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giovedì 9 dicembre 2010

Non il «fare», ma il «fare in memoria» conta!


Ho letto ultimamente qualcosa del sindaco di Firenze, Matteo Renzi.

L’occasione, più per curiosità che per altro, è stata la sua visita ad Arcore, che ha scatenato… la sua fervida fantasia in propria difesa. Non che il fatto di Arcore, mi abbia infastidito, i nostri politici ci hanno abituato a ben altro. Quello che mi ha incuriosito è il “personaggio” e le sue argomentazioni. Il che mi ha fatto riflettere andando ben oltre la sua persona.

Dunque seguendo la logica di Renzi: Se avessi da sbrigare personalmente qualche pratica improcrastinabile con il mio Sindaco e visto che lui è molto occupato (non ammalato!), ed io pure (magari con l’agenda piena di apparizioni TV e convegni), posso benissimo accettare un appuntamento a casa sua! e io – sempre secondo il Renzi-pensiero – per amor di Patria, dovrei andarci! A pelle mi vien da dire: Tipicamente italiano! Ma ve lo immaginate una cosa del genere altrove? Cose che accadono solo nella Repubblica delle banane! E se mi seguite, capirete pure perché queste cose accadono solo lì!

Come giustamente ha notato Bersani, forse, secondo alcuni, non accorgendosi di dire una cosa intelligente, il Sig. Renzi doveva esigere un incontro nelle sedi istituzionali… ed eventualmente rendere pubblico un eventuale diniego.
La controcritica di Renzi a chi lo critica si può sintetizzare più o meno così: chi lo critica, è un formalista, fa del bieco antiberlusconismo, ha un atteggiamento ideologico…

Noto che è certamente possibile che qualcuno possa farne una questione ideologica, formalistica, ecc.… D’altronde è anche vero che spesso accade di arrivare alla stesse conclusioni pur partendo da presupposti completamente diversi, magari da discutibili intenzioni e motivazioni. Proviamo però a non liquidare queste critiche al suo operato così sbrigativamente come egli fa. Non è detto cioè che l’affermazione di Bersani, non abbia in sé un fondamento più vero e autentico di quel che appare a una prima superficiale lettura. E questo rivela che forse Bersani è una persona più intelligente di quel che ne pensa lo stesso Renzi. Certamente di una intelligenza diversa dalla sua: quella che nasce più che dal ragionamento, dall’integrità della persona. Si chiamava una volta “saggezza”, ma ci accontenteremo di chiamarla “buon senso”.

Ma andiamo con ordine. Spesso mi è da guida, in quest’Italia, una frase del compianto cardinale Pappalardo, vescovo di Palermo, che affermava (non so se citava, ho saputo poi che anche Falcone diceva la stessa cosa) che la mafia, prima di essere una associazione a delinquere, è un modo di pensare.

Corruzione della mente, prima che dell’agire e… dei soldi! Dove il pensiero si fa sostanzialmente clientelare, e non tiene conto dei diritti e dei doveri di ciascuno e dei rispettivi ruoli. In questo senso per dirla tutta, al di là delle sue buone intenzioni che gli concediamo senza fatica, quella di Renzi è una caduta di mentalità, più che di stile. Di mentalità “mafiosa” e “clientelare”, molto “berlusconiana” nel senso del “ghe pensi mi”: frutto di puro solipsismo narcisista...

A proposito di narcisismo… Ho sentito e seguito qualche sua intervista: non so… ma mi dà un'impressione di uno eccessivamente sicuro di sé, fino alla tracotanza e direi “insensibilità” nel liquidare atteggiamenti altrui.

“L'uomo del fare” quale è e si autodefinisce (d'altronde come dargli torto: a cosa serve un Sindaco se non per “fare”?) ha in sé questo rischio: il credere, perché ne è capace (e pare che lui ne sia capace!), di dover insegnare a tutti cosa bisogna fare. E passi. Il problema è che Renzi vuole insegnare a tutti anche il come!

In fondo questo, uno può dire, è un problema suo! Già, solo che la cosa mi sembra oramai un problema generale. Vediamo di approfondire.

Quello che manca alla politica di oggi è una visione, come dire,  più “ecclesiale”. Bersani forse manca di “carisma” e su questo possiamo convenire, forse non piace neanche d’Alema (un altro narcisista come Renzi e Berlusconi: dio quanto si “com-piacciono”!) ma a meno che non si voglia fondare un altro partito (vedi Fini), fin che si sta insieme (insieme!), è meglio che le cose si facciano assieme. Anzi. Meglio non farle o dirle proprio certe cose, se per farle si creano continue rotture (vedi Veltroni): a meno che non si voglia fare le “primedonne” (vedi quasi tutti)! Ma la politica non è cabaret (qui meglio non vedere!). Perché ciò che conta, non è vincere (le elezioni) ma stare insieme. E questo non, come si dice, perché “si vince solo se si sta insieme”, ma perché lo stare insieme è già vincere, è la vera vittoria, da cui nascono le altre (non dimentichiamo che la politica è comunque fare! Ma non fare comunque!). Questo è possibile però solo se, se ne abbraccia la storia. Storia invece che Renzi vuole rottamare, semplicemente perche “datata”.
Dimenticando che non si rottamano mai i valori, tantomeno  le persone, ma gli ostacoli alla loro valorizzazione! Renzi – ma non è il solo – non si rende conto che proprio questa sua “forma mentale” testé descritta è il cuore del suo (e nostro, in quanto umano) problema. Problema che anche in lui, ascoltandolo, non sembra solo politico, ma esistenziale, perché è il suo modo di esserci (il dasein) nell’incontro col reale: Il rifiuto, della storia (nel bene e nel male) che l’ha preceduto. Il suo agire è un agitarsi senza “memoria” che non lo porterà lontano perché non ha radici… al massimo ad Arcore (nel senso che dirò più avanti)!

In fondo, delle sue (o altrui) idee e trovate per quanto geniali ed efficaci, non ce ne importa un fico secco, quello che servirebbe agli italiani, tipici geni solipsisti, invece è che si trovasse qualche idea e azione normale per compattare non solo il Pd ma anche la Politica e il Paese.
Questo esige, il rispetto dei ruoli di ciascuno, anche in casa propria! Ma vedo che gli è più facile parlare col Presidente del Consiglio, che col Segretario del suo partito!

Misteri della politica italiana? No! Smemoratezza! Che rivela non tanto il livello ma la qualità del problema. Manifesta a quale profondità antropologica si è inceppato il meccanismo del cuore. Palesa cioè il tipo di “sfascio” dell’uomo d’oggi e quindi del politico e della consecutiva politica. In Italia e nel mondo.

Prova ne è, che a sua difesa il Renzi pensa di donarci questa chicca del suo megapensiero, che è la quadratura del cerchio dell’analisi fatta sopra. Il Nostro, indirizzato a coloro che nel suo partito lo criticano, dice: «Capisco la critica sul luogo simbolo. Ma se il premier mi dà appuntamento ad Arcore, vado ad Arcore. Penso che il Pd dovrebbe lavorare per cambiare il premier, non per cambiare il luogo degli incontri». Se avesse memoria (anche solo biblica, visto che è cattolico), saprebbe che da sempre nella storia umana, ogni re si è costruito una reggia. E il loro numero e magnificenza simboleggiano la potenza del loro potere. Versailles non è nata per capriccio. E nemmeno Arcore…
Da sempre l’esercizio del potere è indicato con i nomi dei luoghi dove si esercita (Il Quirinale, Palazzo Madama, La Casa Bianca, Il Cremlino, ecc.). E la casa, ogni casa, è sempre il luogo simbolico di chi la abita.

E, per converso, la presa del potere ha sempre coinciso con l’occupazione o la distruzione dei luoghi dove si esercita. Quindi sempre è accaduto – come persino il cosiddetto popolino sa – che per cambiare il premier occorre cambiare il luogo degli incontri! Perché anche la Politica, cioè l’arte della convivenza reciproca, si nutre di simbolica e di riti (vedi, la bandiera, ma anche un semplice doveroso “buongiorno!”).
Eppure Renzi se ne esce con una frase ad effetto dicendo di capire ciò che invece non ha veramente capito, in quanto lui (ma anche chi lo critica) allude alle cene e ai festini che invece qui proprio non c’entrano, perché ben altro e alto dovrebbe essere il discorso!
Ma si sa la “memoria” oggi non va oltre la cronaca … Certo che se queste sono le nuove leve della politica, poveri noi!

Per fortuna la memoria del Natale mi ha aperto il cuore alla speranza portandomi, quasi per associazione di idee, a fare una constatazione che non avevo mai fatto prima: Quando Dio ha voluto abbattere ogni potere oppressivo e liberare l’umanità, si è dato un corpo ma non una casa (Luca 9,58)!
Una ragione ci sarà! Forse oggi lo capisco meglio.

E se anche la politica imparasse a ripartire da qui? Dopotutto compito della Parola di Dio è “ricostruire” la memoria dell’uomo. E l’uomo biblico, è per definizione «l’uomo che fa “memoria”».

lunedì 6 dicembre 2010

To the President of US


Egregio Signor Presidente Obama,
mi scuserà se le scrivo in italiano, ma non conoscendo l’inglese, preferisco scrivere nella lingua che conosco meglio. Certamente non le mancheranno chi potrà tradurle questa lettera – casomai capitassero su queste pagine. Da parte mia cercherò di scrivere in un italiano semplice anche a costo di ignorare lo stile.
Vorrei porre qualche domanda a lei che ritengo una persona capace di comunicare con tutti. Ovviamente se lo ritiene opportuno può consultarsi anche con il suo Segretario di Stato, la Signora Hillary Clinton o con chi vuole del suo staff.

