo per le ragioni sopra esposte. La legge ha proprio questo scopo: difendere l’elettore da ogni forma di inganno facendo in modo cioè che un suo diritto così fondamentale come quello del voto, non si trasformi di fatto in una diminuzione di questo diritto a vantaggio dei potenti di turno!

Almeno fino a quando questa legge permane! Si può sempre cambiare una legge ovviamente, ma per quanto la si cambi, ci sarà sempre bisogno di porre dei filtri e dei paletti: ma ve lo immaginate se si permettesse a chiunque senza condizioni e senza un minimo di filtri che ne verifichi la serietà, di presentarsi alle elezioni? Sarebbe il caos! Saremmo alla giungla, dove prevale la legge del più forte e il grosso si mangia il piccolo. Guarda caso proprio quello che sta accadendo perché si vogliono ridurre (almeno per sé) i filtri di protezione posti a difesa del diritto di voto del cittadino.
Se quindi, degli elettori o aderenti a un partito si sentono esclusi dalla possibilità di voto dei propri candidati, devono prendersela esclusivamente con i propri incapaci rappresentanti (che evidentemente non meritano la loro fiducia), e non con una legge che ha il solo scopo di proteggere il loro diritto di voto da ogni tipo di abuso.
E litigare per “i posti in lista” è una di quelle forme di abuso più aberranti in quanto manifestano il più becero clientelismo partitocratico nel disprezzo più totale dei diritti di voto dei cittadini! Di cui un cittadino non può non tenerne conto, comunque vadano le cose.

Fino a quando non si capisce questo, ogni argomento di critica alle affermazioni berlusconiane sono prive di fondamento ed efficacia, perché restano all’interno della mentalità populista e antidemocratica di cui il berlusconismo è ideologicamente intriso.

Credendo a questa balla, Napolitano, prima ancora della firma e indipendentemente che potesse non firmare, ha di fatto “abdicato” all’ideologia berlusconiana, come dimostra la sua risposta alle lettere di due cittadini. E insieme a lui tutti coloro che lo difendono anche da sinistra ma anche coloro che lo accusano senza uscire dalla stessa logica come fa Di Pietro. Proprio come Eva che non uscendo dalla logica del serpente, aveva peccato, prima ancora di consumare!

Di questo passo, Berlusconi dorma sonni tranquilli! Che nessuno, né a destra, né a sinistra, dentro e fuori la chiesa, ha saputo proporre un’alternativa che sia autenticamente altra, alla logica che lo ha portato e lo mantiene saldamente al potere!

mercoledì 10 marzo 2010

¿Adónde va Italia?

L'Italia sull'orlo dell'abisso!La fiscalía de Florencia descubrió a principios de febrero una red de favores económicos y sexuales dirigida desde la cúpula de Protección Civil, una de las pocas instituciones que todavía gozaba de prestigio en la Italia de Berlusconi. No ha sido el único escándalo de las últimas semanas. Además, la Fiscalía Antimafia de Roma ordenó la detención de 56 personas, algunas de ellas con responsabilidades oficiales, por blanqueo de dinero. Y a raíz de las investigaciones sobre este asunto se descubrió, por último, que uno de los senadores del partido del primer ministro, Nicola di Girolamo, fue elegido con la ayuda fraudulenta de la mafia.

Tal vez no sean los casos de corrupción más graves y espectaculares a los que se ha enfrentado Italia, pero sí los que más parecen haber afectado a la conciencia de los ciudadanos. A ello ha contribuido la sensación de que ninguna instancia del Estado está a salvo de los modos de hacer de Silvio Berlusconi; también la de que el país vuelve a ser víctima de males conocidos, como la promiscuidad entre la clase política y la mafia. Y se empieza a abrir paso la idea de que la inmoralidad de la vida pública ha superado ya todos los límites.

El desasosiego al que se enfrenta el país se ve multiplicado por el hecho de que la oposición a Berlusconi se encuentra tan desarticulada como el sistema político del que forma parte. Si hasta ahora un alto porcentaje de ciudadanos italianos pensaba que el problema era tan sólo el Gobierno, en estos momentos es la República en su conjunto la que empieza a preocuparles. Las instituciones italianas están siendo carcomidas desde un flanco por la corrupción y, desde el otro, por unas reformas legales que se proponen invalidar el Estado de derecho como instrumento para hacerle frente.

