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sabato 29 gennaio 2011

IV Domenica del Tempo Ordinario: Tra i beati Gesù mette anche quelli che piangono (di afflizione)?!

In questa quarta domenica del Tempo Ordinario, ecco che puntuale arriva il testo di Matteo 5, che ci propone l’inizio del cosiddetto “Discorso della montagna”, ossia quello che ci narra le beatitudini che Gesù elenca ai suoi discepoli e alle folle sul monte…


È un testo difficile… per tanti motivi… sicuramente per il contenuto, ma prima ancora forse, perché è uno di quei testi che subisce il doppio rischio dei brani “troppo” conosciuti: quello cioè di essere ormai dato per scontato o – viceversa – quello di essere così minuziosamente analizzato (per trovarci qualcosa di nuovo da dire) da risultare snaturato…

Mi pare allora che – forse – il modo migliore, quest’oggi, per approcciarsi al testo sia quello di far emergere con sincerità e trasparenza tutto il disagio che il ritrovarselo – ancora una volta – “tra i piedi”, suscita…

Perché il punto è proprio questo… ritrovarsi ancora una volta di fronte a questo brano e scoprire che ancora non lo si è capito, non lo si è incarnato… Infatti il “contenutisticamente difficile” a cui si faceva riferimento in precedenza, non sta tanto nell’individuazione del significato del testo (che è fin troppo chiaro), ma nell’attuare una conversione alla logica che propone…

Esso, infatti, sostanzialmente non è molto più che un elenco di persone (o gruppi di persone) che Gesù definisce “beate”, dunque felici, contente… Un elenco che chiunque di noi potrebbe stilare… anzi che sarebbe interessantissimo che ciascuno di noi stilasse… Chi è beato? Chi potremmo chiamare “felice”? Di chi potremmo dire che è contento?

E dalle proposte che ne risulterebbero, emergerebbe, per ciascuno, l’idea di felicità che ha in testa… l’idea di “buona riuscita” della vita… l’ideale di contentezza a cui aspira…

E il punto sta proprio qua: Quale idea di beatitudine, di felicità, di buona riuscita della vita, emerge dall’elenco di Gesù? Perché se abbiamo deciso di dargli credito, se abbiamo deciso di porre in Lui (cioè nella Parola di Dio, fatta carne) la nostra fiducia, se siamo alla ricerca di risposte credibili e fondative per orientare il percorso della nostra vita, è proprio questo che dobbiamo chiederci e chiarirci… Qual è il futuro che ci prospetta? Qual è l’ideale verso cui ci conduce? Qual è la vita che pensa, dovremmo condurre per essere felici?

Beh… è quella dei poveri in spirito, di quelli che sono nel pianto, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuore, degli operatori di pace, dei perseguitati per la giustizia (e non dalla giustizia! A scanso di equivoci…)…

Un elenco strano… Non tanto perché lontano da quello che formulerebbero i nostri adolescenti (o la parte più visibile e rumorosa dei nostri adolescenti – di tutte le età) – quindi un elenco in cui i beati sono i ricchi, i famosi, i calciatori, quelli che hanno tante donne, ecc… “Strano” dunque, non tanto per questo (perché, credo e spero, un ideale del genere mostri da sé tutta la sua meschinità e bassezza…), quanto piuttosto perché, pur assomigliando – almeno in alcuni aspetti – all’elenco che formuleremmo anche noi alla ricerca di “ideali alti” (la mitezza, la giustizia, la pace, ecc…), in realtà ha in sé un elemento del tutto imprevisto (e che Luca radicalizzerà): quello degli afflitti, che ora la nuova traduzione rende con “quelli che sono nel pianto”…

Mentre infatti tutte le altre beatitudini di Matteo sono in qualche modo riconducibili ad un ideale accettabile e accettato – almeno a parole – da tutti noi e da quella che riconosciamo come la parte “nobile” e “sana” della società, questa degli afflitti (e quelle di Luca: «Beati voi, poveri», « Beati voi, che ora avete fame», « Beati voi, che ora piangete»), ci risulta incompatibile da accostare ad un ideale di felicità…

Ma, come sempre in questi casi, non pare una buona prassi metodologica il mettere tra parentesi ciò che fa problema alla sintesi riflessiva che ci siamo fatti, facendo finta che questo elemento di eterogeneità non ci sia… Molto più serio è rimettere in discussione la sintesi trovata a partire dall’elemento che non fa tornare i conti… perché se non tornano, non tornano… è inutile far finta di niente…

Il punto è allora che – a dispetto di quanto sembrava all’inizio – l’ideale di felicità di Gesù, che in qualche modo non ci sembrava così lontano da quello (almeno teorico) che avremmo evinto anche da un nostro ipotetico elenco di beati, in realtà va ripensato… radicalmente…
Infatti forse l’inganno mentale in cui siamo caduti è stato quello di dare per scontato che cosa fosse la “beatitudine”, la “felicità” e, dunque, semplicemente far variare i percorsi per raggiungerla: perciò una vita bella, riuscita, felice non poteva essere quella dei ricchi, fannulloni, annoiati e soli… bensì quella di persone animate da grandi idealità e impegnate su quei versanti… la pace, la giustizia, la mitezza, ecc… pensando che questo fosse anche ciò che pensava / diceva Gesù…

Invece, la questione è più radicale… Quel “beati gli afflitti” insinua un necessario ripensamento che va a scavare fino al significato stesso di felicità… Detto con uno slogan: per Gesù i felici non sono necessariamente i sorridenti… Tra i beati Lui ci mette infatti anche quelli che piangono (di afflizione!).

Cosa vuol dire questo? Che la buona riuscita della vita per Gesù ha come elemento fondamentale qualcosa d’altro rispetto alla sensazione/emozione/condizione di ben-essere, di allegria, contentezza, soddisfazione, ecc… Per Lui infatti – e lo si evince da tutto il vangelo, da come vive e da come muore – una vita è beata se ha come unica preoccupazione quella di alzare il tasso d’amore nel mondo, testimoniando così l’inequivoca paternità di Dio. A quel punto non importa se le prendi, se ti perseguitano, se ti ritrovi nel pianto… non importa neanche se rimani da solo (come don Primo Mazzolari davanti allo specchio con un bicchiere di vino a dire: “Però c’abbiamo ragione noi!”)… la tua vita – a quel punto – è una vita “riuscita” secondo le logiche del Regno! E la felicità starà nel guardare alla consistenza della persona (amante) che si è diventati o si è tentato di diventare… il resto conterà… ma molto poco…

È per questo che dicevo all’inizio che è brutto ritrovarsi “tra i piedi” un’altra volta questo testo… Perché è su di esso che continuamente dovremmo fare la verifica della nostra vita, delle nostre giornate, dei criteri che guidano le nostre scelte, i nostri umori, le nostre reazioni… la nostra felicità… e la verifica non dà grandi esiti: ci ritroviamo infatti, guardandoci, a vedere quello che Paolo vedeva nelle prime comunità, «dove d’istinto emergeva l’affermazione mondana della forza, della cultura, del potere, come criteri di valore e d’importanza in comunità» [Giuliano]… dove cioè, ancora una volta, è la pienezza dell’io a determinare la felicità… e non la pienezza del tu…

Forse allora, all’inizio di questo nuovo anno liturgico, è bene ripartire da questa necessità di convertirci noi al vangelo e non di convertire lui a noi… Partendo proprio dal chiederci: Che cosa è per me la beatitudine? E che cosa invece mi suggerisce il Signore per arrivare alla fine e, guardandomi indietro, non dire “che schifo di vita ho vissuto, che brutta persona sono diventata”, ma piuttosto “ho voluto bene più che ho potuto”?

«Magari sono piccolissimi assaggi o (minuscole beatitudini!), soltanto squarci di un cielo e di una prospettiva che di solito vediamo e desideriamo da lontano, ed invece già adesso, ci è promessa e seminata in cuore, anche se rimane sempre ingovernabile e imprendibile…come ogni dono dello Spirito. E si annebbia presto, lungo la giornata, nei ritmi alterni dei nostri umori. Però è vera, e ne rimane la memoria e l’attenzione premurosa, perché le troppe distrazioni ed urgenze del nostro vivere non ci allontanino dall’essenziale!