Tutti sanno che gli Stati Uniti sono una grande democrazia. Che ha a cuore la democrazia non solo al proprio interno, ma nel mondo intero. Proprio per questa passione democratica, gli USA si sono impegnati anche militarmente ed economicamente in tutto il Pianeta.

Le rivelazione di WikiLeaks evidenziano però alcune contraddizioni di un governo come il suo che vuole definirsi amante della democrazia e della giustizia. Spero che questo non la faccia sobbalzare sulla poltrona e non venga preso come un atteggiamento ostile verso gli USA, cosa che sarebbe contraria alla mia indole.

Eccole le domande:

  1. Come si concilia con l’anelito democratico, il sostenere (politicamente, economicamente, logisticamente, militarmente…), Capi di Stato e di Governo che dai vostri stessi funzionari sono giudicati incapaci di governare, professionalmente, democraticamente e onestamente una Nazione? La lista è lunga e va da Berlusconi a Karzai passando per Mubarak e comprende quell’«imperatore nudo» di Sarkozy.
  2. Gli Stati Uniti si oppongono a politiche di Capi di Stato e di Governo come quello nord-coreano e iraniano: questo non è in contraddizione con il sostegno dato a governi e Capi di Stato altrettanto antidemocratici come quelli descritti sopra? Trova esagerato il mio accostamento? Non nella sostanza però: perché come può essere democratico un presidente arrogante e che si comporta da imperatore? Non crede che ci siano infiniti modi per essere antidemocratici e nemici della libertà?
  3. Non crede che il vostro comportamento verso questi Capi di Stato e di Governo offenda l’azione di milioni di loro concittadini onesti che credono negli stessi valori democratici e morali del Popolo americano e che quindi non possono non sentirsi traditi e ridicolizzati dalle vostre relazioni amichevoli con i loro governanti su cui condividete (qui sta il problema!) lo stesso giudizio negativo?
  4. Per essere democratici non basta essere eletti democraticamente, occorre anche governare democraticamente: a) Non crede che questo vostro modo di comportarvi sia una offesa allo stesso Popolo americano che l’ha eletta per difendere veramente e non solo a parole questi valori? b) Non crede che questo debba essere anche il criterio per definire “democrazia” ogni sistema politico? c) Non crede che dei cittadini abbiano il dovere di potere verificare sempre e comunque tutti gli aspetti della azione politica dei propri governanti? d) E non crede che da questo dovere morale ne scaturisca anche un diritto politico inalienabile?
  5. Il bene autentico di una Nazione non può che essere un bene per tutti gli abitanti della Terra e quindi per tutti gli Stati: a) Non crede che questa verità dovrebbe essere un principio fondamentale di ogni azione diplomatica? b) Non crede che sia negli interessi autentici degli USA, la difesa degli interessi autentici di ogni Nazione o Popolo? c) Come crede che questo bene possa essere custodito sostenendo Capi di Stato o di Governo incapaci o disonesti?
  6. Non crede che sia necessario rifondare un nuovo modo di costruire le relazioni diplomatiche delle Nazioni?
  7. Non crede che anche nelle relazioni diplomatiche, la verità e solo la verità può costruire la pace tra gli uomini e con Dio, rendendoci autenticamente liberi?
  8. Come crede che possa nascere un mondo migliore se le relazioni internazionali sono fondate sull’ipocrisia?
  9. Come può pensare che Capi di Stato e di Governo anche solo bugiardi, possano costruire un mondo migliore?
  10. Per bugia intendo anche nascondere la verità a coloro verso i quali si ha un debito di verità. Debito che nasce anche semplicemente perché ci hanno eletto a un posto di responsabilità: Non crede quindi che tra questi bugiardi ci sia anche lei e il suo Segretario di Stato?
  11. Io non chiedo come Julian Assange, le sue dimissioni, anche perché dovrei chiederlo a tutti i Capi di Stato e di Governo del mondo, compresi quei loro rappresentanti che siedono alle Nazioni Unite e che sono la cinghia di trasmissione delle ipocrisie dei propri rispettivi governi. E per questo trovo “logico” che lei e il suo governo li abbia fatti spiare nonostante accordi diplomatici che sappiamo ipocriti. Immorale ma perfettamente logico in un mondo dove l’immoralità politica ed economica e la menzogna regnano sovrane. Logico ma perverso. Ora invece di entrare nella logica dell’ipocrisia cadendo nel sospetto e nella diffidenza reciproca, non era meglio che un Grande Uomo come lei, stimato da tutti e che è a capo di una grande Nazione, spezzasse questo cerchio che si fonda sul principio anticristiano e antidemocratico che le nazioni e i popoli non possano essere veramente amici?
  12. Il peccato, il crimine di Julian Assange, è stato quello di aver fatto lui quello che avrebbe dovuto fare lei, Signor Presidente. Questo era il sogno degli americani, questo era il sogno di coloro che hanno gioito per la Sua vittoria nel mondo intero. Questo, Signor Presidente, è il sogno che lei ha infranto. Davanti a questo crimine (uccidere il sogno di democrazia e libertà e verità di interi popoli), non c’è pena sufficiente per poterla espiare. Non basterebbero mille inferni… A meno che… Lei dia finalmente un calcio a ciò che fino ad oggi è stato tra gli Stati e cominci anche nelle relazioni internazionali a creare uno stile nuovo di incontrarsi. Ora non crede che l’accanimento con cui date la caccia ad Assange sia la dimostrazione pratica che non avete nessuna intenzione di cambiare?
Grazie, Signor Presidente per avermi letto fin qui,
aspetto da Lei una prova concreta di cambiamento.
Cordialmente Mario

domenica 5 dicembre 2010

L'Arco esistenziale

Dice san Paolo nella lettera ai Romani: tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione. E qual è lo scopo di questa istruzione? Affinché – spiega – non muoia la nostra speranza anzi cresca ancor di più in una “speranza viva” e vivificante…

Ora però nessuno libro, nessuno scritto, nessuna opera artistica per quanto sublime, dà speranza, anzi più è sublime e più grande è la nostra disillusione. Finito di leggere o di visionare un bel film e tornati alla cruda realtà, il nostro sconforto diventa ancor più grande: quello che abbiamo visto, quello che abbiamo letto non ha cambiato la realtà che viviamo anzi ne evidenzia ancor di più la negatività e ci rivela i nostri limiti a modificarla!
Tempo fa, lessi un articolo che spiegava come alcuni spettatori finita la visione del film che mostrava un “mondo fantastico”, uscendo dalla sala si sono sentiti assalire da un sentimento di rifiuto della realtà, fino ad avere pensieri suicidi… Esperienze limite certo… ma che possono insegnarci qualcosa sul modo con cui dobbiamo comprendere queste parole della lettera ai Romani (e quelle analoghe nella Bibbia).

Come è normale che sia, spesso noi leggiamo a partire dalla nostra esperienza, ma altrettanto spesso ci rendiamo conto che è necessario fare uno sforzo ulteriore per capire l’esperienza dell’altro anche se usa le nostre stesse parole, altrimenti – come in questo caso – le sue parole sono prive di senso o peggio suonerebbero non solo false ma radicalmente “omicide” perché illusorie… Quindi come comprendere le parole di San Paolo? Che cosa vuol veramente dire? Sappiamo che san Paolo non poteva avere in mente il nostro sistema scolastico. Ai suoi tempi non si insegnava nei banchi di scuola su libri scolastici. Né aveva in mente le scuole filosofiche di Atene…

Quando Paolo parla di istruzione (didaschalian) intendeva ben altro rispetto al nostro concetto di istruzione. Quello che lui intendeva con “istruzione” era leducazione pratico-esistenziale (cfr la Didaché). Proprio quel tipo di insegnamento che intercorre tra un maestro di vita e un suo discepolo: un insegnamento che nasce da una comunione di vita, da una vita in comune, da uno scambio di vite. Lo si vede bene nei Vangeli quando applicano questa espressione a Gesù dicendo – ad esempio – che “insegnava in parabole” e ancora che chiamava a sé – nota bene dice: chiamava/chiamò “a sé” – i suoi discepoli e li istruiva. Un esempio concreto a tutti noto è certamente la lavanda dei piedi descritta nel vangelo di Giovanni: come Gesù insegna? Prima fa un gesto – si toglie la veste e si china a lavare i piedi ai discepoli – e poi con una domanda che sollecita attenzione e introspezione ne spiega il significato. Letteralmente lo dispiega, toglie le grinze del nostro cuore e della nostra mente, per portare il discepolo non alla semplice comprensione del gesto ma all’accoglienza e all’imitazione cambiandone il cuore (e quindi non è imitazione volontaristica pur essendo coinvolta la volontà)… Tutto il comportamento di Gesù è all’interno di questa logica.

Se questo è l’insegnamento-istruzione che Paolo intende (e così anche gli autori biblici) è chiaro che gli scritti a cui sempre Paolo fa riferimento, non sono semplicemente dei fogli di carta o di pergamena o antichi papiri… ma sono qualcosa di più di testi scritti: sono gesti, opere concrete, azioni di Dio nella storia a cui questi scritti rimandano, proprio come i racconti dei Vangeli non sono altro che un memoriale dell’agire stesso di Dio in Gesù Cristo nella storia concreta dell’umanità! E non a caso erano scritti che vengono letti nel contesto di una azione liturgica (sinagogale o ecclesiale). Se questo è l’insegnamento e se questi sono gli scritti (e solo se sono questo), allora si può affermare che “danno”, suscitano e nutrono speranza. E di speranza autentica e non illusoria!