Nadie parece saber a ciencia cierta adónde va Italia, un país fundamental en la construcción europea, incluido el rostro más visible de este deterioro político y moral sin precedentes, Silvio Berlusconi. La estrategia del primer ministro parece haber perdido cualquier otro horizonte que no sea garantizar su propia inmunidad, desviando periódicamente la atención hacia problemas muchas veces artificiales y suscitados con la sola intención de obtener réditos de las recetas populistas. Entre tanto, Italia sigue aproximándose a un abismo del que nadie parece saber cómo alejarla. Da ElPais

Ridere per non piangere...

Attenzione qualche parola gergale lessicalizzata (moralisti astenersi!)...


Chi modifica la Verità, ci priva della Libertà

È molto interessante seguire il discorso di Formigoni che risponde alla giornalista del Corriere.it (qui in fondo un mio riassunto e i link per gli originali).

Seguite bene l’intervista e imparerete cosa bisogna dire per manipolare i fatti e quindi la verità. Manipolazione smascherata con le stesse parole dell’avvocato del Pdl!

Formigoni comincia con una affermazione:
«Se avessimo fatto degli errori»: il messaggio è chiaro: Zero Errori, Zero scuse!
Non contento rincara:
«Se fossimo stati ammessi per ‘grazia ricevuta’…»! il messaggio si chiarifica: Tutto merito nostro!
Nel frattempo glissa una verità “berlusconiana” che mina i principi di uno Stato di diritto democratico e quindi di convivenza pacifica: “È giusto partecipare alle elezioni però…”.
Come dire: anche se avessimo fatto errori – si badi bene, errori nella legge che regola il diritto di voto – avremmo avuto il diritto di esserci! Comunque?

Per questa via non si può che arrivare rapidamente alla manipolazione dei fatti: «Il Tar ha sentenziato che non c’è stato errore».

Questo è palesemente falso (disinformato?). Infatti come potete seguire dalle dichiarazioni dell’avvocato del PDL, Bruno Santamaria: il Tar ha semplicemente sentenziato che non esiste un diritto di ricusazione (fatta dai Radicali) una volta la lista ammessa. Esiste solo per chi si sente escluso ingiustamente.

La dichiarazione - tutta da verificare - del rappresentante dei Radicali Marco Cappato è che la lista di Formigoni non aveva raggiunto il numero richiesto di firme legali (che quindi risultano false)! Ma per la legge, che il Tar non fa altro che applicare, non abbiamo il diritto di saperlo!

E osano chiamarle votazioni democratiche!

L’amaro che resta è vedere un rappresentante cattolico, che sembra amare la verità solo quando gli fa comodo.

L’altra chicca è il suo commento al “signore rispettabilissimo” (mons. Mogavero) che ha espresso una sua opinione personale e da cui la Cei ha prontamente preso le distanze.
Il discorso apparentemente non fa una piega, tanto ci siamo abituati…
Ma c’è una contraddizione e una “eresia”.

La contraddizione: Mi sanno spiegare i lor signori rispettabilissimi (Formigoni e ufficio stampa Cei) come mai Formigoni e lo stesso ufficio stampa Cei, non si turbarono quando la Cei non ritenne di fare altrettanto sulle altre leggi e decreti (vi ricordate il decreto su Eluana? per fare solo un esempio!…

Spero che esista ancora il diritto episcopale di dire la propria, in quanto vescovo! E che questo non sia limitato da argomenti decisi di volta in volta dalla opportunità politica e non invece come deve essere dalla difesa di quei valori (per dirla con Benedetto XVI), non negoziabili di cui - forse qualche cattolico non lo sa ancora - fa integralmente parte la democrazia (e il di diritto che la fonda) di una nazione!

Con questi due pesi e due misure i vescovi italiani mettono seriamente in pericolo la capacità di parlare con autorevolezza alle coscienze dell’uomo d’oggi, a qualunque uomo… e non solo a coloro che in un modo o nell’altro condividono già il loro credo sempre più politico.