… e così imparare, o almeno cominciare a tentare qualche gesto, arrischiare di rispondere alle asprezze della vita e degli uomini con qualche sbilanciamento di amore, di tenerezza, di assorbimento del male, invece che di ritorsione:

• quando la desolazione ci devasta il cuore e vorremmo anche noi consolazione, e siamo tentati di amarezza

• quando la reazione violenta ci preme dentro come l’unica soluzione, e vorremo esser capaci di seminare mitezza

• quando la rabbia triste per l’ingiustizia ci rode l’anima e la vorremo subito eliminata… a costo di altra violenza

• quando la miseria è cosi grande che bisognerebbe contenerla e accudirla con ancor più grande misericordia

• quando ci si offuscano gli occhi del cuore e non vediamo più la benevolenza del Padre in chi ci fa del male

… portando sempre pace e perdono dove c’è conflitto e odio, perché questo è il mestiere di Dio e dei suoi figli» [Giuliano].

Un'ulteriore fronte di riflessione

Carissimi lettori della lectio,
mi permetto di raggiungervi con un paio di letture significative riguardanti quanto sta succedendo in queste settimane in italia.
I contributi vengono da amiche di questo stesso giro e mi è parso doveroso allargare il loro invito a riflettere insieme su un problema che ci interpella tutti.

E' forse davvero ora di chiedersi cosa fare per far sentire che c'è un'altra Italia, altre donne, altri uomini... ma come fare!?!

E' la domanda che vi lascio
un caro saluto
chia


Concita De Gregorio, Le altre donne

Esistono anche altre donne. Esiste San Suu Kyi, che dice: «Un’esistenza significativa va al di là della mera gratificazione di necessità materiali. Non tutto si può comprare col denaro, non tutti sono disposti ad essere comprati. Quando penso a un paese più ricco non penso alla ricchezza in denaro, penso alle minori sofferenze per le persone, al rispetto delle leggi, alla sicurezza di ciascuno, all’istruzione incoraggiata e capace di ampliare gli orizzonti. Questo è il sollievo di un popolo».

Osservo le ragazze che entrano ed escono dalla Questura, in questi giorni: portano borse firmate grandi come valige, scarpe di Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un appartamento in affitto. È per avere questo che passano le notti travestite da infermiere a fingere di fare iniezioni e farsele fare da un vecchio miliardario ossessionato dalla sua virilità. E’ perché pensano che avere fortuna sia questo: una valigia di Luis Vuitton al braccio e un autista come Lele Mora. Lo pensano perché questo hanno visto e sentito, questo propone l’esempio al potere, la sua tv e le sue leader, le politiche fatte eleggere per le loro doti di maitresse, le starlette televisive che diventano titolari di ministeri.

Ancora una volta, il baratro non è politico: è culturale. E’ l’assenza di istruzione, di cultura, di consapevolezza, di dignità. L’assenza di un’alternativa altrettanto convincente. E’ questo il danno prodotto dal quindicennio che abbiamo attraversato, è questo il delitto politico compiuto: il vuoto, il volo in caduta libera verso il medioevo catodico, infine l’Italia ridotta a un bordello.

Sono sicura, so con certezza che la maggior parte delle donne italiane non è in fila per il bunga bunga. Sono certa che la prostituzione consapevole come forma di emancipazione dal bisogno e persino come strumento di accesso ai desideri effimeri sia la scelta, se scelta a queste condizioni si può chiamare, di una minima minoranza. È dunque alle altre, a tutte le altre donne che mi rivolgo. Sono due anni che lo faccio, ma oggi è il momento di rispondere forte: dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e libero, dove siete? Davvero pensate di poter alzare le spalle, di poter dire non mi riguarda? Il grande interrogativo che grava sull’Italia, oggi, non è cosa faccia Silvio B. e perché.

La vera domanda è perché gli italiani e le italiane gli consentano di rappresentarli. Il problema non è lui, siete voi. Quel che il mondo ci domanda è: perché lo votate? Non può essere un’inchiesta della magistratura a decretare la fine del berlusconismo, dobbiamo essere noi. E non può essere la censura dei suoi vizi senili a condannarlo, né l’accertamento dei reati che ha commesso: dei reati lasciate che si occupi la magistratura, i vizi lasciate che restino miserie private.

Quel che non possiamo, che non potete consentire è che questo delirio senile di impotenza declinato da un uomo che ha i soldi – e come li ha fatti, a danno di chi, non ve lo domandate mai? - per pagare e per comprare cose e persone, prestazioni e silenzi, isole e leggi, deputati e puttane portate a domicilio come pizze continui ad essere il primo fra gli italiani, il modello, l’esempio, la guida, il padrone.

Lo sconcerto, lo sgomento non sono le carte che mostrano – al di là dei reati, oltre i vizi – un potere decadente fatto di una corte bolsa e ottuagenaria di lacchè che lucrano alle spalle del despota malato. Lo sgomento sono i padri, i fratelli che rispondono, alla domanda è sua figlia, sua sorella la fidanzata del presidente: «Magari». Un popolo di mantenuti, che manda le sue donne a fare sesso con un vecchio perché portino i soldi a casa, magari li portassero. Siete questo, tutti? Non penso, non credo che la maggioranza lo sia. Allora, però, è il momento di dirlo.
18 gennaio 2011


Vi segnalo questo lancio di MISSIONLINE.org dedicato al "caso Ruby"
Confidando in un sussulto di indignazione.

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=3257
GEROLAMO FAZZINI
direttore di Mondo e Missione e MissiOnLine

domenica 23 gennaio 2011

III Domenica del Tempo Ordinario: Una luce è sorta

In questa terza domenica del Tempo Ordinario, il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, tratto dal testo di Matteo, è quello dell’inizio concreto del ministero pubblico di Gesù. Dopo il vangelo dell’infanzia (Mt 1-2) e dopo il cosiddetto trittico sinottico (e cioè quei tre episodi che inaugurano la vita da adulto di Gesù in tutti i vangeli sinottici: predicazione di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto – Mt 3,1-4,11), eccoci infatti ai primi atti, alle prime parole e ai primi spostamenti di Gesù tra la gente.


È un’attività che viene collocata in un momento preciso, «Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato»; un momento che in qualche modo muove la coscienza di Gesù a prendere il posto che gli compete sulla scena (aveva detto infatti Giovanni: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30), ad assumersi la responsabilità pubblica della sua identità e della sua missione.

Ecco quindi i primi movimenti («lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao») le prime parole dell’annuncio («Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»), le prime chiamate (Pietro e Andrea; Giacomo e Giovanni), i primi gesti di liberazione dal male («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»)… quasi un concentrato sintetico di tutta la sua attività in Galilea: come un condensato che poi le pagine successive del vangelo srotoleranno, narrandoci gli episodi, gli incontri, i gesti, le parole… ma che già qui si propone nel suo sguardo d’insieme.

Ciò su cui però vorrei innanzitutto focalizzare la nostra attenzione, è la luce sotto cui l’evangelista pone la sintesi di tutta questa attività gesuana. All’inizio infatti Matteo – citando il profeta Isaia (precisamente il passo che la liturgia pone questa domenica come prima lettura) – mette come una chiave di lettura a tutto quanto sta per dire: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

L’evangelista cioè, appena prima di iniziare a raccontare le vicende della vita di Gesù, ci dice già come guardare a quell’uomo di cui sta per raccontare la storia: è lui la luce (grande) che arriva per il popolo che abita nelle tenebre; è lui la luce per quelli che abitano in regione e ombra di morte!

E per comprendere bene questa “anticipazione del senso” che Matteo ci fornisce all’inizio, dobbiamo far riferimento soprattutto a due elementi: il primo è la questione del “genere letterario vangelo”; il secondo è il significato che quelle parole, messe come incipit, hanno per il lettore di oggi (e di sempre).

Innanzitutto la questione del genere letterario: mentre leggiamo il vangelo, non dobbiamo mai dimenticare che non siamo di fronte ad una biografia di Gesù. Cioè non siamo davanti alla cronaca della sua vita, al racconto “minuto per minuto” di tutto ciò che Gesù ha fatto e ha detto. Non siamo nemmeno di fronte ad una “presa diretta”. Non è che Matteo (o chi per lui) era lì col taccuino degli appunti a prendere nota (“in diretta” appunto) i vari atti di Gesù… appunti che poi risistemati avrebbero costituito il vangelo!