Cioè la speranza a cui Paolo – e i cristiani e gli ebrei – fanno riferimento, non è il frutto del desiderio di cambiamento dell’uomo, che per quanto nobile è incapace di portare “il peso” della propria e altrui storia e si scopre nei fatti sterile perché inadatto a farsi concretezza duratura (perseveranza). La speranza cristiana è invece frutto della promessa di Dio che si fa concretezza storica in chi la accoglie appagando il desiderio dell’uomo orientandolo verso un compimento fecondo e concreto oltre se stesso. Ben oltre persino i confini del proprio desiderio. Orientamento che include proprio per questo anche maturazione e quindi “crisi” purificatrici.

Ho letto di autori – soprattutto di cultura marxista – che parlano di “ottimismo della volontà nonostante il pessimismo della ragione”! Un ottimismo così – sia detto senza offesa – nel migliore dei modi è volontarismo ebete. Come arrivare allora ad avere – per usare lo stesso linguaggio – l’«ottimismo della ragione»? Non limitandosi a guardare il buio della notte ma imparando a guardare e a lasciarsi guidare dalla luce delle stelle! Che proprio perché è buio si vedono. Basterebbe anche una sola cometa… La speranza si manifesta così come la capacità data all’uomo che la accoglie, di vedere la luce dell’agire di Dio nel buio della vita dell’uomo (che proprio per questo non è mai totalmente buia e proprio perché buia – debole – consente di vedere la luce – grazia). Questo fondamento sull’agire di Dio è – mi si passi il termine – l’«ottimismo della ragione». È la ragione che spera e fonda la propria speranza sulla promessa fattuale di Dio. Ecco perché la speranza è infallibilmente certa e ci rende storicamente efficaci! E può cantare con Maria il Magnificat, «per le grandi cose che il Signore ha fatto», fa e farà in me e nella storia di ogni vivente, dispiegando «il suo braccio potente». Quello che dobbiamo fare è allora affidarci ai segni storici della sua promessa. Promessa che infatti come tutta la scrittura ci insegna, non è mai fatta di parole ma di azioni concrete di Dio: tutto sta nel “fissare lo sguardo” e nel “tendere l’orecchio” e “muovere i piedi”. Ecco perché le Scritture, cioè la memoria storica dell’agire di Dio nella storia umana, ci consolano e di con-fortano sostenendoci nel perseverare nell’opera di giustizia-pace che Dio ci ha affidato. La nostra fede, la nostra speranza nell’essere messa alla prova da una storia che sembra – dico sembra – smentirla, diventa sempre più forte nel radicarsi sul fondamento della fattiva promessa di Dio. Perché proprio qui nasce la speranza non illusoria: nel paradosso di una tensione storica tra una realtà di liberazione incompiuta e una promessa divina di compiutezza (ri-conosciuta) già in atto.

La speranza è come la corda di un arco. Tesa tra i due estremi, li tiene uniti lasciandosi “tendere” dalla loro contrapposizione. Sapendo che solo grazie a ciò essa acquista forza per penetrare nel vero significato del proprio vissuto. Un estremo che ti ricorda che la tua storia è piena di fallimenti, di sogni non realizzati, di una arsura di giustizia che continuamente ti divora nella ricerca del suo appagamento… e l’altro estremo dell’arco che ti dice invece che la promessa di Dio si trova proprio in quello che stai patendo. Questo vuol dire sperare contro ogni speranza. È la tensione dinamica che nasce dall’at-tesa del compimento.

L’immagine che il profeta Isaia ci propone nel sostenere la nostra speranza, tiene proprio conto di questi due poli della speranza: è dal tronco di Iesse che nasce il virgulto che realizzerà definitivamente le promesse di Dio. Ora l’immagine non è così idilliaca come sembra a prima vista, basta leggere cosa dice poco prima. Quel tronco a cui fa riferimento Isaia è la devastazione a cui è ridotto per la persecuzione e l’invasione il frondoso albero della tribù di Giuda, il popolo di Israele. È ciò che resta dopo il passaggio degli invasori che come cavallette desertificano i raccolti e le foreste… è ciò che resta di un popolo, dove ingiustizia e corruzione la fanno da padrone, dissolvendo la pace in un carrierismo ruffiano e strutturalmente corporativo e mafioso. Ebbene, ci ricorda Isaia, quando oramai tutto è perduto – non, “sembra perduto” ma è effettivamente “tutto perduto”, perché resta solo il tronco di un albero oramai secco e senza vita – ecco che la vita nuova rinasce – per dono di Dio – dalla morte del vecchio…

Ma attenzione, l’albero vecchio (il tronco di Iesse) è veramente morto! Ed è necessario che ogni albero che non produce frutto muoia perché solo così noi possiamo farne concreta esperienza smascherando come false le sue promesse di grandezza e benessere e convertirci dalla sua logica fallimentare (cfr Vangelo)! E vano sarebbe volerlo riportare in vita, anche perché riportare in vita il vecchio albero – il vecchio modo di vivere, fatto di ingiustizie generatrici di guerre – sarebbe ripetere il ciclo della devastazioni reciproche. La vita che rinasce dall’albero morto non è la riedizione della vita dell’albero (si riaprirebbe – dicevamo – il cammino che l’ha portato alla “devastazione”) ma è veramente nuova vita, un altro modo di vivere e quindi di essere: un modesto indifeso germoglio che ci rende capaci (“vi conceda” dice Paolo) “di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti… di Cristo Gesù”. È quindi veramente una nuova creazione, in cui il modus vivendi di Dio, diventa il modus vivendi dell’uomo. E quindi Dio e l’uomo diventano uno: Per questo è duratura anche nell’uomo.

Ecco perché quel modo di Gesù di vivere la morte, uccide l’odio che crea la morte e dona la vita a chi fa propria la logica del Regno che è la misericordia del Padre. Misericordia che si scaglia contro la radice del male, contro il buio nel cuore dell’uomo e mai contro gli uomini che sono sempre da lui considerati e trattati come figli. Per questo «brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» e brucia di impazienza (“già”) e « già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene [già adesso] tagliato e gettato nel fuoco», per far rinascere nuovi polloni sugli agli alberi secchi e sterili – ridotti a concime – della vita di ogni uomo.
Ecco perché la speranza esige questa conversione che prepara «la via del Signore» e raddrizza «i suoi sentieri» che apre al dono di una vita nuova in quanto diventa una domanda-preghiera di “ri-creazione”. Conversione necessaria ma non sufficiente a dare speranza, come riconosce anche il Battista: «Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ogni giorno della nostra vita è questo Avvento, questo “Adesso”, che ci è dato (il “tempo opportuno”), perché questo “fuoco” divampi nella nostra vita e diventi il nostro “futuro”. «Futuro di Dio dato all’uomo», che è un altro modo di dire «Speranza».

venerdì 3 dicembre 2010

II Domenica di Avvento: La speranza che ci abilita a Vivere

Le letture di questa II domenica di Avvento hanno proprio il sapore di un’introduzione al mistero del Natale… Siamo ancora sulla soglia, ma già si intravede che ciò che ci aspetta è qualcosa di decisivo… La Chiesa ci accompagna in questa attesa, “incuriosendoci” sulla portata dell’evento… Pone infatti in campo parole che attraggono le orecchie e il cuore di ciascuno… Chi infatti non si sente stuzzicato da frasi come «In quel giorno avverrà...», «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione», «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»…?


Se anche facessimo finta che non fossero parole bibliche, esse rimarrebbero comunque cariche del loro fascino:

- Chi, infatti, non ha almeno qualche volta sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...»; che si trattasse del giorno della nostra morte, della venuta del Messia, dell’appuntamento con chi si spera di conquistare, di un colloquio di lavoro, di un incontro dopo tanti anni…?

- Chi, sommerso dal disorientamento e dalla confusione nel maneggiare questa vita, non ha desiderato almeno ogni tanto di avere per le mani un manuale d’istruzioni, in modo da poter dire che «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione»?

- E infine chi, esausto per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, non ha sperato che «il regno dei cieli» – qualsiasi cosa esso volesse dire – fosse «vicino»?

Ma ri-collocate nel contesto biblico, che è il loro, che cosa vogliono dire queste parole così cariche di aspettative, aspirazioni, sogni, speranze, attese?