L’«eresia»?
È tutta papista, tipicamente vetero-cattolica: la verità dipende da chi la dice ed è vera solo se la dice il Papa! Anche qui comunque c’è una contraddizione e una menzogna: si vada a leggere il caro Formigoni cosa la Cei scrive anche sulla democrazia di questa nostra povera Italia! E si accorgerà che il “rispettabilissimo signore” che ha osato parlare non ha fatto altro che darne voce e che quindi - contrariamente a quanto il discorso vuole insinuare - la Cei non smentisce un bel niente, a meno che non intenda smentire se stessa! Infatti il portavoce Cei, mons. Pompili, non dice che non condivide le parole del mons. Mogavero (e ti pare se potrebbe!) semplicemente la Cei non ritiene di dover dare ufficialmente la sua opinione (che evidentemente ha! E che ha già espresso in mille modi in mille documenti!). Evidentemente per ragioni di ipocrita opportunità partitica come ho evidenziato sopra.

Oltre al fatto che - tanto per restare alla logica eretica per cui la verità conta solo se la dice chi dico io - mons. Mogavero è anche un rispettabilissimo vescovo e competente in materia giuridica, visto il ruolo che ricopre alla Cei e uno dei relatori del documento di cui sopra! La dicitura di “signore” usata da Formigoni in questo contesto, seppur mitigata dal “rispettabilissimo” (che appare però ironico) appare quindi ancor più offensiva e spregiativa e dice anche la considerazione che ha dei “rispettabilissimi signori” e delle “rispettabilissime signore” che dovrebbero votarlo...

In ogni caso noi cattolici sappiamo che la verità non dipende da chi la dice, ma ha valore in sé: ha una sua cogenza propria. Almeno questo un “figlio” di don Giussani dovrebbe saperlo!
Peccato che per interessi politici Formigoni se ne sia dimenticato!

Riassumendo, in questa intervista di pochi secondi, Formigoni commette tutti questi passi falsi:
Menzogna (sul Tar)
Arroganza: (Zero errori (non dimostrabili: pare che la legge lo vieti), Zero scuse)
Contraddizioni (sì alla CEI quando fa comodo)
Eresia: (la verità è solo quella detta da chi mi piace e quando mi piace)
Arroganza: (“rispettabilissimo signore”)

Concludendo mi domando: A questo punto noi cattolici dovremmo votare un uomo così?
Chiunque altro sarebbe meglio e più coerente!





Ps: il titolo del post l'ho preso dal commento di franz eccel sul sito di repubblica
Il video di Formigoni qui
il video dell'avvocato del Pdl qui
il video della protesta a Milano con le gravi affermazioni del rapprensentante radicale qui

Fuori i vigliacchi!