Siamo piuttosto di fronte alla ricostruzione teologica della vicenda di Gesù, quand’essa aveva già esaurito la sua parabola storica. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che chi scrive lo fa quando Gesù ha già vissuto tutta la sua vita, è già morto ed è già risorto; dunque a partire da un punto di vista che tiene in mano la totalità dell’esperienza storica di Gesù (e non mentre questa esperienza è ancora in divenire). In più dal punto di vista di chi, a partire dallo svolgersi completo di questa vicenda, ha già deciso di sbilanciarsi verso una fede/fiducia in essa: chi scrive, lo fa a partire dal riconoscimento che quella vicenda storica è la vicenda del Figlio di Dio, del Salvatore del mondo. E – proprio per questo – lo scopo di chi scrive è quello di portare altri al medesimo sbilanciamento.

Dentro questo quadro allora, forse, è più facile capire perché Matteo senta la necessità di porre già subito – in apertura del suo vangelo – un’indicazione riguardo allo sguardo da usare per leggere ciò che seguirà: perché la sua intenzione è quella di far sapere e convincere che la luce del mondo attesa dalle genti, loro l’hanno trovata, è quel Gesù di cui sta per raccontare la storia!

Il “come” Gesù sia questa luce grande lo si scoprirà strada facendo, leggendo tutto il prosieguo del vangelo, ma già adesso – ed è il secondo elemento che citavamo – è necessario dirne una parola…

Il problema è cioè chiarire fin da subito quali aspettative, quale senso, Matteo metta in campo di fronte al suo lettore: Cosa vuol dire quando esordisce dicendo «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» riferendo tutto ciò a Gesù?

Innanzitutto vediamo che senso avevano in origine quelle parole. Abbiamo già detto che sono una citazione del profeta Isaia. Il professor Patrizio Rota Scalabrini, la commenta così: «La struttura di questi versetti è abbastanza semplice: si presentano i giorni oscuri che si abbatteranno sulle tribù del Nord (Zabulon, Neftali, Galilea), che verosimilmente possono alludere alla seconda discesa di Tiglatpileser, che occupa i territori delle tribù del Nord. Successivamente si annuncia la salvezza che sarà basata sulla nascita (o intronizzazione?) di un Re liberatore, discendente della casa di Davide. In ogni caso ciò che è descritto è un momento in cui non c’è più speranza alcuna, né nella terra, né nell'autorità, né nella fede; ma ecco che la situazione si modifica radicalmente, proprio col tono esultante dei vv. 9,1-6 («Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…»). Il brano esprime quindi la speranza di un superamento radicale di una tragica situazione, caratterizzata da guerra, oppressione e fame. Questa speranza è riposta in un personaggio storico e concreto, non in una figura mitica o escatologica. Si tratta, probabilmente di un erede al trono. Il contenuto di questa speranza è in parte politico, ma la contrapposizione di termini come “oscurità” e “luce-pace”, fa pensare a una modificazione più sostanziale della vita del popolo. Il mutamento riguarda innanzitutto chi è maggiormente nel buio e nella confusione: così i primi destinatari sono Zabulon e Neftali, le due tribù più settentrionali, più distanti dal centro, Gerusalemme, che è solitamente la beneficiaria delle promesse. In questo territorio passa la famosa “via maris”, la strada che in quei tempi collegava le due regioni più importanti della mezzaluna fertile: l’Egitto con la Mesopotamia e la Persia. Proprio per la presenza di questa strada le regioni del Nord ed in particolare la Galilea erano spesso oggetto di passaggio di eserciti, che vi compivano scorribande e saccheggi frequenti (come solitamente succedeva al passaggio di un esercito, anche non nemico). Era questo un distretto di periferia, nel quale vivevano numerosi gruppi di popolazioni non ebree; gli Ebrei stessi la chiamavano la “regione delle Genti”. Questa terra viveva pertanto nella confusione sociale, politica, militare e anche religiosa. La condizione difficile di tale regione è paragonata dal profeta ad una zona avvolta da tenebre perenni, e sottoposta a continua umiliazione. Ma l’arrivo del Signore, il compimento delle sue promesse attraverso la nascita (o intronizzazione) di quel misterioso personaggio regale, strapperà tale regione dalla tenebra, simbolo di caos e immagine di morte. L’intervento divino, reso manifesto dalla nascita del bambino regale, sarà come luce repentina, come l’inizio di una nuova creazione, come qualcosa di non spiegabile e di miracoloso. All’umiliazione subentrerà la gloria, alla tristezza una gioia piena e una letizia immensa. Tale gioia è espressa dal profeta attraverso l’immagine di un esercito vittorioso che si spartisce il bottino. Per una terra, oggetto di scorrerie e di prevaricazioni, l’annuncio di una vittoria con bottino costituisce la promessa di un radicale cambiamento. La terra del nord, terra di guerre e di sangue, diventerà terra di pace e di libertà. Nella “notte” di queste regioni lontane e apparentemente maledette, Dio interverrà, sconfiggendo il nemico: la sua vittoria non sarà su un popolo, contro un gruppo di uomini, ma su una condizione umana, contro una mancanza di senso e di gioia, nel superamento di un’umiliazione che rende buie tutte le giornate».

Dopo queste note esplicative, forse, è più chiaro anche il senso che Matteo vuole dare alla sua citazione: ai suoi lettori, di ieri e di oggi, infatti l’evangelista sta dicendo: “Guardate che è arrivato quello che ci può tirar fuori dalle tenebre e dall’ombra della morte. Se anche voi, se anche tu, ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali (e chi non si sente come la terra di Zabulon e di Neftali? Chi non si sente campo di battaglia? ‘Botte vuota in cui si sciacqua la storia del mondo’ [Etty]? Chi di fronte a un mondo che pare andare a rotoli (quello grande, di tutti; ma anche quello piccolo, nostro) – a volte – non pensa che non ci sia più speranza alcuna? Chi non si sente nel buio e nella confusione? Lontano dai beneficiari della promessa, che son sempre gli altri? Chi non si sente in tenebre perenni, sottoposto a continua umiliazione – foss’anche solo per il fatto che prima o poi lui e i suoi cari dovranno morire?)… bene, se anche tu ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali guarda che – sembra dire Matteo – io ho trovato uno che illumina tutto! Io ho trovato uno che fa nuove tutte le cose, che ri-crea l’uomo («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»), che riempie il cuore di gioia e di letizia immensa, che trasforma terra di guerre e sangue (come è la nostra interiorità) in terra di pace e di libertà! Vuoi andargli dietro?”.

È la domanda che Matteo – tranchant – mette lì all’inizio. È la domanda che la Chiesa – all’inizio di un nuovo anno liturgico – ripropone a tutti i discepoli del Signore… è la domanda a cui noi – terre di Zabulon e Neftali – siamo chiamati a rispondere, sapendo che «ogni suo seguace diventa discepolo quando sperimenta di essere a sua volta pescatore dei suoi fratelli: testimone della gioia dello spirito quando qualche piccolo, malato, ferito, soggiogato dalla paura, è preservato dal male, davanti ai nostri occhi, perché questa è la forza propulsiva, umile ma incoercibile, del minuscolo seme di amore che il Padre in Gesù ha seminato nel mondo…» [Giuliano]. Questa è la luce che Lui ha fatto sorgere.

giovedì 13 gennaio 2011

II Domenica del Tempo Ordinario: “Ecco l’agnello di Dio”

Dopo i tempi forti dell’Avvento e del Natale, che hanno inaugurato questo nuovo anno liturgico all’insegna della lettura e dell’approfondimento del vangelo di Matteo, domenica incomincia il Tempo Ordinario… Così – dopo aver pensato e celebrato il mistero dell’avvento dell’incarnazione e i momenti iniziali della drammatica storica del Figlio di Dio, nonché Figlio dell’Uomo – oggi iniziamo ad inoltrarci nel racconto della cosiddetta “vita pubblica” di Gesù, dunque nel mistero della sua identità.


Già domenica scorsa con la festa del Battesimo del Signore, il nostro sguardo si era staccato da Gesù fanciullo, per concentrarsi su Gesù trentenne, precisamente nel momento inaugurale del suo ministero pubblico, cioè l’incontro al Giordano con Giovanni Battista. Oggi – nuovamente – ci è riproposta la stessa scena, stavolta però secondo il racconto dell’evangelista Giovanni; una scena che dunque mostra tutta la sua rilevanza e che, proprio per la sua funzione logica di “gancio” tra i primi trent’anni della vita di Gesù (quelli da “sconosciuto” a Nazareth) e gli anni della manifestazione pubblica della sua identità/missione, chiude il Tempo di Natale e apre quello Ordinario, invitandoci ad una raddoppiata riflessione.