La prospettiva di Isaia è – ancora una volta – decisamente luminosa… sta parlando di qualcuno che arriverà: qualcuno fortemente attaccato alla storia dell’umanità, come un germoglio al suo tronco e un virgulto alle sue radici, e nello stesso tempo altrettanto fortemente inondato di profumo divino… qualcuno che contro i violenti e gli empi, starà dalla parte degli umili e dei miseri… Quando arriverà le leggi naturali della vittoria del più forte, della selezione naturale, della paura come anima del mondo, saranno stravolte, per lasciare il posto alla giustizia, alla fedeltà, al dimorare insieme, allo sdraiarsi accanto, al trastullarsi…

Eppure Isaia non sta scrivendo in un momento facile per il suo popolo: niente fa prevedere un lieto fine della situazione, tanto meno un lieto fine cosmico, che coinvolga il mondo nel suo insieme; dilagano corruzione, dispotismo, idolatria, pressione straniera, ingiustizia sociale, povertà, indigenza…

Ma allora perché Isaia interviene con queste parole promettenti? Interessante quanto risponde H. Simian Yofre, mettendo in luce le idee che da questo brano emergono con forza: «Anzitutto la convinzione che davanti ad ogni crisi, non soltanto personale, ma anche e soprattutto sociale, istituzionale, nazionale, perfino internazionale, la fede non è ridotta al silenzio, ma ha una parola importante da dire. Essa genera una parola critica circa la situazione concreta; così il pensiero escatologico, nel momento stesso in cui prospetta un mondo nuovo, non consente una fuga dal presente, ma fa maturare una visione obiettiva e critica a riguardo del presente, e specificamente dell’ingiustizia, del caos istituzionale, dell’ambiguità di certi rapporti politici, della perdita d’identità profonda del popolo. Il pensiero escatologico profetico non si accontenta di proporre una soluzione “spirituale”, ma comincia da un’analisi lucida dei mali presenti nella società!».

Ecco che a noi, allora, a noi che almeno qualche volta abbiamo sognato di sapere cosa «In quel giorno avverrà...», viene rimesso in mano il nostro oggi, il nostro presente, la situazione concreta.

Ma… non eravamo partiti da un oggi, un presente, una situazione concreta inospitale, inabitabile, mortifera? E allora che senso ha il ricollocarci del profeta in essa? Se non eravamo capaci prima, non lo saremo neanche ora…

E allora? Allora… la chiave di volta è proprio il fatto che né una fuga spiritualistica da una storia avvelenata, né uno sforzo volontaristico e solipsistico per resistere nel viverla, sono le vie indicate dal profeta. Egli ha una prospettiva diversa: la vita può tornare ad essere vivibile perché è abitata dalla speranza in una promessa: che questa storia è inondata da Dio («la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare»). Che è la medesima speranza di cui parla Paolo quando afferma: «teniamo viva la speranza»! «Paolo – infatti – raccoglie l’eredità di una processione interminabile di antichi padri e profeti, grandi e piccoli, uomini e donne del popolo, che per millenni si sono lasciati impregnare, plasmare e confortare dalla trasmissione di una “speranza”, prima raccontata e poi scritta, in innumerevoli testimonianze, che di generazione in generazione, si intersecano, si riprendono, si illuminano a vicenda. Dio interverrà a salvare il suo popolo, e attraverso di questo tutte le genti, per mostrare finalmente il suo volto. Il peregrinare dei patriarchi, l’esodo, l’esilio, la decadenza della fede e lo sfaldamento del popolo, non riescono a spegnere, anche se ridotta talora a un lucignolo fumigante, la fede di chi ancora attende» [Giuliano].

Ma come vivere il nostro oggi alla luce di questa speranza? Cosa «è stato scritto per la nostra istruzione»?
Purtroppo o per fortuna, non si tratta di un manuale di istruzioni… piuttosto di un invito: «Accoglietevi gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi». Non è un modello a cui tentare di assomigliare, ma una persona (Vivente!) con cui entrare in relazione: in una relazione talmente intima da essere conformante! Questa relazione è la speranza realizzata della presenza del Signore nel nostro oggi.

L’attesa trepidante a cui ci invita la Chiesa è allora quella di Uno che amandoci per primo introduce una nuova logica nel mondo: quella dell’accoglienza, dell’«avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù». È ancora una volta la proposta di una vita che si fa vivibile perché com-passionevole, perché com-patita, perché abitata da una solidarietà che rende parte di un popolo in cammino, dell’umanità tutta… che geme, spera, ama, soffre, muore, sorride… come me.

In questo senso, essendo dalla parte di chi ha già letto fino in fondo i Vangeli, a noi fanno un po’ sorridere alcune aspettative di Giovanni Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco». Egli è il precursore e realmente è «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Ma Gesù… sorprenderà anche lui: davvero è un novum nella storia dell’uomo: lui, infatti, in una parabola, di fronte ad un albero che non porta frutto, dirà di lasciarlo ancora per un anno e di prendersene cura perché diventi fecondo (Lc 13,6-9), non di tagliarlo!

Su una cosa però Giovanni non si sbaglia: l’evento atteso e annunciato è decisivo; di fronte ad esso non si possono raffazzonare conversioni posticce, false illusioni, ristrutturazioni di facciata: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”».

Fa sorridere e tremare che i destinatari di questo ammonimento fossero proprio i più religiosi (sacerdoti e “laici impegnati”)… Proprio loro rischiano di non accogliere la logica di Dio, che sopra ad ogni norma, istituzione, interesse, ragione politica, economica, sociale, religiosa, pone il volto dell’altro, che sempre è fratello!

Ma è proprio questa logica che plasma anche la nostra sete di regno dei cieli. Essa – qualunque cosa voglia dire –, sorta spesso sull’onda di un essere esausti per la fatica di vivere e di dar credito al fatto che ne valga la pena, prende la forma di un’attesa non più vaga e qualunquistica, ma cristicamente centrata, perché solo il suo immergerci nello Spirito santo («vi battezzerà in Spirito Santo»), nel suo Spirito, nella sua logica, nel suo amore, ci salva, ci libera, ci abilita a Vivere.

Non a caso «La carica portante del messaggio del Battezzatore è quella dell'imminenza di Dio nella nostra vita, poiché Egli è venuto e sempre viene, a trasformare il nostro presente, a rincuorare l’uomo entrando nella sua stessa dimensione storica e assumendo la debolezza della sua carne, per apportarvi finalmente la novità della pace, della giustizia, della rettitudine e della gioia, in modo compiuto. Ma è un compimento profetico…
Le promesse di Dio [infatti] ci spingono verso un mondo di pacificazione e tenerezza che ci entusiasma il cuore e dilata la mente… e rimane scritto per nostra consolazione. Ma non è subito qui! Subito scopri che nella storia concreta di questo mondo è proprio sulla sua pelle e con la sua mitezza insanguinata che l’agnello addomestica il lupo, è lasciandosi morsicare la vita infinite volte che il bambino mette la mano nella tana delle vipere e le svelenisce… Cioè: se non si è disposti a fare la fine dell’“Agnello portato al macello”, le profezie non si avvereranno… i conflitti, il dolore e la morte non vengono disinquinate se non attraverso la nostra partecipazione alle sofferenze di Dio nel mondo. Nella forza dello Spirito di Gesù, Giovanni ha capito che le promesse escatologiche hanno una lunga gestazione, nella quale trasformano la storia e la liberano dalle catene del male, secondo tempi e modi che solo il Padre conosce».
Per questo «L’unione al Messia Crocifisso e risorto, che riprende con ciascuno di noi e con la sua chiesa il cammino della storia, è il nome della nostra fede. Riuscire a trasformare con lui la nostra storia è la speranza. Donare con lui la nostra vita è l’amore» [Giuliano].

domenica 28 novembre 2010

I Domenica di Avvento (A): Oggi la morte può trasformarsi in Vita

Domenica inizia un nuovo anno liturgico, l’anno A, al seguito del vangelo di Matteo. Con esso – si apre ovviamente anche un nuovo Avvento, una nuova attesa… l’attesa della celebrazione del Natale del Signore, certo, ma – in essa – anche l’attesa, sempre presente nella vita del credente, della venuta (quotidiana) del Figlio dell’uomo.


La sua attesa escatologica, infatti, e tutti gli “avventi” liturgici che la Chiesa inserisce nel suo calendario, non devono offuscare, ma anzi servono per tenere viva, l’attenzione al quotidiano essere presente del Signore nella nostra vita.

Ricordavamo infatti già qualche settimana fa, quando la liturgia ci presentava un testo di Luca, simile a quello proposto per questa prima domenica di avvento, come questi brani – cosiddetti “escatologici” – che paiono parlare del “futuro” (e che a noi a volte risultano enigmatici, per non dire spaventevoli per il linguaggio tipico con cui sono costruiti – che però, appunto, è solo un linguaggio…), in realtà abbiano di mira la rifocalizzazione dell’attenzione degli ascoltatori non sul futuro, bensì sul presente. Scriveva Giuliano tre anni fa: «L'evangelista che tramanda le sue parole vuol rinsaldare lo spirito della comunità smarrita dalla necessità di gestire il quotidiano, con tutte le sue sollecitudini e dispersioni, infiacchita dalla delusione per la mancata realizzazione delle promesse… Se guardiamo all'orizzonte complessivo della storia e della vita della Chiesa, o allo spazio più ristretto della nostra vita personale, comunitaria, famigliare e personale, la parola di Gesù rompe i nostri schemi limitati, ci invita a guardare ad un futuro che trasforma in attenzione vigile ed affettuosa il presente: "così sarà la venuta del Figlio dell'uomo". Nella semplicità talora monotona o banale della nostra quotidianità, sta in realtà irrompendo il ladro, nell’ora e nei modi che non pensiamo».

La questione centrale – allora – delle letture odierne (le quali – ciascuno a suo modo – si concentrano sulla venuta del Signore), è proprio quella della decisività dell’oggi…
Il poema di Isaia, per esempio, non è una banale previsione del futuro, bensì una lettura teologica della storia (possibile oggi!): quest’ultima ha il suo senso, il suo polo attrattivo nella parola del Signore (intesa in senso forte, non come un insieme di precetti, ma come la volontà del Signore, il suo sguardo benevolo sull’umanità) che attira tutti a sé («Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore»). Una Parola – e dunque una storia – che ha come fulcro la nobilitazione dell’uomo, la sua piena umanizzazione (nell’aldiqua!). Isaia infatti parla di uno scenario di pace, cioè della fattiva trasformazione di ciò che insegna la logica umana (la guerra, la morte) in Vita («Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»). Che è la medesima dinamica messa in campo da Paolo, che, parlando ai Romani, dice: «Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»!