Peggio di un mafioso? un vigliacco!
Scuoterà la Chiesa il documento della Cei sul Mezzogiorno? E scuoterà il Paese? Tre vescovi in prima linea ne discutono con passione e sperano che non faccia la fine di quello di vent’anni fa, che ha occupato gli scaffali delle biblioteche. Lo dice monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo: «Se dopo Pasqua nessuno ne parlerà più, avremo fallito».
Il testo è assai severo e lancia allarmi. Mette in fila questioni di importanza capitale per l’intero Paese e non solo per il Sud. Eppure, è qui che le preoccupazioni sono più elevate. Osserva monsignor Giuseppe Morosini, vescovo di Locri in Calabria: «Non abbiamo bisogno di solidarietà gratuita né da parte dello Stato, né delle Regioni, né delle altre diocesi. Questo documento servirà se ognuno farà la propria parte».
Ecco il punto, che monsignor Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, spiega così: «A volte manca il coraggio. Ci chiudiamo nelle chiese, non ci sporchiamo le scarpe a camminare nelle strade. Dobbiamo impegnarci a costruire comunità cristiane antagoniste, alternative alla cultura della rassegnazione, della violenza, dell’usura, del pizzo, del lavoro nero».
Ma c’è anche altro che il vescovo di Agrigento sottolinea: «Ci siamo occupati del sacro e non della fede. La gente ci chiede sacramenti e noi glieli diamo. Ma nascondiamo la parola di Dio e sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, ma non incidono e non cambiano i comportamenti».
Mogavero teme che la Chiesa diventi icona dell’antimafia: «Tanto c’è la Chiesa che parla. È quello che mi dà più fastidio. Ma anche al nostro interno funziona così. Ci sono preti e laici contenti perché parlano i vescovi. E loro?».
Riprende l’autocritica della nota della Cei sul fatto di non aver accolto, fino in fondo, la lezione di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi e il suo grido contro le mafie: «Non tutti siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Non abbiamo avuto il coraggio di dirci la verità per intero, siamo noi i primi a non essere stati nemici della corruzione e del privilegio. Non va moralizzata solo la vita pubblica, ma anche quella delle nostre chiese. E la parola terribile «collusione» deve far riflettere anche nelle nostre comunità».
Il vescovo di Mazara propone una via: «Basta con le prese di posizione ovattate. Ogni comunità, ogni parrocchia, ogni diocesi scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari. Però, bisogna essere pronti a pagare di persona». Montenegro sostiene che qualche provocazione può favorire la riflessione: «Io non ho messo i Re Magi nel presepe, spiegando che sono stati respinti alla frontiera come clandestini. È servito alla gente per rendersi conto in quale Paese stralunato dall’ossessione per la sicurezza stiamo vivendo. Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa».
Spiega Morosini: «La nostra gente deve tornare a essere protagonista. E si diventa protagonisti con il voto e con volti nuovi». Il vescovo di Locri ha partecipato a una manifestazione contro la soppressione di 12 treni: «Proteste inutili, perché manca un progetto per la Locride. La nostra classe politica è inadeguata. Nel documento c’è una frase su questo tema. All’assemblea dei vescovi avevo chiesto di dedicare un capitolo intero». Morosini non accetta le critiche sull’azione troppo debole della Chiesa: «L’azione del vescovo Bregantini non può essere dimenticata. Di altri non parlo. Ma, forse, bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa a volte troppo timida». Da Famiglia Cristiana (n° 11/2010) per leggere l'articolo per intero clicca qui

sabato 6 marzo 2010

Convertirsi è occuparsi di sè

I primi versetti del vangelo che la Chiesa ci offre in questa terza domenica di Quaresima, ci presentano la situazione sconcertante di alcuni «Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici». La notizia del fatto corre di bocca in bocca ed arriva fino a Gesù, il quale immediatamente associa questo desolante episodio con un’altra notizia tragica di cui aveva sentito parlare: quella di «quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise».
Sono fatti di cronaca nera – diremmo noi col nostro linguaggio moderno –, sono fatti in cui tutte le generazioni si imbattono, così simili a quelli che anche noi oggi possiamo trovare aprendo uno dei nostri quotidiani: tragedie, morti, sopraffazioni, inganni… Sono i fatti di sempre; fatti che in tutte le generazioni hanno ingenerato domande, urla, tentativi di soluzione, fallimenti: “Perché succedono queste cose?”, “Cosa bisogna fare perché non succedano più?”…
E come sempre – anche al tempo di Gesù – si cercano risposte. Risposte che spesso però saltano a piè pari la drammaticità della tragedia e la fatica del capacitarsene e vogliono arrivare rapide a dare ragione di ciò che ragione non ha… Al tempo di Gesù la soluzione più immediatamente a portata di mano (la risposta pre-confezionata) era quella del principio della retribuzione: se c’è una tragedia è perché dietro c’è un peccato; se un figlio nasce malato è perché i suoi genitori o chi per essi hanno peccato; se ad Haiti o in Cile c’è il terremoto è perché gli Haitiani o i Cileni hanno peccato…
Evidentemente è una risposta assolutamente senza fondamento (Gesù stesso – come vedremo – ma già anche l’A.T. la smentiscono), una risposta che a noi oggi ripugna, eppure: quante delle nostre risposte di oggi sono ancora fatte così? Di questo tipo? Risposte pre-confezionate, luoghi comuni, frasi fatte, che impediscono di pensare radicalmente ai problemi e ci consentono di perseguire una scorciatoia per non doverci davvero mettere faccia a faccia con le tragedie del nostro mondo, con le nostre, con quelle dei nostri fratelli e con il doveroso rendere e rendersi ragione di ciò che (ci) accade? Io credo (temo) siano tante…