Fortunatamente l’evangelista Matteo e l’evangelista Giovanni – pur facendo riferimento al medesimo episodio della vita di Gesù – ne parlano a partire da punti di vista teologico-narrativi diversi, permettendo così anche a noi – cambiando punto di osservazione – di intercettare una nuova luce che illumina quel volto che entrambi vogliono tratteggiare.

Innanzitutto, va detto che l’evangelista Giovanni – a differenza di Matteo e Luca – non ha i vangeli dell’infanzia, per cui questo nostro brano, ha sì qualcosa che lo precede (il prologo poetico: «In principio era il Verbo…»; e l’episodio in cui il Battista è interrogato dai sacerdoti e dai leviti riguardo alla sua identità: «Io non sono il Cristo», «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»), ma mai, prima d’ora, in questo Quarto Vangelo, Gesù era entrato sulla scena: è infatti precisamente nel nostro brano che egli fa la sua comparsa: «Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse…».

È come se – scenograficamente – l’occhio di bue per la prima volta si posasse su di lui… Eppure – nuovamente – senza che egli dica niente. Qualcun altro parla di lui: il Battista, appunto… Questo è il modo in cui l’evangelista Giovanni sceglie di presentare il suo protagonista: è Lui, è illuminato, ma – per ora – non si presenta da sé… altri dicono di lui… e sarà solo alla fine di tutta la narrazione evangelica, che il lettore/spettatore potrà dire chi è colui che viene introdotto in questo modo…

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele», «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
… Una presentazione densissima… di questo personaggio/protagonista di cui Giovanni (evangelista) ci vuol raccontare la storia e che ha fatto entrare – illuminandolo – sulla scena… infatti di lui, la prima volta che i lettori/spettatori lo vedono viene detto che è l’agnello/servo di Dio, che toglie il peccato del mondo, che “era prima di me”, che lo Spirito è sceso e rimasto su di lui, che battezza/immerge nello Spirito Santo e che è Figlio di Dio!

Forse non subito cogliamo il senso di cosa vogliano dire questi titoli con cui viene indicato, forse non capiamo nemmeno fino in fondo il significato delle espressioni che si usano per indicare la sua identità/missione (e ci vorrà la lettura di tutto il vangelo per riempire queste parole del significato giusto – evangelico – che hanno e soprattutto per disinquinarle dai significati che abbiamo in testa noi… e poi tutta una vita per masticare, digerire essi miliare – almeno un po’ – l’identità/missione di questo agnello di Dio), ma, certo, già in prima battuta – anche senza capire tutto – di fronte ad una presentazione così c’è da rimanere spiazzati… Giovanni ottiene il suo scopo, affascinare e conquistare il lettore/spettatore… instillargli un’aspettativa promettente, che lo faccia decidere a mettersi in cammino dietro a quell’agnello di Dio, proprio come avverrà il giorno dopo per i discepoli di Giovanni (Battista): «Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù».

Così «il Vangelo ci aiuta a leggere in filigrana, sul percorso del Battista, le tappe di conversione di chiunque voglia accettare le sue indicazioni profetiche, per diventare o ridiventare discepolo di Gesù.



colui che viene dopo di te è più importante di te, anzi è l’unica cosa importante. Dunque colui che Giovanni (noi) andavamo cercando da una vita, non è “il mio compimento”. Noi, piuttosto, siamo il “suo” compimento! Perché era prima di noi e ci è passato avanti, perché viene dall’eternità del Padre… Se non s’illumina questo barlume, se non ti accorgi di questa stella nelle tenebre; se non ti morde dentro questo presagio che la tua ricerca e i tuoi affanni, la tua missione e le tue presunzioni, il compito o il senso su cui hai puntato la vita sono labili e transitori, e proprio perché impastati del tuo io, ti si sfaldano tra le mani, non si fa spazio dentro di te, per cercare davvero… E comunque non si può censurare troppo a lungo il senso di incompiutezza che ci cova dentro, per il troppo poco che siamo. Non si può far tacere la chiamata interiore ad una dislocazione da fare, che se non altro, diventa umiltà e implorazione. Perché è a questo livello che riconosciamo cosa voglia dire davvero il primo avviso pregiudiziale di Gesù : chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso…Giovanni l’ha fatto fino a scoprirvi il senso definitivo e compiuto della sua missione…



 “Egli deve crescere ed io diminuire” (3,30). Anche per noi… i passi fatti, le fatiche del cammino, le persone che ci accompagnano, le ideologie con cui abbiamo interpretato e razionalizzato il suo vangelo e le nostre scelte (e che comunque dovevamo fare: sono il nostro battesimo penitente!), indicano con la loro fragilità e ambiguità dov’è il futuro, a cosa ci preparavano, verso dove ci spingevano. E ormai hanno realizzato il loro compito, devono ritrarsi per lasciare posto all’incontro, diversissimo per ognuno dei discepoli, ma passaggio assolutamente necessario per uscire dall’adolescenza … vocazionale cristiana, e diventare umilmente “responsabili” della propria fede. Per incontrare così la domanda nuda che Gesù ci rivolge, quando siamo fermi su questa soglia, incerti sul passo decisivo per la nostra vita: Chi cercate? (38)



L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è lui che battezza in Spirito Santo. Questa era la promessa e garanzia che l’aveva sostenuto e aveva dato il respiro all’impegno di tutta la sua vita, la forza alla sua voce inascoltata nel deserto, il coraggio della verità pagata di persona, il senso al suo battesimo di penitenza… Colui che sembrava uno dei tanti devoti nella fila dei suoi battezzandi… era il vero Battezzatore e salvatore dell’umanità, smarrita e ferita come pecore senza pastore… Al principio ognuno, man mano che si immerge nelle funzioni, nelle scelte, negli impegni della sua vita cristiana e si spende nella faticosa ricerca di fedeltà e dedizione, crede di conoscere bene Colui per il quale ha dato la vita… Quanto più è grande la (piccola) dedizione di cui siamo capaci, e passano i giorni e gli anni, tanto più è la distanza che scopriamo da lui. Per questo l’insistenza accorata del Battista, diventa propria di chiunque ha provato a seguire Gesù, ed ha imparato a proprie spese a sottoscrivere, presto o tardi la sua dichiarazione perentoria: io non lo conoscevo!…



Ecco l’agnello di Dio!

Il giorno dopo, l’anno dopo, o il decennio dopo… arriva il momento che ti trovi seduto per terra come Pietro o Paolo, o smarrito nel viaggio come i due di Emmaus, in forme tanto diverse quanto le storie personali di ognuno. E allora scopri che la fede, così com’era, non ti serve più. Ma non per questo perdi lui: anzi rimane solo lui – e gli sparuti fratelli o sorelle che ti legano a lui! Rimangono questi segni o presagi profetici che Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli… che li ha spinti ad iniziare l’avventura con Gesù, andando a conoscerlo “a casa sua”. Dunque, a non sfuggire, a non cercare capri espiatori, ma ad assumere la propria vita, e a prendere atto di dover iniziare di nuovo…. A livello liturgico e teologico la consapevolezza di questa destinazione cristiana è collaudata nella chiesa. Ad ogni Eucaristia si rinnova sacramentalmente agli invitati alla cena pasquale l’indicazione del Battista "Ecco l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo". Gesù infatti non ha voluto salvarci con la parola, con i miracoli, con le grandi conversioni di popoli, ma con la sua fine innocente e mite sul Calvario, all’ora dell’immolazione degli agnelli pasquali… Dopo aver condiviso con i discepoli l’ultima cena e dopo aver “spiegato” tutto il suo amore ai loro cuori induriti, allora come oggi: li amò sino alla fine!» [Giuliano].

giovedì 6 gennaio 2011

È credibile un salvatore in fila coi peccatori per farsi battezzare?

Domenica – a conclusione del Tempo di Natale e come inaugurazione del Tempo Ordinario, nel quale saremo invitati a riflettere sulla vita pubblica di Gesù – la Chiesa celebra la festa del Battesimo del Signore.


Ritroviamo così Gesù, ormai trentenne, che come primo atto – dopo gli anni della sua infanzia e giovinezza (di cui sappiamo pochissimo) – va a farsi battezzare da Giovanni, il Precursore: figura sulla quale la liturgia ci ha già fatto riflettere durante l’Avvento, raccontandoci chi è quest’uomo («In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”. […] Portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico »), quale ruolo ha nell’economia della salvezza («Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!») e qual è la sua teologia, cioè la sua visione su Dio, sull’uomo, sulla vita («Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione…»).