Una dinamica che – con l’avvento di Cristo – non può che ritradurre la profezia di Isaia in termini cristici: per cui, per Paolo, la scoperta che il senso della storia è la Vita e non la morte (anzi la trasformazione della morte in Vita), coincide con il fatto che il senso della storia è Gesù. È lui la Vita annunciata dai profeti. È quella vita lì che ha vissuto lui, quel suo modo di stare nel mondo, di passare per le strade, di fermarsi di fronte alle facce degli uomini e delle donne, di amare teneramente e tenacemente, di morire affidando e affidandosi, di offrire il suo corpo e il suo sangue… è quel suo modo lì di essere uomo e di essere Dio, la Vita per l’umanità tutta e in essa per ciascun uomo!

Ecco perché Paolo non può che dire: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo»! “Rivestirsi”, “con-morire”, “conformarsi”, “partecipare”… sono tutte categorie che l’Apostolo mette in campo per portare avanti quella che secondo lui è la verità della storia: è nell’intrecciare la propria libertà (il nostro esser-ci) con quella di Gesù, che il nostro esistere diventa Vivere e le nostre morti, Vita!

In questo senso – come accennavamo – va letto anche il vangelo, dove al centro sta la sottolineatura dell’urgenza e della radicalità del porsi nella Vita (o meglio nel lasciarsi porre in essa).

Non è una questione morale, non si tratta di un’etica da rispettare, di un codice deontologico da seguire: in gioco c’è tutto quello che siamo, l’opzione fondamentale della nostra vita, l’orizzonte di senso che ci orienta… è una scelta di campo: o la vita, l’amore, la donazione, la tenerezza… o la morte, l’odio, la sopraffazione, la violenza… una scelta di campo che ogni istante della vita ci si pone davanti… il solo già esser-ci, esistere, implica inevitabilmente e continuamente un decidere chi essere (oggi, ora, adesso…)! La questione è dunque chi sono io, chi voglio essere… Chi sono / chi voglio essere alla luce del fatto che tutta la storia della salvezza, attraverso le sue Scritture, riecheggia la testimonianza che c’è la possibilità della Vita, di una vita buona, bella, piena (perché donata)…? Chi sono io di fronte al fatto che questa è la buona notizia della storia? (nella consapevolezza che ciò che sono, ciò che scelgo di essere lo costruisco in tutta una vita… vivendola, giocandomi nella praxis – ecco perché a questo punto, ma solo a questo punto, tolto (si spera…) il germe moralistico, hanno senso anche le indicazioni pratiche sul vivere: «camminiamo nella luce del Signore», «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce», «comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie», «rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri», «vegliate», «state pronti»)… Chi decido di essere oggi, considerando che ciò su cui verremo giudicati, cioè ciò su cui si misurerà la consistenza della nostra vita, sarà l’amore?

Questo è il centro delle letture odierne, questo il punto focale che la Chiesa decide di mettere all’inizio dell’anno liturgico… La custodia del fatto che per la Vita (che è l’equivalente che dire “per Gesù”) ci si decide oggi… Non è questione di ritagli di tempo, di atti religiosi, di celebrazioni liturgiche… siamo proprio su un altro piano… è la determinazione più profonda del proprio essere… per il vangelo (per la consegna di sé per amore di tutti)… o per qualcos’altro… che – proprio perché determinazione profonda di sé, cioè costituzione del nostro io più vero e intimo e denudato – non può che darsi/farsi/mostrarsi ad ogni istante, ad ogni respiro… come se – tendenzialmente – il nostro vivere e il nostro vivere di Cristo, si sovrapponessero… «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»… un Cristo che – non a caso – non ha vissuto atti sporadici di consegna… ma ha incarnato (ogni attimo) la logica della consegna, che – proprio perché ne era impregnato – gli ha poi permesso di vivere anche momenti puntuali di consegna… Ecco questo è il punto di non ritorno che la liturgia pone lì subito in partenza d’anno… Perché non si travisi di che cosa si tratta!

Il mio Canto per Oggi

1 La mia vita è un sol attimo, un'ora di passaggio.
La mia vita è solo un giorno che svanisce e fugge.
O mio Dio, tu sai che per amarti sulla terra
non ho che l'oggi!

2 Oh, t'amo, Gesù! L'anima mia a te anela.
Resta per un sol giorno il dolce mio sostegno.
Vieni a regnare nel mio cuore, dammi il tuo sorriso,

3 Che m'importa, Signore, se oscuro è l'avvenire?
Io pregarti per il domani, oh, no, non posso!
Puro conserva il cuor mio, con la tua ombra coprimi, Sal 118,80
solo per oggi. Sal 90,4

4 Se penso a domani, io la mia incostanza temo,
e in cuore tristezza e affanno nascere mi sento.
Ma la prova e la sofferenza voglio, Dio mio,
solo per oggi.

5 Io presto devo vederti sulla riva eterna,
o Pilota Divino che mi porgi la mano.
Sui flutti in tempesta guida la mia nave in pace,
solo per oggi.

6 Lascia che nel tuo Volto, Signor, io mi nasconda. Sal 30,21
Là non udrò più del mondo ogni rumore.
Dammi il tuo Amore, la tua grazia serbami,
solo per oggi.

7 Io tutto dimentico presso il tuo Divin Cuore,
e le paure della notte non temo affatto. Sal 90,5
Ah, Gesù, un posto nel tuo Cuore a me concedi,
solo per oggi.

8 Pane vivo, pane del Ciel, divina Eucarestia, Gv 6,33.48.59
o Sacro Mistero che l'Amore ci ha donato!
Vieni, Gesù, Ostia Bianca, ad abitarmi il cuore,
solo per oggi.

9 Degnati, Vite Santa e Sacra, che a te m'unisca Gv 15,5
ed il mio fragile tralcio ti darà il suo frutto:
un grappolo dorato potrò, Signore, offrirti
già da quest'oggi.

10 Ho solo questo giorno fugace per formarti
il grappolo d'amore dove ogni chicco è un'anima.
Dammi, Gesù, il fuoco d'un Apostolo,
solo per oggi.

11 O Immacolata Vergine, sei la Dolce Stella
che mi dona Gesù e a Lui mi unisce sempre.
Che io riposi sotto il velo tuo, o Madre cara,
solo per oggi.

12 Sant'Angelo Custode, tu con l'ala coprimi;
con la tua luce il cammino che seguo illumina.
Vieni a guidarmi e i passi aiutami, ti prego,
solo per oggi.

13 Senza veli o nubi vederti voglio, Signore,
ma ancora esule languisco da te lontana.
Non mi sia nascosto il tuo viso amabile, Is 53,3
solo per oggi.

14 A dire le tue lodi volerò io presto.
Quando il giorno senza fine per me scenderà,
allor sulla lira degli Angeli io canterò
l'Oggi Eterno!

[TERESA DI GESÙ BAMBINO]

venerdì 26 novembre 2010

Il cristianesimo o è democratico o "non è"



Conosciamo il travaglio che la trasmissione di Fazio e Saviano ha, fin dai suoi albori, vissuto.
Tanto è stato scritto e molto a sproposito... Da Grillo a Travaglio passando per Aldo Grasso, la novità ha spiazzato molti.
Era prevedibile, soprattutto per chi non sa vedere oltre il proprio punto di vista.

Qui mi limito (per ora) a fare qualche osservazione sul preteso "diritto di replica". Di cui si fa paladino con tracotanza anche l'Avvenire. Addirittura uno speciale!

Da questo affaire si comprende meglio come la democrazia di un popolo è inversamente proporzionale al suo livello di intolleranza: per questo il "diritto di replica", la "processualizzazione" di ogni Parola (il maiuscolo è voluto!), manifesta soltanto il grado di intolleranza per le opinioni altrui (e il basso livello di democrazia di chi si ritiene depositario dell'unica praxis possibile).

Era accaduto a Gesù (Parola-fatta-carne), accade oggi da parte dei nuovi farisei, verso il dolore che si fa Parola... Come dire, che si può credere, senza mai cambiare mentalità e "convertirsi di niente"!

Detto questo - violenza nella violenza - a delle persone concrete, a dei volti specifici, a dei DNA storici... alla "carne di Cristo"... pretendono di replicare delle "Associazioni"...

Siamo alla "beffa" sotto la Croce... peggio degli amici di Giobbe! Imparassero a tacere!

giovedì 25 novembre 2010

Vincere l'Inferno è possibile

Un altro articolo della sempreverde Barbara Spinelli, ieri sulla Stampa oggi su Repubblica ma sempre se stessa nelle sue lucide analisi. Grazie a Dio esistono ancora persone così... libere.

L’osceno normalizzato di Barbara Spinelli

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi – futuro Premier – aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ‘92. Dell’Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ‘74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un «uomo di garanzia».

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il «regalo» a Riina (5 milioni) per «aggiustare la situazione delle antenne televisive» in Sicilia. Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe «finito sotto i ponti o in galera per mafia» (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri, in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera».

C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna – nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi – presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: «Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale».

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito. Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: «Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni».