Oggi come allora infatti di fronte alle esperienze del non-senso, di fronte a quei fatti che mettono in discussione il normale ordine delle cose, la loro sensatezza e giustezza, la risposta umana assomiglia sempre a un tentativo maldestro e mal riuscito di trovare balbettanti – se non ripugnanti – argomenti che non riescono mai a fronteggiare le cruciali domande che i problemi pongono: come allora infatti – solitamente – si fa un po’ di chiasso nei primi giorni della tragedia e poi si preferisce mettere a tacere le domande che essa ha sollevato, riprendendo la propria vita come se nulla fosse stato. Non a caso “La vita continua” è precisamente uno dei luoghi comuni più abusati di fronte alle tragedie del nostro tempo (siano essere personali, familiari, sociali…).
Come dicevamo Gesù fa diversamente. Esattamente come noi scardina la risposta preconfezionata che la sua cultura aveva partorito per le varie tragedie della sua storia (il principio della retribuzione) – dice infatti per due volte: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico» – ma non si ferma qui, non propone un altro luogo comune diverso, non si sottrae alla tragicità della questione. Il problema rimane ed egli lo fronteggia. Il problema infatti – al di là dei singoli episodi che lungo la storia cambiano nomi e scenari, ma mantengono la stessa drammatica trama – è quello del rimando di questi fatti alla più radicale insensatezza/incompiutezza della vita. Dice infatti Gesù: «perirete tutti allo stesso modo»; intendendo dire che il problema dell’insensatezza della vita è il problema che riguarda o può riguardare tutti, anche quelli che non fanno una fine tragica: è il problema della domanda che queste tragedie pongono a ciascuna singola persona, a me. Di fronte a questi fatti che rimandano in maniera inequivocabile alla precarietà della vita, alla sua durezza, al suo possibile triste esito (che non vuol dire che non tutti vanno in paradiso, ma che non tutti muoiono sereni nel loro letto circondati da chi li ama), il problema vero su cui Gesù vuol concentrare l’attenzione di chi lo ascolta è: ma tu perirai nel non senso? Che vuol dire: Ma tu stai vivendo sensatamente? Perché se la risposta è sì, non c’è morte tragica che ti possa togliere quella sensatezza; ma se la risposta è no, non c’è morte più tardiva e tranquilla che possa dartela!
Il problema di fondo dunque, il nocciolo della questione a cui Gesù va sempre, senza fronzoli e scorciatoie, è quello della vita individuale di ciascuno, della singolare ricerca del senso, della personale costruzione di sé che si sta attuando: di che qualità è?
Ecco perché immediato scatta l’invito alla conversione: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»! Perché il rischio di “perire”, di “finire nel non senso”, di “non credere che ci sia un senso per me” è precisamente il dramma che si profila negli abissi di ciascun cuore umano. E lì bisogna convertirsi! Dove convertirsi evidentemente non è un problema di morale o una generica revisione dei propri peccati, ma è la domanda radicale che penetra fin nelle midolla e chiede: Dove è riposto il tuo senso? In chi è riposto?
Il senso di quella necessità di conversione è infatti specificato dalla parabola che compone la seconda parte del brano di vangelo odierno, dove l’attenzione è posta precisamente sulla cura cui il fico sterile verrà sottoposto, prima di essere nuovamente vagliato: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». Convertirsi per non perire nell’insensatezza consiste allora precisamente nello zappare e concimare, cioè – fuor di metafora – nell’occuparsi di sé, nel prendersi cura della propria destinazione (i propri frutti), nel non lasciar scorrere la nostra vita nella genericità come se fossimo chiunque, nell’accudire la propria interiorità con quella tenerezza con cui una madre accudisce il proprio piccolo e lo guarda sorridente, anche quando sbaglia… solo così impareremo a non evitare i drammi della vita, ma a lasciarcene scavare l’anima orchestrando un senso, come la storia seguente suggerisce:
«M come MORTE.
La cronaca gli ha dato un nome di fantasia, Tommy. Ha otto anni, frequenta una scuola elementare di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. Non è un bambino fortunato: per lunghi mesi suo padre viene ricoverato in ospedale per un tumore. Purtroppo le condizioni del genitore peggiorano e Tommy, che gli è legatissimo, non sente ragioni: non lo vuole lasciare nemmeno un giorno, vuole stare vicino a papà fino all’ultimo. Tommy fa ovviamente molte assenze da scuola in quei tragici mesi. Poi il padre lo lascia. Tommy torna a scuola – gli insegnanti sanno tutto, da sempre – e viene bocciato. L’opinione pubblica della cittadina immagino abbia mugugnato, qualche quotidiano ha espresso un effimero sconcerto, gli insegnanti avranno addotto le loro brave ragioni, il direttore non avrà certo paura dell’ispettore che il ministro ha spedito a Sesto San Giovanni. E Tommy?
[…] Tante volte sono stato invitato in scuole dove un allievo era morto suicida o aveva perso la vita contro un albero all’alba di una domenica, pieno di alcol e pastigliette. Gli insegnanti volevano me in quanto “esperto”, perché troppi di loro non sanno parlare di morte, esattamente come non sanno parlare di vita. Mi sarebbe piaciuto che la scuola elementare di Tommy avesse organizzato brevi corsi suppletivi per lui, per stargli un poco vicino a casa o in ospedale: avrebbe sentito che gli adulti non sono tutti discendenti di Erode, che ve ne sono di capaci di empatia.
Ma quanto è ciecamente crudele questa cultura dell’efficienza che non accoglie, non accompagna il tempo del pianto, nemmeno per un padre: si deve essere perfetti, capaci di rimuovere malinconie e disperazioni in nome della produttività, anche quella di una scuola elementare.
Sarà in pace il direttore scolastico, lo saranno anche gli insegnanti: hanno applicato le regole, sono stati impeccabili, l’avrà ribadito anche l’integerrimo ispettore ministeriale. Di una cosa però sono certo: che Tommy, quando diventerà adulto, sarà molto meglio di tutti loro. Lui non ha rifiutato la morte, si è fatto coraggio e ha accompagnato il padre ad andarle incontro: conosce già quanto è fragile la vita e saprà per questo rispettarla. Tommy avrà un grande maestro cui dedicare tutti i suoi sforzi migliori, un uomo conosciuto per poco tempo ma infinitamente più importante per lui, pur nella morte, di tanti ignavi e impotenti burocrati vivi» [P.CREPET, Sfamiglia, Einaudi, Torino 2009, 131-134].