Da Giovanni, da questo Giovanni, dicevamo, Gesù va a farsi battezzare e dato che il vangelo è il racconto scritto della fede dei discepoli in Lui, e dato che siamo all’inizio del suo ministero pubblico, questo brano del battesimo rappresenta come la presentazione della sua storia… della storia di questo uomo, riconosciuto come il Messia, il Figlio di Dio.

Certo ci sono già stati due capitoli (il cosiddetto “vangelo dell’infanzia”) che hanno in qualche modo voluto fungere da prologo al racconto della vita di quest’uomo, ma qui siamo al racconto inaugurale degli anni decisivi della sua vita – quelli, appunto, che l’hanno svelato nella sua identità/missione.

E la prima cosa che emerge, all’interno di questo momento inaugurale, è la sua stranezza… Da un lato infatti abbiamo un momento epifanico molto significativo (i cieli che per Gesù si aprono, permettendogli di vedere lo Spirito Santo discendere su di lui, e dai quali gli giunge una voce che lo dichiara l’eletto) e, dall’altro, il fatto che tutto ciò avviene in una situazione davvero inusuale per un personaggio importante di cui si sta per raccontare la vita: è in fila coi peccatori, per ricevere un battesimo di conversione.

Una strana presentazione per colui del quale – scrivendo – si vuole testimoniare la messianicità… Ma come insegna la critica storico-letteraria, se un fatto così disomogeneo rispetto alla finalità dello scrivere (che è: convincere della propria fede), è comunque riportato, ciò vuol dire che era inevitabile farlo… come a dire… nessuno si sarebbe inventato questo episodio della vita di Gesù se non fosse realmente accaduto, perché a nessuno – nel momento in cui veniva tracciato l’itinerario per la fede in Lui – sarebbe venuto in mente di scrivere qualcosa che potesse metterne in discussione la messianicità (Come fa a essere il Messia se si mette in fila coi peccatori? Come può pretendere di essere colui che rimette i peccati del mondo, se lui per primo si fa battezzare per la conversione?).
Tutto questo per dire che ciò che è problematico non è il fatto, ritenuto autentico da tutta la critica storico-letteraria, ma la sua interpretazione: cioè il problema diventa il rendere ragione di questa stranezza… Mitigata, certo, dallo Spirito Santo e dalla voce dal cielo… Ma… a ben guardare, fino a un certo punto, perché questa specie di “investitura dall’alto” poteva avvenire anche in un contesto diverso… Dopo un miracolo inaugurale, o dopo un discorso particolarmente significativo… Invece la teofania sta a commento del paradossale essersi messo in fila coi peccatori da parte del Messia…

Un problema che non va troppo in fretta superato con presupposti piani divini a noi sconosciuti (come pare fare in parte lo stesso Matteo quando – a differenza degli altri evangelisti – fa dire a Gesù «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia»; segno questo che anche per i primi cristiani il problema c’era ed era vissuto con una certa perplessità e fatica), ma che va “preso di petto”: Perché mai Gesù, come primo atto della sua vita da adulto va a mettersi in fila coi peccatori? E perché proprio in questo atto il cielo lo riconosce l’amato in cui ha posto il suo compiacimento? Al di là, infatti, di ogni nostro tentativo di girare e rigirare le cose, è proprio questo che il testo evangelico ci consegna…

Forse per provare a rispondere a queste domande, senza appiccicarci addosso risposte estemporanee, può essere utile chiederci perché tutto questo ci faccia così problema… o perché lo faceva ai primi cristiani… Dove sta l’anomalia che ci fa storcere il naso?

Beh… qualcosa l’abbiamo già accennato… Colui che si arrogherà il potere di perdonare i peccati (Mt 9,6) può lui stesso essere in fila coi peccatori? Colui che verrà creduto il Figlio di Dio, può essere lì, solo per farsi aiutare da Giovanni a capire la sua identità/missione? In altre parole: il Figlio di Dio, colui che pretende di salvarci perché anch’egli Dio, può essere veramente un uomo? Non deve avere qualche scarto incommensurabile, qualche cosa che lo preserva dal male, qualche prescienza che lo rende qualitativamente diverso da noi? Se è uno di noi può davvero salvarci?

Ecco il punto… Quello che precisamente pungeva la carne dei primi cristiani: intorno a loro tutti dicevano: era solo un uomo e dunque uno che non può salvare! Ecco il problema: se è Dio, ci salva; se è un uomo, no. Ma quello che noi abbiamo visto era solo un uomo…

Il problema radicale allora è quello – ancora una volta – dell’incarnazione, del modo di essere Dio di Gesù (e del modo di essere Dio del Padre), perché noi, non siamo mai persuasi fino in fondo che egli fosse pienamente uomo… Non ci va bene un Dio così, non ci convince… saremmo un po’ più tranquilli di un Dio che – dall’alto dei suoi cieli, dall’alto della sua separatezza, dall’alto della sua alterità – intervenisse (dal di fuori, appunto) con una sorta di “bacchetta magica” più o meno coreografica (a seconda dei gusti) per toglierci dai guai (terreni ed ultraterreni): il male subito, il male fatto, la morte, l’inferno…

Sarebbe anche tutto più facile da capire (e purtroppo tante volte la chiesa ha ceduto a questo desiderio di semplificare le cose per renderle comprensibili, perdendo però l’esplosività di ciò che annunciava: la sua disomogeneità, appunto; la sua impossibilità ad essere immediatamente compreso…)… Ma forse sarebbe più facile da capire, proprio perché “a misura di uomo”, perché riclassificabile all’interno delle nostre categorie di pensiero, perché più rassomigliante alle nostre aspettative… un Dio che in fin dei conti è un uomo plenipotenziario, un “Uomone”…

Invece, le disomogeneità di Gesù ci costringono a sbattere il muso contro le nostre ovvietà… e ancora una volta a dire: l’immagine di Dio che avevo in testa, non era Lui… ero io…

In questo senso, davvero Dio è totalmente altro dall’uomo, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri…

Ma non perché è grandissimo, infinito, eterno, lontanissimo… e può fare tutto… soprattutto quello che noi non possiamo fare… sarebbe un “Uomone”… Ma perché nell’alterità del suo essere, si fa più intimo all’uomo dell’uomo stesso… che – a pensarci bene – è l’unica salvezza credibile!

Cerco di spiegarmi con le parole di p. Massimo Fiorucci, OCD: di fronte al dramma del male radicale ed insolubile (che è il problema dell’uomo, ciò da cui l’uomo chiede a Dio di essere salvato), «un primo dato evangelico è questo: Dio non si sottrae alla domanda, ma si confronta e si scontra con l’assurdità del male storico. Decide di non scendere dal banco degli imputati. Il vangelo quindi non ci racconta una fiaba [quella dell’Uomone/di un supereroe], ma la storia di un Dio che assume una forma tale (quella del bimbo, quella dell’uomo in crescita, dell’uomo storico) tale per cui anch’Egli si confronta col male che minaccia la bontà della vita umana.

Un secondo dato: la sua non è una risposta teorica. Egli non risponderà ai nostri perché. Cristo è la risposta all’uomo non ai suoi perché. La sua risposta è la sua vulnerabilità, la sua vulnerabilità è ciò che lo autorizza al perdono. Egli infatti ha un’identità tale che si identifica con ogni uomo che ha patito il male. Per questo – e solo per questo – è autorizzato ad un perdono, che altrimenti non sarebbe neanche in suo potere, perché le decisioni dell’uomo hanno un carattere di irreversibilità: non si può tornare indietro e perciò nulla può bilanciare il male fatto o subito, tanto meno quello subito ingiustamente. Né la vendetta, né l’inferno possono pacificare le domande che il dolore innocente scatena nel cuore dell’uomo. Anzi aggiungono altro male al male già avvenuto.

In Gesù invece la precarietà non è assunta come obiezione, ma come condizione e solo così il suo perdono ha spessore di verità».

venerdì 31 dicembre 2010

II Domenica dopo Natale: Ci ha scelti per essere santi e immacolati... nell’amore!

Eccoci giunti alla prima domenica del 2011, la seconda dopo Natale… e oggi, ho deciso di regalarvi una lectio un po’ meno formale del solito… cerco sempre di non esserlo troppo, ma oggi, vorrei proprio non esserlo.