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale – fa capire – potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: «Se non vi adeguate ve li scateno contro». Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne – Veronica Lario, Mara Carfagna – che hanno denunciato il «ciarpame senza pudore» del Cavaliere, e le «guerre per bande» orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ‘92 – condividendo le opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi – di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per «concorso esterno in associazione mafiosa». Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi. Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità.

Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l’effetto di rendere «antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d’influenza». Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa «di sinistra», ma di ben più essenziale: l’era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.
Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con «vocazione maggioritaria», ma l’essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il ‘45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre ‘44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: «È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso».

venerdì 19 novembre 2010

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

Siamo giunti alla fine di un altro anno liturgico… Domenica, trentaquattresima del Tempo Ordinario (C), si celebra infatti, la festa di Cristo Re dell’universo, che chiude “in gloria” il percorso fatto quest’anno attraverso la lettura del vangelo di Luca… Metto “in gloria” tra virgolette, perché – come mostra il vangelo scelto dal liturgista (Lc 23,35-43) – non si tratta di «una verità da sbandierare contro i miscredenti, come forse si tentava un tempo con la proclamazione di questa festa di Gesù Re dell’universo! È piuttosto da custodire in cuore e confidare come un segreto “arcano” (esplosivo e tossico!) perché ogni approccio culturale, religioso, amicale con qualunque compagno di strada sarebbe incrinato, se cominciassimo buttandogli in faccia… che questo crocifisso, appeso 2000 anni fa tra due ladroni, con unica distinzione un cartello ambiguo, con scritto su “re dei giudei” – proprio questo, è “il vangelo”: cioè la bella notizia essenziale della nostra fede, su cui noi fondiamo non solo la vita, ma la speranza di salvezza del mondo. Perché dopo tre giorni è risorto.

Se ormai l’usura della consuetudine non avesse svuotato le parole, ci risponderebbero come a Paolo: Su questo ti ascolteremo un’altra volta! E invece, questa è la sintesi di tutto il ciclo liturgico, perché il resto di cui possiamo agevolmente parlare con tutti, è contorno, tutto il resto è mediazione culturale su cui ricercare continuamente ulteriori approfondimenti e ogni possibile convergenza, se non mette in discussione o cerca di censurare questo dato fondante, che il nostro Dio è passato attraverso questo annichilimento» [Giuliano].

Dunque, certo, finiamo “in gloria” con una festa piuttosto altisonante (almeno nel titolo), eppure radicalmente impastata col mistero della croce… Ancora una volta infatti, parlando di Gesù e della sua esperienza umana, non si può sfuggire il dato che, in Lui, coppie di termini contrastanti (gloria / umiltà; grandezza / piccolezza; regalità / croce; divinità / umanità; cielo / terra…), diventano coppie di termini indisgiungibili e che solo in una continua circolarità dei significati, riescono a far intravvedere il mistero di Gesù: perché è vero che è un Dio di gloria, ma non della gloria che è tale perché supera o annulla la piccolezza… ma glorioso proprio perché capace di riempire, valorizzare, rinfrancare le cose piccole… Grande, certo, ma nell’amore, che è la forma più radicale di piccolezza; re, indubbiamente, ma di un regno le cui schiere sono formate da tutti gli incompiuti della storia (ciechi, storpi, prostitute, peccatori…)… Non so come dire, ma… bisogna davvero fare la fatica di uscire da un certo immaginario comune e ricostruire i riferimenti / significati delle parole che ascoltiamo, a partire dal senso di cui la storia di Gesù li ha riempiti… Per esempio… parlare di “gloria” non può ancora oggi farci venire in mente gli angeli, o l’incedere di Gesù trionfante, o la sua ascesa al cielo con schiere di cori angelici che lo accolgono… Questo è un immaginario, non più capace di rendere la realtà del dato evangelico… La “gloria” di Gesù credo sia colta meglio, nella sua sostanza più vera, per esempio da sant’Ireneo, quando dice “La gloria di Dio è l’uomo che vive”, o da san Francesco, che chiama perfetta letizia, la capacità di custodire il cuore dolce pur nelle avversità immeritate… Questa è la gloria di Gesù Cristo: che è passato attraverso questa storia senza mai permettere al male di inquinargli il desiderio di amare gli altri, chiunque altro… e di attuarlo per davvero… La sua gloria è la consegna di sé sulla croce per tutti gli altri… Ecco perché Matteo può dire che il Regno di Dio sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, cuori tristi che si ridestano («Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo», Mt 11,4-5), perché questa è la regalità di Gesù… che nessuno dei suoi (cioè ogni uomo) vada perso… Non a caso reinventa anche il modo per dire “divinità”, che da Lui in avanti infatti si chiama (solo!) “paternità”…
Ancora una volta allora, alla fine di un anno liturgico in cui forse ci sentiamo ormai esperti, il problema è rimettersi con giù il crapone a spaccarsi la testa sull’identità del Dio in cui crediamo, e sulla quale non finiremo mai di convertirci… Dunque in qualche modo… ripartire da capo… anche se ogni ripartenza non è mai dal punto zero, perché contiene in sé ciò che nella storia si è sedimentato (ecco perché con domenica prossima ricomincia un altro avvento, un’altra attesa!)…

Ritorniamo dunque a spaccarci la testa sul vangelo… che questa domenica ci mostra una scena di Gesù in croce… scelta – dicevamo – proprio per il giorno in cui si celebra la regalità di Cristo sull’universo…

È una scelta curiosa… che forse noi non avremmo fatto… e che – proprio per questo – deve interrogarci… Cosa vorrà dire questa cosa? Non è che – forse – ci poniamo questa domanda (e non intuiamo in maniera istintiva la risposta) perché ancora una volta siamo caduti nell’errore di pensare al Signore non a partire dalla sua croce (che di fatti pensiamo sempre come un’appendice della sua vita… perché tanto poi è risorto), ma a partire dall’idea di gloria, regalità e potenza che abbiamo in testa noi? Quelle che continuamente ci vengono riproposte dalla logica mondana in cui siamo immersi?

Ma la croce molto più che un episodio della vita di Gesù, è stato piuttosto l’orizzonte di senso della sua vita, il punto prospettico da cui lui si è sempre guardato… Non a caso Gesù non incorre nella croce incidentalmente o per sfortuna… ma perché si consegna… E precisamente questa logica (la consegna come forma mentis) è ciò che lo identifica nella maniera più peculiare: Gesù è (sempre – in ogni atto del suo esistere) colui che si dona per amore… Tutto quello che fa, lo fa così… a partire da quella logica lì…

Ecco perché diventa ancora più pressante – alla fine del percorso liturgico e celebrando la regalità del Signore sull’universo – chiedersi se davvero in questo anno ci siamo convertiti al Dio di Gesù o se siamo ancora inchiodati all’immagine di Lui che abbiamo in testa noi… la cui regalità sull’universo – forse – fa bene a essere temuta da chi ha smesso di credere…

A proposito, scrive Raniero La Valle nel suo libro Prima che l’amore finisca. Testimoni per un’altra Storia possibile, parlando di Carlo Carretto: «A mio parere egli ha posto con radicalità, nel cuore della società contemporanea e secolare, la questione di Dio, e più precisamente la questione: quale Dio. […] È su questo problema che si è costituita storicamente la società moderna, laica e secolare. La laicità non si è costituita sulla tesi Non est deus, Dio non c’è, ma sull’ipotesi Etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse. […] E se la società moderna ha deciso di costruirsi come se Dio non ci fosse, l’ha fatto perché quello che le veniva offerto all’atto del suo sorgere era un Dio che non poteva più servire a fondare la sua unità e ad accogliere e accompagnare la sua crescita umana, la scoperta della sua ragione e le attuazioni della sua intraprendenza, ma anzi le era di ostacolo e di divisione. […] Un Dio – e da lui una Chiesa – non più capace di universalità, non capace di aprirsi all’accoglienza magnanima del nuovo che germinava nella storia». Ma chi era questo Dio espulso? Prosegue La Valle: «Era il Dio della guerra, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza del potere, il Dio che fonda il trono dei potenti e sequestra i tesori dei deboli; era il Dio di cui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e della cui trascendenza non un ateo, ma Dietrich Bonhoeffer dirà che non è vera, autentica esperienza di Dio, ma un “pezzo di mondo prolungato”».

È questo il Dio che arriva anche a Carlo Carretto e a tutti i cristiani prima del Concilio Vaticano II: «è ancora il Dio della guerra, il Dio delle leggi assolute, il Dio che allarga le braccia ma non fino ad abbracciare il nemico, non fino ad essere annunziato e riconosciuto come il Dio della misericordia e del perdono. Un Dio nel quale non c’è speranza. E qual era quel Dio, tale era la Chiesa». In proposito in una sua lettera a Wojtyla, Carretto scriverà, ricordando il preconcilio: «Io 40 anni fa, figlio del mio tempo e degli errori del preconcilio, mi sentivo nella Chiesa come arroccato in una fortezza da difendere contro i nemici che mi circondavano da ogni parte; io vedevo la Chiesa come separata dal mondo, come un esercito perennemente lanciato in crociate, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo».

Ma allora, com’è possibile rintracciare il vero volto di Dio? «Carretto, attraverso la sua esperienza, arriva a porre la stessa domanda. Chiedersi “quale Dio” non significa cadere nel soggettivismo, negare l’oggettività di Dio. Dio non si esaurisce in una sola immagine, egli non è dato, totalmente dato, deve essere cercato. La stessa Bibbia è percorsa da diverse percezioni di Dio, e non tutte valgono allo stesso modo; ma l’una va presa e l’altra lasciata, man mano che Dio si fa più manifesto e man mano che cresce l’esperienza spirituale dei credenti. È per questo del resto che si parla di un “Dio di Gesù Cristo”».