giovedì 4 marzo 2010

Deformocrazia italiana

Il mio post precedente in cui riportavo quanto postato da M. Bracconi sul suo blog e i commenti relativi qui e in quelli di repubblica e altri giornali, mi hanno dato da pensare…
Ciascuno ha le sue ragioni, che sono spesso fondate e personalmente condivisibili… Per rincuorare i più preoccupati posso dire che sicuramente una soluzione più o meno pasticciata vedrete che la si troverà…

Ma mi chiedevo, forse nessuno pone la questione di fondo a cui in qualche modo però allude Bracconi (e per questo l’ho postato tra tanti): che idea di democrazia, di Stato, di Italia, di “popolo”, si manifesta in tutto questo? Ma ve la immaginate una partita di calcio in cui si ammettessero “azioni” irregolari?
Si dice giustamente che senso ha non far partecipare al voto per “vizi di forma” una percentuale notevole di elettori? A parte che non si impedisce di votare ma è chiaro che le possibilità di scelta diminuiscono… Poi sui vizi di forma che di banale forma non sono ha già detto Bracconi e diremo ancora noi più sotto…

E se poi la squadra ammessa vincesse? Ci si domanda che senso abbia una vittoria del PD se al PDL, per regolamenti approvati e attuati anche da lui e da lui violati!, fosse negato di partecipare? Già e che senso avrebbe domani se il PDL vincesse? Sarebbe in ogni caso, d’ora in avanti, chiunque vincesse, una democrazia definitivamente (stante così immutato l’atteggiamento di fondo) azzoppata…

E così tristemente mi sorgeva il pensiero che mentre molti sognano la Terza Repubblica qui dobbiamo ancora iniziare la Repubblica Zero: di un minimo di regole, non solo condivise, ma alle quale tutti, proprio perché condivise, devono imparare ad “amare” e obbedire “piegandovisi” servendole!