E allora, inizio con una confidenza… sono ormai tre anni che faccio questo “mestiere”, di scrivere tutte le domeniche una riflessione sulle letture che la Chiesa ci offre: e siccome è ricominciato il ciclo liturgico, ogni tanto vado indietro a rivedere cosa avevo scritto tre anni prima e ogni tanto “attingo”… Forse qualcuno se ne sarà accorto, ma è stato così caro da non farmelo notare.

In occasioni come queste, poi, quelle in cui le letture non si ripetono ogni tre anni, ma ogni anno – come è appunto per il Tempo di Natale – il materiale su cui “sbirciare” è ancora maggiore…

Per cui – se qualcuno ha bisogno di una meditazione più sofisticata – vada pure a rivedere i miei scritti degli anni scorsi… Ma oggi mi va di fare così: lasciar perdere tutti gli “spiegoni” belli e necessari che andrebbero fatti e concentrarmi su un punto solo: la frase di Paolo che ci dice che cosa siamo qui a fare: «ci ha scelti per essere santi e immacolati nell’amore».

A scanso di equivoci, lo dico subito: non vuol dire irreprensibili e senza macchia nelle cose del sesso, come mi sono accorta certi pensavano quando io citavo questa frase (una delle mie preferite), ma, anzi, tutto il contrario.

Il bello di questa frase infatti – e il motivo per cui mi piace anche spesso citarla – è quello che – se la dici bene – riesci a creare un effetto scaravoltante nell’interiorità della gente. Noi infatti quando sentiamo che dobbiamo essere santi e immacolati, non ci scuotiamo nemmeno di un millimetro: è la morale che da sempre ci sentiamo ripetere dagli altri e abbiamo noi stessi ripetuto ad altri… che bisogna essere bravi, che bisogna comportarsi bene, che non bisogna fare il male, soprattutto quello che – appunto – ha qualcosa a che vedere col sesso, perché – si sa – lì c’è qualcosa di particolarmente grave… e bisogna fare così o non fare cosà perché poi ci sarà un giudizio, per cui non bisogna “sporcare” l’anima, bisogna arrivare lindi all’appuntamento (da cui l’importanza di confessarsi, almeno prima di morire) e così meritarsi il paradiso, o, per lo meno, riuscire a evitare l’inferno…

E se vi sembra una lettura un po’ canzonatoria o ridicolizzante, avete ragione… ma il dramma è che è quella più diffusa tra la gente normale, anche quella dotta… quando la gente pensa al cristianesimo, pensa a questo: una morale, con le sue leggi, i suoi divieti, le sue sanzioni, i suoi premi, il suo giudice, la sua bilancia, ecc…

E infatti lo si vive così: senza saper rendere ragione del perché non si debba fare il male ma piuttosto il bene e proponendo come unico tentativo di argomentazione quello dell’inferno e il paradiso…

Solo che ormai non ci crede più nessuno (perché, a differenza dei primi 1600 anni dell’epoca cristiana, in cui il problema era andare in paradiso, perché si dava per scontata l’esistenza di Dio, oggi il problema – direi il dramma umano – è se Dio c’è o no) e così viviamo o facendo tutto quello che per i nostri nonni era assolutamente da evitare (perché se poi Dio non c’è non vorremmo aver sprecato l’occasione), o tentando di fare gli equilibristi tra “lo faccio” / “non lo faccio”, perché se poi magari è vera la storia dell’inferno, è meglio andar sul sicuro: per cui “lo faccio, ma con moderazione”…

Un parallelismo interessante: se Dio c’è, dobbiamo castrarci la vita; se non c’è, possiamo godercela… come se Dio fosse il Dio della morti-ficazione della vita e la sua assenza, la possibilità della vita… strana sorte per quello che voleva essere un lieto annuncio…

Ecco… io credo che questo in sintesi renda bene l’idea di ciò che percepiamo quando sentiamo la frase di Paolo, per cui dobbiamo essere santi e immacolati: se Dio c’è, addio Vita…

Ma se – con Paolo – diciamo «santi e immacolati nell’amore»…
ecco lo scaravoltamento! Si apre tutta un’altra prospettiva (che a me pare quella autenticamente evangelica): bisogna essere irreprensibili e senza macchia non nella morale (comunemente intesa) ma nella donazione del nostro amore, nella nostra capacità di custodia, di dedizione, di tenerezza, di cura, di fedeltà… nella determinata determinazione di dare il primato al volto dell’altro, di fare spazio perché l’altro ci stia, di dare la vita per lui, chiunque esso sia… insomma di fare ciò di cui davvero il nostro cuore ha sete (perché questo c’è davvero nelle profondità di ciascuno… amare ed essere amati, tanto da poter offrire/trovare due braccia tra cui morire), ma che spesso soffochiamo per paura, disillusione, ritorsioni, rancori, ferite… dedicandoci ad altro e distraendoci, in altre faccende affaccendati.

Invece, questa è la buona notizia che Gesù è venuto a rivelare («Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato»), che se Dio c’è, non c’è più bisogno di salvarsi la vita da soli (a scapito degli altri) o di spremerla fino in fondo per godersela il più possibile (a scapito degli altri)… perché se c’è Lui, la tiene in mano Lui… abilitandomi a dedicarmi a ciò che c’è di più bello, che è volere bene!

Ecco lo scarto, rispetto all’altra visione… che qui, quando c’è Dio, c’è la Vita («In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini»)… e che il bene (che è sempre il “volere bene”, cioè l’amarsi!) – e non il male – è bello, rende la vita bella, ci fa più uomini/donne dilatati interiormente (che è la nuova morale riscritta da Gesù… un’anti-morale perché non ha nessun principio o paletto che sta sopra alla faccia dell’altro, che proprio per la sua unicità è non-racchiudibile in un codice legale, perché è sempre “una storia a sé”)!



L’anno scorso concludevo la lectio su questi stessi testi (intitolata “Buon anno”), con queste parole: «Il modo di salvarci di questo Dio fatto uomo è quello di farci figli: “Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità”, “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo”, “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”.
Molti sono i modi in cui potremmo arrivare ad immaginare la salvezza che un dio può portare agli uomini e molti sono i modi in cui i cristiani stessi la pensano… ciascuno di essi rispecchia l’immagine del dio che ha in testa… Allo stesso modo, la scelta di salvarci, rendendoci figli, dice molto su chi sia Colui che questa salvezza l’ha pensata (e attuata!).
Purtroppo molto spesso l’uomo tra tutte le cose che pensa di dio, non arriva ad immaginarlo come Padre (molto più frequentate sono infatti le figure del “padrone”, del “dominatore”, del “soggiogatore”, in versioni più o meno evidenti); ma purtroppo molto spesso persino i cristiani, che dovrebbero fondare la loro fede sul vangelo, che non fa altro che ripetere precisamente la buona notizia che Dio è Padre, se la scordano e reintroducano le stesse figure pagane di un dio che semplicemente è altro da quello rivelato da Gesù.
Ma più radicalmente ancora, il problema sembra essere quello per cui anche chi incontra davvero questa buona notizia, fatica a convertirsi ad essa… a mantenerla salda in cuore… a tornare sempre a farci affidamento… La paura di un’orfanità in cui spesso ci sentiamo abbandonati e il gelo che essa fa scorrere per la spina dorsale sembra spesso prevalere… tornando a farci “vivere” da schiavi… imbruttiti dal timore della morte e dalla paura dell’altro che me la può dare…
In questo tetro scenario sentir risuonare la parola del Prologo di Giovanni, «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio», diventa come un caldo balsamo che penetra i nostri terrori e apre scenari nuovi, riallarga gli orizzonti, dona ossigeno all’anima: un mondo fatto di figli… fratelli…
Chissà se riusciremo a dargli credito… per quest’anno… è il mio augurio più caro».

Non so se son stata capace di vivere così quest’anno… quest’anno terribile che mi ha portato via mio fratello, provocandomi un’emorragia di umanità che non si arresta mai e che impedisce di percorrere le vie di prima per arrivare a dar credito alla Vita (servirà scavare nuovi pozzi…); ma vorrei finire il 2010 (dato che oggi che scrivo è il 31 dicembre) e iniziare il 2011 (dato che domenica sarà già il 2 gennaio) con le sue parole semplici, che hanno dissotterrato dai cuori di tante persone il lieto annuncio che dove c’è Dio c’è la Vita e che quindi «l’emorragia di umanità si cura con in reinvestimento dell’esistenza», passando in questa vita col deliberato unico scopo «di alzare il tasso d’amore nel mondo», imparando sempre «ad amare di più»… per essere santi e immacolati nell’amore!