Ecco perché – forse – alla fine dell’anno liturgico, la Chiesa ci propone proprio il vangelo di Luca che parla di Gesù in croce… Perché lì, in maniera inequivocabile, è posta l’icona più chiara di chi sia il Dio di Gesù e in che senso Egli sia il re dell’universo… Ma è un Dio che ci lascia in silenzio, che non ci abilita a facili proclami, che neanche ci entusiasma più di tanto… perché è il Dio che ci invita a fare della sua logica di consegna, il nostro modo di stare al mondo… che – lo sappiamo fin troppo bene, per questo lo rifuggiamo – è un modo che proprio perché si consegna, è per definizione perdente, è di sua natura votato alla morte (o meglio: a dare la vita per…).

In questo senso è illuminante il ruolo dei due ladroni. Infatti «di fronte alla croce si aprono per tutti le due strade, le due alternative che ci sono dentro ogni uomo. I due delinquenti ci raffigurano tutti, e ci fanno rivivere il dilemma della fede che tutta la vita ci tormenta, di fronte a Gesù. Una voce dentro di noi, che grida nella disperazione (quante volte!) "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!" [logica della pretesa]. Mentre l’agonia profetica dell’altro delinquente, stranamente trasformato dalla dignità sovrumana di Gesù e fiducioso di poter essere accolto da lui, geme pure dentro di noi: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno" [logica della consegna].
Non esiste un potere che non versi il sangue dei suoi soggetti, per mantenersi, perché sarebbe subito perdente! Il potere (allora dicevano ‘la regalità’!) è omicida per costituzione intrinseca. L’unica regalità che quando si afferma fa vincere il vinto è l’amore, ma deve essere appunto “più forte della morte”. Questo ha visto il ladrone in Gesù morente: questa testimonianza inerme l’ha vinto, lui che aveva fatto della violenza l’unica risorsa della vita» [Giuliano].

A ciascuno, come singolo, e a tutti, come Chiesa, alla fine dell’anno liturgico allora è come posta la domanda “Vuoi andare dietro ad un Dio così?”… Una domanda esistenziale, non intellettuale, perché l’arte della consegna la si impara vivendo una quotidianità di consegna, un continuo – momento dopo momento, scelta dopo scelta – rinnegare se stessi per fare un po’ di spazio a chiunque ne abbia bisogno…

sabato 13 novembre 2010

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario: La / Il fine della storia: Questione di consistenza della propria vita

Le letture che la Chiesa ci propone per questa trentatreesima domenica del Tempo Ordinario, hanno tutte come punto di riferimento il “giorno del Signore”, con la sua valenza escatologica come (la/il) fine della storia: il libro del profeta Malachia ci parla del «giorno rovente come un forno» che sta per venire; Paolo ai Tessalonicesi se la prende con coloro che a causa di questo giorno, in cui è atteso il ritorno del Signore, «vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione»; e Gesù stesso nel Vangelo di Luca riferisce di una «fine».


Essa, immediatamente, in noi fa risuonare note arcaiche, di paura e grandiosità, di terrore e fragore, di curiosità e trepidazione... Ma se, per un momento, proviamo a lasciare il rimando emotivo immediato, sedimentato in noi dalla storia religioso-affettiva da cui proveniamo, e proviamo a guardare da vicino i testi, scopriamo che l’accento è posto su tutt’altri toni.

Malachia infatti, tentando una descrizione di «quel giorno», sottolinea come esso svelerà la realtà di ciascuno:

- da un lato l’inconsistenza di «tutti i superbi e [di] tutti coloro che commettono ingiustizia», raffigurata dall’immagine della paglia incendiata;

- dall’altro il rilucere della consistenza di chi ha costruito la vita come «cultore» del nome del Signore (come diceva la vecchia traduzione Cei); di chi, in altre parole, l’ha riconosciuto Signore della sua vita.

La prospettiva, dunque, non è quella (in noi automatica, ma anche tanto riduttiva) del giudizio universale inteso come una divisione tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, dabbene e malvagi. Qui – a partire dalla fine – si punta piuttosto l’attenzione sull’oggi… si parla infatti della consistenza della vita, del fondamento su cui la si è posta, della realizzazione di quello che dovevamo essere (figli)... in gioco non ci sono aspetti secondari, sovrastrutture della nostra vita, ma la Vita stessa, accolta («Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia») o rifiutata per vivere di se stessi («superbi») sopraffacendo gli altri («coloro che commettono ingiustizia»).

È dunque sull’orizzonte di senso della nostra vita (di qua) che la liturgia di oggi richiama l’attenzione. E anche le parole di Gesù secondo Luca vanno in questa direzione: non si sta facendo una previsione sulla distruzione del tempio di Gerusalemme, sul ritorno di Cristo risorto, sulla fine del mondo. Il punto prospettico lo si trova alla fine, quando si dice: «con la vostra perseveranza salverete le vostre ψυχας».
La Cei – prima della recente nuova traduzione – rendeva quest’ultima parola col termine anime, così che la traduzione suonava più o meno in questo modo: «con la vostra perseveranza salverete le vostre anime»; ora traduce con vita («con la vostra perseveranza salverete la vostra vita»).

Noi pur prediligendo di gran lunga la scelta della nuova traduzione, preferiamo lasciare comunque il termine originario greco che è meno compromesso. Esso infatti compare circa 800 volte nella Bibbia e spesso è tradotto con persona. È dunque inteso come ciò che indica la sede delle passioni, dei sentimenti, delle emozioni: ψυχη, ha quindi uno spettro semantico molto più ampio di quello che la parola anima (“salvarsi l’anima”) ha ormai assunto nel gergo comune, ed indica la personalità di ognuno. Rende anche meglio rispetto alla traduzione «con la vostra perseveranza salverete la vostra vita», perché quest’ultima mantiene un’intonazione un po’ troppo biologica/fisiologica nell’intendere la vita da salvare… Mentre appunto ψυχη, non è la vita biologica, ma la Vita umana in quanto umana, dunque sensata, riempita, realizzata, umanizzata…

Tenendo presenti queste considerazioni, risulta evidente come la prospettiva di Gesù nel pronunciare quella frase si riferisca al problema della sensatezza della vita, della sua consistenza, dunque della salvezza della singolarità di ciascuno, quella che Etty Hillesum descriverebbe così: «voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente».

Ecco perché quando «la Chiesa rilegge le profezie tragiche del Signore sulla distruzione del tempio, con tutte le sue decorazioni e rifiniture, … e sulla sofferenza e lo stermino di tanta gente del popolo, con carestie, malattie, torture … e nasce nei discepoli sbigottiti l’eterna domanda dell’uomo nella sventura: “Ma allora quando il Regno?”, Gesù non risponde, e attira invece la loro attenzione sul “prima” della fine, perché è questo il momento della nostra responsabilità: il tempo in cui siamo visitati- e anche noi, come Gerusalemme e i suoi abitanti, rischiamo di non accorgerci del passaggio del Signore. Marco, prima che le cose avvengano, dice ai cristiani della prima generazione come attenderlo, in quei frangenti tragici. Luca, dopo che quelle cose sono già avvenute, dice alla seconda generazione e a tutti noi … come attenderlo sempre, in ogni tornante della storia, finché il Signore arriva» [Giuliano].

Innanzitutto nel vangelo di Luca si dice che, per salvare le nostre ψυχας (per cercare – cioè – di essere quello che in noi chiede di svilupparsi pienamente), è necessario seguire la via dell’“impastarsi” nella storia, nella drammatica della storia (non quella della fuga mundi!): «di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta», «sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni», «si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». È una drammatica che appunto non resta – e non deve restare – tangente rispetto al discepolo, ma lo incrocia e tocca nell’intimo: «metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori», «sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome».

E nella tragicità di questa storia – unico luogo per la salvezza delle nostre anime, per la costruzione della consistenza delle nostre ψυχας – pochi ma sostanziali punti di riferimento:

1. «Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e: “Il tempo è prossimo”; non seguiteli», cioè non c’è un’altra via di salvezza che non sia quella cristica, la sua! La durezza della storia, la sua difficile intelligibilità, il frastornamento che ci provoca, il non senso che spesso ci rimanda, non devono arrivare a inquinare il cuore del nostro dar credito al Dio di Gesù. Ogni altra strada è inevitabilmente illusoria perché parte dall’uomo, anzi, peggio, dalla sua paura di morire!

E infatti, non a caso, la seconda parola che Gesù pone sulla drammatica della storia è:

2. «non vi terrorizzate», non lasciate cioè che a determinare la vostra vita, le vostre scelte, il vostro impegnarvi o meno, il vostro amare o meno, le vostre ψυχας, sia il terrore. Esso è solo mortifero: blocca gli zampilli di vita, chiude gli spiragli di luce, immobilizza il desiderio di appassionarsi, indurisce il cuore, spegne il sorriso…

Sulla base di che cosa, allora, possiamo Vivere e non “morire nel terrore”? Sulla certezza che:

3. «nemmeno un capello del vostro capo perirà». Sulla certezza, cioè, che ciò che fonda la possibilità della Vita è l’assicurazione di una cura, di una presenza, di una vicinanza, di un intreccio possibile con la libertà di Dio!