Ancora… Ma allora fino ad oggi che elezioni abbiamo avuto? A mio parere il caso Lombardia è peggiore di quello del Lazio… In Lazio sembra proprio un pasticciaccio “di equilibri di lista partitocratico”. Sempre pessima politica ma in fondo cose già viste con la “fatica della necessaria mediazione politica” e la meschinità umana…
Ma in Lombardia? Si parla di “firme fotocopiate”, palesemente false! E non mi interessa qui l’ipotetico reato…
Quello che mi interessa notare, chiarendo ulteriormente il pensiero è questo:
Il PDL in Lombardia e non solo, di firme di appoggio potrebbe averne autentiche a milioni! Allora quale schema mentale può portare a “sottostimare” leggi, regolamenti, cittadini, politici, magistratura, parlamento, governo, presidenti di repubblica, camera e senato e via dicendo, con “fotocopie della verità”?
Oggettivamente, al di là delle buone intenzioni e buona e pulitissima coscienza (forse, come diceva qualcuno, perché mai usata?) di alcuni, come cittadino io mi sento umiliato, disprezzato, insultato, proprio nella mia “fede” di cittadino che “crede” nel valore delle regole e delle istituzioni democratiche… Perché non è un problema di comportamento di quello o di questo che qui si tratta, ma, come la caciara dimostra, del venir meno di un sistema, del “sistema Italia”, nel suo stesso fondamento: il sistema elettorale (già di per sé tendente a espropriare il cittadino di fondamentali libertà democratiche: coloro che gridano oggi contro l’attentato alla democrazia perché viene impedita la scelta, si ricordino del limite imposto dal divieto di dare preferenze a livello nazionale: la scheda sarebbe nulla)…

Un sistema, a qualunque livello dell’umano, se non si regge sulla verità e non crea le condizioni per ricercarla tutta intera, si fonda sulla menzogna, il demagogico, il populismo, il politichese: declinazioni dell’ipocrisia assurta a sistema!

Formigoni chiede di verificare tutte le liste! E probabilmente (nel domandare ciò che dovrebbe essere fatto d'ufficio) ha ragione nel “sottintendere” che il “vizietto” è diffuso e trasversale: Ma che triste ragione!

Dire che dovrebbero andare tutti a Canossa perché “Il così fan tutte” aggrava le colpe di chi pretende di essere (almeno in politica) diverso, è dire una ovvietà che nasconde in fondo il vero dramma.

Quale?

In fondo in fondo, nella logica di una tale denuncia si consuma la vera apostasia laica di uno Stato che non c’è più da tempo.

Da oggi lo sappiamo con certezza, mentre fino a ieri lo sospettavamo soltanto: l’Italia come Stato e nazione non esiste più, quel che resta è puro nominalismo. L’altro ieri pensavamo solo mediatico, e assistevamo ieri impotenti al nominalismo politico (guardate soltanto alle promesse mai mantenute di Berlusconi e alle non proposte, continuamente proposte, dal PD) e ora persino nelle sue leggi e regolamenti di attuazione (senza le quali le leggi esistono ma non agiscono).
Parlavo di democrazia azzoppata… ma una democrazia azzoppata è una democrazia morta! Non è dittatura, non è democrazia, è una Italia senza forma, a-morfa, de-forme… Senza società e senza Stato, pur avendo società e Stato che però non hanno nei fatti regole valide per tutti (e quindi è come se non ci fossero: regole, società e Stato). E come una slavina l’assenza di regole rispettate si trascina dietro lo Stato e i suoi cittadini.

L'arroganza del potere...

Le Corti d’Appello bocciano i ricorsi sulla liste, il Pdl insorge e parla di ”democrazia a rischio”.

Ieri, la nientemeno seconda carica dello Stato aveva detto “si badi alla sostanza e non alla forma”. Oggi i vertici del Pdl dicono che “non si deve decidere in base a un timbro tondo o quadrato”.

La discussione si potrebbe chiudere rapidamente ricordando che in democrazia - e solo in democrazia – la forma è sostanza.

Ma forse vale la pena di inserire un corollario.

Se chi governa un paese dice che non conta se un timbro è tondo o quadrato, se una firma c’è o non c’è, se si arriva in tempo o in ritardo, chi glielo spiega poi ai cittadini che è loro dovere pagare le tasse nei tempi fissati, presentare le domande per le badanti entro la scadenza, conciliare la multa entro i 60 giorni previsti?

da Tondo o quadrato, che sarà mai di Marco Bracconi in Repubbica.it
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