Con i suoi auguri di un tempo, che però, proprio per il bene che c’è passato dentro, è sempre:

Carissimi fratelli e sorelle (che nutrite qualche dubbio…)
Adesso vedo, se mai riesco a dire,
almeno per Natale,
quanto vorrei confidarvi tutto l’anno.
Se per caso qualche dubbio vi è venuto,
che io, ormai, vivo lontano,
e forse neanche mi ricordo più di voi,
perché troppo indaffarato in altre faccende,
intrappolato in altre relazioni,
affascinato da altri volti…

beh!… proprio vi sbagliate!

Se pensate invece che, con infinita trepidazione,
vi so affidati ad altre sollecitudini,
collocati in altre mansioni del mondo e della chiesa,
che io guardo da lontano con riconoscenza, il vostro lavoro,
e che solo grazie a voi io posso fare il mio…
beh!… proprio avete ragione

[…]

C’è rimasta una sola parola, forse,
che ci comprende tutti:
e non discrimina mai:
“fraternità”.
Per questo con me ci siete anche voi!

[Giuliano]

venerdì 24 dicembre 2010

Santa famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria

La Chiesa in questa prima domenica dopo Natale, celebrando la festa della Santa Famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria, ci invita a riflettere sulla narrazione che ne racconta la storia (almeno un pezzettino…). Ma – come testimonia la scelta delle letture, tratte dal Siracide e dalla lettera di Paolo ai Colossesi – l’invito è quello di estendere la riflessione anche alle nostre famiglie…


Partiamo proprio da qui. Infatti mi pare che sia subito da mettere in luce un’indicazione interessante: e cioè il fatto che, sia la prima che la seconda lettura, parlino dei rapporti familiari all’interno di discorsi più ampi, stigmatizzando la vita di coppia o il rapporto con i figli come situazioni emblematiche per la vita. Ne parlano infatti insieme all’altra condizione fondamentale dell’uomo, quella della sua attività (cfr Sir 3,17: «Figlio, nella tua attività sii modesto»), in particolare all’interno del rapporto servo-padrone (cfr Col 3,22: «Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni»). Inoltre, in modo esplicito il libro del Siracide introduce il brano dov’è contenuta la lettura di questa domenica con questa frase: «Figli, ascoltatemi, sono vostro padre; agite in modo da essere salvati» (Sir 3,1).

L’orizzonte ampio in cui si collocano le parole sui rapporti genitori-figli è allora quello della salvezza: per essere salvati, sembra dire il Siracide, è necessario che curiate le relazioni di generazione, quelle che toccano l’origine della vostra vita.

Eppure, nonostante l’evocazione di questa pista di riflessione crei notevoli aspettative, di fatto poi, la lettura del testo del Siracide, lascia una certa impressione di delusione... Non tanto per quanto dice... ma soprattutto per quanto non dice:

- si parla di onore al padre e alla madre… indicazione certo inconfutabile, se non fosse che a noi riecheggia subito nelle orecchie quanto cantava De Andrè nel suo Testamento di Tito: «Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore». A dire che forse non sempre l’automatismo del comandamento ha una plausibilità storica;

- si parla poi, per chi onora il padre, di esaudimento della preghiera, di gioia dai propri figli, di vita lunga... ma semplicemente noi sappiamo che non è così... basta attraversare un po’ l’umanità e le tragedie che investono la sua storia per rendersene conto: persone che sono state figli esemplari non hanno visto le loro preghiere esaudite, non hanno avuto gioia dai loro figli, non hanno avuto una vita lunga… e chissà cos’altro…;

- si parla di un padre che perde il senno, ma non sono considerate tutte le altre drammatiche situazioni che le nostre famiglie attraversano…

Non credo però ci sia troppo da stupirsi... mi pare infatti che l’intento del Siracide in questi versetti sia semplicemente quello di delineare una buona condotta familiare, contenuta in un testo più generale che vuole dare “consigli per il vivere”, attraversando molti campi esistenziali, senza la pretesa di indagarli nello specifico. E come insegna la buona esegesi, non si può far dire a un testo più di quello che dice.

Da quanto detto quindi mi pare emerga un dato di fatto: se oggi la Chiesa ci chiede di concentrarci sul tema della famiglia, non possiamo farlo limitandoci a proporre banali regole di buon comportamento, abituali pacche sulle spalle che non consolano né incoraggiano più nessuno, aridi discorsi moralistici che non fanno altro che buttare sulle spalle della gente pesi che noi non tocchiamo neanche con un dito (Lc 11,46).

In questo senso è interessante proseguire la nostra riflessione notando che, come il Siracide, che elencava una norma comportamentale per i figli al fine di salvarsi, anche la vicenda del Vangelo parli della necessità di un mettersi in salvo: «I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). È ancora più curioso il fatto che, chi deve essere messo in salvo (lui è ancora troppo piccolo per poterlo fare da sé), sia proprio il Salvatore del mondo...

Ma qui, diversamente dal Siracide, in merito alla salvezza non si parla astrattamente di ‘come ci si deve comportare in famiglia’: qui ci è raccontato un pezzetto della storia di una famiglia e del suo ‘immischiamento’ nel fango e nelle fatiche di questo mondo...

Di essa infatti si dice subito che sta tutta dalla parte dei derelitti, di quelli a cui certo non bastano le buone norme comportamentali: questa, di Gesù, Maria e Giuseppe è una famiglia profuga (tra l’altro in Egitto...), povera («non c’era posto per loro nell’albergo»), strana (è infatti una famiglia moralmente incriminabile, come trapela da Mt 1,18-25, che mette in evidenza la tensione di Giuseppe all’idea di avere in moglie una ragazza madre)… è una famiglia che dunque si impone come paradigma non solo per le famiglie “apposto” da un punto di vista giuridico-canonico, ma per tutte le famiglie, anche per quelle che in senso stretto non dovremmo neanche chiamare così: le comunità, le fraternità, le famiglie allargate, le famiglie rimpicciolite, le s-famiglie (per citare un’opera di P. Crepet)… insomma – prendendo il termine in senso lato e ampio – per tutte quelle situazioni umane in cui ci si ritrova almeno in due a tentare di vivere l’accoglienza di Gesù, lasciandosi da lui normare la vita…
Perché seppure le povertà siano diverse, tra miseri, poveri, emarginati, si crea una sorta di solidarietà di base... di sentirsi collocati dalla stessa parte del mondo (quella sbagliata naturalmente)... E allora è davvero consolante leggere che la santa famiglia sta anch’essa da ‘questa parte di qua’: dalla parte delle famiglie profughe, povere, strane... dalla parte delle famiglie che non possono più dirsi famiglie... dalla parte di famiglie in cui manca il padre, la madre, un figlio... dalla parte delle famiglie che preferirebbero non avere quel padre, quella madre, quel figlio... dalla parte di quelle «nuove famiglie che la Chiesa non vede» (come scriveva Aldo Schiavone, sula Repubblica di lunedì 24 dicembre 2007)...

Infatti «… Questa “santa” famiglia è così tanto culturalmente disomogenea ad ogni modello e tanto fuori da ogni misura, proprio per questa divina inabitazione, da contenere ogni famiglia […]. Allora, adesso, ogni luogo d’amore umano che anela ad esser “famigliare”, (ove cioè l’uomo tenta di addestrarsi comunque ad esser uomo), si tratti di famiglia “normale” o incompiuta, legalizzata o emarginata, affranta sotto il peso della condanna ecclesiale o sociale, o da paure e divisioni, peccato o fragilità, sessualità normotipiche o incoative – dentro o al di fuori di ogni frontiera culturale tutte sono abitate “carnalmente, e per questo ancor più “profeticamente” da Dio stesso … Magari pàgano un amaro tributo alla prima radice carnale, ma possono sempre essere redimibili e salvifiche perché aggrappate alla seconda. Nessuno può più a priori condannarle, ma anzi deve accudirle e custodirle e illuminarle, perché dentro le ferite della tormentata storia biologica, culturale o personale che le ha prodotte, il cristiano sa che c’è sempre, almeno un brandello della “buona notizia di carne” – che è questo “bambino”». Ma «… bisogna forse fermarsi un momento a riflettere per capire come questa ‘unica’ irrepetibile famiglia possa essere significativa per le nostre… se dev’essere in qualche modo il modello della famiglia cristiana, proprio perché è la famiglia di Gesù il Cristo. È una ben strana famiglia, questa, che vive un’avventura umana così eccezionale ed irrepetibile… Una continua sorpresa a se stessa! A leggere il racconto di Matteo, Giuseppe desiderava invece una normalissima famiglia, ma ad ogni momento importante ha un sussulto per un cambio di rotta sconvolgente… Non avrebbe mai “sognato” di vivere un’avventura così. Altri sogni invece lo istradano verso progetti impensabili» [Giuliano].