È quanto anche Paolo ribadisce nella sua esortazione finale: «a questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», come a dire che nella fede/fiducia nel Signore Gesù Cristo, è possibile vivere nella pace del cuore, costruendo dentro a questa storia (drammatica) – e solo dentro a questa storia drammatica – la nostra evangelica singolarità!

«Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace. Non penserò più, nella mia ingenuità, che un simile momento debba durare in eterno, saprò anche accettare l’irrequietezza e la lotta. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare un po’ al freddo, purché tu mi tenga per mano. Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura. E dovunque mi troverò, io cercherò d’irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. Ma non devo neppure vantarmi di questo “amore”. Non so se lo possiedo. Non voglio essere niente di così speciale, voglio solo cercare di essere quella che in me chiede di svilupparsi pienamente. A volte credo di desiderare l’isolamento di un chiostro. Ma dovrò realizzarmi tra gli uomini, e in questo mondo. E lo farò, malgrado la stanchezza e il senso di ribellione che ogni tanto mi prendono. Prometto di vivere questa vita sino in fondo».

Dal Diario di Etty Hillesum

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: LA RISURREZIONE DEI MORTI: CREDIBILE O IN-CREDIBILE?

I testi che la liturgia di questa trentaduesima domenica del Tempo Ordinario ci propone, hanno come tematica centrale quella della risurrezione dei morti, pilastro della fede cristiana, ma anche questione tra le più assenti dalla sensibilità quotidiana del nostro vivere.


In parte forse per una motivazione che potremmo chiamare sociologica, per la quale l’uomo moderno e postmoderno si ritrova disilluso di fronte alla speranza di una vita che continua dopo la morte fisica (siamo tutti figli del razionalismo – che crede solo in ciò che è dimostrabile, misurabile, verificabile – della filosofia del sospetto – che lucidamente ha messo in discussione la religiosità illusoria della cristianità – delle grandi tragedie del Novecento – che hanno proposto con forza la domanda “Dov’è finito Dio?”…), in parte forse per una motivazione personale, nata ai piedi delle bare delle persone più care che lungo gli anni perdiamo per strada, senza che tornino, che si facciano sentire presenti, come se davvero fossero finite nel nulla…

Fatto sta che di fronte al dramma della morte, spesso la reazione più intima è proprio quella dell’incredulità nella risurrezione… Ci facciamo tanti discorsi, proviamo a convincerci – ciascuno nel dialogo profondo tra sé e sé –, ma in ultima analisi ci risulta in-credibile che la morte non sia la fine di tutto, ci risulta una pia illusione la speranza nella risurrezione della carne o perlomeno nell’immortalità dell’anima e ci ritroviamo a ripetere con santa Teresa di Gesù Bambino che sembra che «le tenebre assumendo la voce dei peccatori dicano, facendosi beffe di noi: “Tu sogni la luce... credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte, che ti darà non già ciò che tu speri, ma una notte più profonda, la notte del niente”» (C 278)…
Questa situazione – che i più piccoli tra noi ormai leggono come un’evidenza – non è scevra di conseguenze sul piano della vita dell’aldiqua. Sempre più infatti avvertiamo intorno a noi il bisogno di allungare la vita il più possibile, col grande sviluppo – che è sotto gli occhi di tutti – di una cultura “salutista”, “igienista”, “paurosa” verso tutto ciò che può arrecare danno alla salute, divenuto il primo dei beni da salvaguardare in vita… Un bisogno che vede nella malattia non più un normale aspetto della vita umana, ma ciò che radicalmente la dis-umanizza e dunque va aborrito, evitato, eliminato… Non a caso mentre per i nostri vecchi “ci si ammalava per morire”, oggi “si muore perché ci si ammala”… che non è un gioco di parole, ma quasi la traduzione del fatto che, essendo la malattia o l’invecchiamento (è la stessa cosa) la causa prima di morte, si vive pensando che eliminando o ritardando il più possibile (tendenzialmente all’infinito) questi aspetti della vita, appunto, si possa non morire…

Finendo così per elaborare una cultura che, illudendo le persone su una speranza di vita sempre più lunga, sostanzialmente censura la morte dagli argomenti di discussione quotidiani: ne sono esempio il fatto che sempre più nascondiamo ai bambini questa realtà (non gli facciamo vedere i morti), trovandoci – quando più bambini non siamo e di fronte alla morte inevitabilmente ci ritroviamo – assolutamente spiazzati, inebetiti, inconsolabili… Che è la medesima logica che sottosta agli strumenti mediatici (come i TG o i film), che – certo – propongono continuamente davanti ai nostri occhi scene di morte, ma così rapide e istantanee, che impediscono una vera riflessione in proposito, soprattutto l’acquisizione heideggeriana per cui il problema vero della vita non è che “si deve morire”, ma che “io devo morire”…

Con questi pochi accenni, anche se un po’ velocemente, la situazione odierna pare però ben tratteggiata nelle sue linee fondamentali: la caduta dell’“illusione” della vita dopo la morte; la concentrazione conseguente sulla vita nell’aldiqua, che – dunque – deve essere il più lunga possibile; la censura della questione del morire…

È su questo tessuto sociologico-personale che irrompe il messaggio evangelico («I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgono, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui») e il racconto – un po’ leggendario, ma di certo emblematico – dei sette fratelli Maccabei («E` preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati»). Annuncio, anch’esso non scevro di conseguenze per la vita (dell’aldiqua)… basti pensare all’esperienza stessa di Gesù e alla sua consegna alla vita e (poi) alla morte … possibile solo perché alimentata dalla fede che quella consegna – in ultima analisi – era la consegna al Padre, che tutto tiene e custodisce, e dalle cui mani nulla va perso per sempre…

Come sempre, allora, di fronte a questo tipo di problematiche per l’uomo si pone la questione “da che parte stare”, “per quale posizione decidere”, “a cosa credere”… sapendo che la scelta di astenersi – percorsa oggi da troppe persone perché la Chiesa non si faccia carico del problema – è già una scelta…

La cosa interessante è che – a differenza di quel che si pensa di solito, e cioè che da una parte stanno quelli dis-illusi (nel senso di realistici, legati alla mentalità razionalistica, quantificabile, dimostrabile), mentre dall’altra gli illusi (i creduloni, i bigotti) – né l’uno né l’altro versante ha in mano la dimostrazione per la sua posizione: non si può dimostrare che Dio esista e che ci aprirà la vita eterna, certo; ma non si può dimostrare nemmeno il contrario… Per entrambe le posizioni si tratta di “credere in” qualcosa, cioè – ultimamente – di una fede…

La fede dei Sadducei (di ieri e di oggi) ha come base l’osservazione (smagata, dicono loro) della realtà, per cui tutta una serie di elementi testimoniano che Dio non c’è e che la vita finisce nella tomba.

La fede dei cristiani invece si fonda sulla Parola di Dio – anche se è interessante che, soprattutto sul versante cattolico, ancora oggi siamo di fronte ad un’ignoranza abissale da questo punto di vista (sarà anche per questo che non sappiamo più rendere ragione della nostra fede? Tanto che i nostri ragazzi – pur battezzati e cresimati e tutto il resto – accettano senza sobbalzare che “tanto dopo la morte non c’è niente”, come dicono di solito?).

La fede dei cristiani si fonda sulla Parola di Dio, che come ha insegnato il Concilio Vaticano II e in particolare la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione (Dei Verbum), è, sì, materialmente contenuta nel testo biblico, ma è eminentemente rintracciabile nella vita di Gesù, cioè nel modo in cui lui – vivendo – ha impegnato la sua libertà, ha deciso di sé, ha deciso chi essere…

Ecco perché la credibilità dell’annuncio della risurrezione della carne è da “misurare” sulla credibilità della persona di Gesù… come a dire che è sulla base di quanto riteniamo affidabile (degno di fede) Gesù, che dobbiamo dar credito al suo vangelo, cioè alla buona notizia che non solo Dio c’è, ma è un Padre che vuole la salvezza (cioè la Vita piena) per ciascun uomo… una Vita piena che non ha fine.

Il problema è quindi a questo livello… Quanto valgono, di fronte alle ragioni che porta il sadduceo che c’è in me (o la sua versione post-moderna) e che mi suscita così tanta angoscia, le ragioni di credibilità di Gesù di Nazareth, della sua vita, del suo vangelo? La fede sta tutta qua.

martedì 9 novembre 2010

E io non ci credo che non ci credi

Ho ascoltato questa intervista della Carfagna sul Corriere (con finale comico - se non fosse tragico - sull'operato del governo): clicca qui per vedere il video

Poi ho trovato sul Web alcune informazioni su di lei, comprese queste sue foto... ma se volete una panoramica più esaustiva basta cercare su Google.

E ho capito, perché non ci crede...
E ho capito, perché in Italia è così costosa e lenta la connessione a internet!

lunedì 8 novembre 2010

La Pietra

Nella vita certe coincidenze fanno pensare:

A Barcellona il Papa "inaugura" la Sagrada Familia. Opera (ancora) incompiuta di Gaudì che tra le altre cose è una sfida alla forza di gravità: a guardarla uno non può proprio non chiedersi come cavolo faccia a stare in piedi!

A Pompei il Bondi visita le macerie della Casa dei Gladiatori... e ci si chiede come cavolo abbia fatto a crollare!

Un "presente" che è più di una metafora di futuri possibili!




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