Progetti, sogni, avventura che come dice bene Paolo son fatti… «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità», ma soprattutto «di carità/amore, che li unisce tutti»…

Accogliere Gesù, infatti, da bambino e poi da grande e poi da crocifisso e poi come Signore della propria vita, vuol dir proprio questo – alla fine – se ci pensiamo… plasmare il nostro cuore (dentro il miracolo – “diluito” lungo tutta la vita – di con-vertirci a Lui) perché si disponga sempre come “capace” di amare… tutti…

Ciò che infatti alla famiglia di Nazareth sarà chiesto lungo la storia – a Giuseppe con Gesù bambino (un bambino non suo) e poi da grande in particolare a Maria – è rompere i confini della generazione carnale, per aprirsi all’universalità del bene (non a caso Maria è madre sua e madre nostra, cioè di tutti): ella infatti – come si vede bene nei testi che parlano di lei (Mt 12,46-50, Lc 2,33-35, Lc 2,48-51, Gv 2,1-5, Gv 2,12) – vive una tensione che man mano la porterà ad essere non più solo la madre di Gesù – vocazione che “istintivamente” le riusciva bene – ma la madre dell’umanità – vocazione che invece le richiede l’accettazione di una spada che trafigge l’anima… per lei infatti, al seguito di suo figlio, la maternità non si esaurirà più nella custodia – fino alla morte – del proprio figlio… Ma diventerà il modo d’essere di sempre, la modalità di esistenza di fronte a chiunque, il nuovo DNA per stare al mondo: in Gesù “essere madre / essere materni” («tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità, carità/amore») diventerà il modo nuovo di accostarsi a ciascun figlio dell’uomo, a qualsiasi grumo di sangue, a qualsiasi pezzetto di carne umana si incontri nella propria vita. È infatti precisamente quello che chiederà a sua madre quando, sotto la croce (Gv 20,25-27), le affiderà Giovanni, un altro figlio, mentre lui, il suo muore… Questa è la maternità riscritta da Gesù – per niente sdolcinata o sentimentale – che chiede la dilatazione del proprio grembo per farci stare non solo i nostri ma chiunque abbia bisogno di un po’ di spazio, di un po’ di accudimento, di un po’ di casa…

In questo senso tutte le “famiglie sbagliate” che abitano il nostro mondo (a vario titolo ‘maledette’… composte da orfani, figli di separati, di omosessuali, di extracomunitari, di prostitute, di pedofili, di violenti, di carcerati, di malati, di psicolabili...) non sono “fuori dai giochi, ma anzi anch’esse abilitate a “provare ad amare così” e addirittura – forse – anche più “predisposte” perché loro l’alterità, la stranezza, la diversità che gli altri leggono come estraneità (facendone dei “non nostri”) ce l’hanno in casa… come Maria e Giuseppe!

In proposito vi metto qui sotto, anche un testo scritto da Giuliano per i monasteri (pensati come cantieri antropologici in cui provare a vivere il vangelo), in cui si delinea – a mio parere – un certo modo “evangelico” (appunto!) di esse famiglia, di qualsiasi tipo sia…



APPUNTI monastici carmelitani

• Con S. Teresa d’Avila inizia un nuovo progetto umanistico, innestato sul tronco antico del monachesimo carmelitano:

Costruire uno spazio esteriore ed interiore ove coinvolgere tutta la persona per sempre, affascinandola al progetto di cambiare la propria vita “spirituale” in amicizia con Dio, attraverso l’umanità di Cristo, entro un gruppo di sorelle amiche!

Privilegiando la via dell’esperienza, rispetto alla via intellettuale o pastorale o devozionale o sacrale:

o Dunque una via accessibile alle donne – monache (del tempo! : cioè accessibile ai laici – anche non colti!)

o Compatibile con il lavoro manuale (alla portata di gente immersa nelle faccende quotidiane – non chierici)

In un laboratorio di libertà: ove poter dedicarsi totalmente (in uno spazio preservato dall’autonomia monastica anche canonica) ad una dinamica evangelica ovviamente disomogenea al contesto circostante – di cui la clausura è la custodia (come presa di distanza in ogni campo: culturale, ecclesiale, fraterna, monastica, economica...) – e il filtro (che lascia entrare solo ciò che serve a questa scelta radicale).

Ove tutte le risorse e la passione della persona e della comunità siano rivolte al primato della relazione / dilatazione dell’amore

Agevolando l’esperienza ricettiva, la potenza della passività, la significatività della relazione accolta sia nella solitudine e nel silenzio, come nell’intensità della relazione – sonora e amabile, non affatto isolata nè ombrosa:

“l’orazione infatti altro non è che coltivare una relazione di amicizia intrattenendoci frequentemente in solitudine con chi sappiamo che ci ama. E se voi ancora non lo amate (in quanto, affinché l’amore sia vero e l’amicizia durevole, occorrono condizioni di parità,e invece è notorio che la natura di Dio va immune da qualsiasi difetto, mentre la nostra è viziosa sensuale ingrata) - ossia se non riuscite ad amarlo abbastanza, perché lui non è alla pari di voi, per lo meno, constatando quanto vantaggio vi apporti godere la sua amicizia e quanto egli vi ami, ce la farete a sopportare la pena di intrattenervi a lungo con Chi pure è tanto diverso da voi”

[ S. Teresa V,8, 5]

Si tratta di imparare a dirsi di no (!) per uscire dalla condizione infantile della paura di perdere l’io: quella che ci impedisce di seguire il Signore:e non ci lascia mai passare da ciò che si è a ciò che non si è (ancora!); infatti:

o sei ancora lì (stanca) – nel luogo da dove non sei mai partita (purtroppo)

o vivi (senza gioia) quello che non hai voluto morire

o sei affamata (senza pace) di quello che non hai voluto mangiare

non bastava “congedarsi” da casa – ma bisognava rinchiudersi in una casa – ove:

o il non / io è accolto in te: tu non vai via, né lo chiudi fuori: lasci lui venire a te

o sorridi all’intrusione del diverso, all’irruzione del disagio, al protagonismo dell’altro

o contieni la tracimazione dell’insofferenza (è solo l’io che... ha messo i suoi confini)

lasciando invece scavare, dentro di te, il fondo dell’interiorità, per farci stare ognuno e ogni cosa che chiederà uno spazio – è terreno tuo che offri alla dilatazione del Regno:

o per ospitare l’oltranza, e fare dell’altruità un’attitudine del cuore

o per uscire da sé – alterarsi o alienarsi un poco

o rovinare dolcemente i gusti e i significati per simpatizzare con le diversità e le antipatie

o imparando a gustare le non/esperienze/ il dentro che viene da “fuori”

giovedì 16 dicembre 2010

IV Domenica di Avvento: Giuseppe, simbolo del dramma umano-divino

Ed eccoci giunti all’ultima domenica prima di Natale… Ormai ci siamo… il mistero tanto atteso inizia ad essere intravisto, tant’è che il brano del Vangelo di Matteo che la Chiesa ci propone incomincia con la dichiarazione esplicita di che cos’è ciò che stavamo aspettando: «la nascita di Gesù Cristo». Ma ci vien detto di più… infatti non solo è detto il fatto, ma anche il desiderio di volercelo narrare: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo». È un incipit davvero promettente… anche liturgicamente parlando: dopo queste settimane di attesa (di Avvento – appunto –), finalmente siamo arrivati a leggere e celebrare la Parola che delinea chiaramente cosa c’era da aspettare… E dunque? Ormai è chiaro che quanto dovevamo aspettare era una nascita…


Ma… leggendo fino in fondo il testo proposto dalla liturgia di questa quarta domenica di Avvento ci rendiamo conto con un sorriso che non è raccontata proprio nessuna nascita… Essa infatti nel Vangelo di Matteo è sì al cap. 1, ma al versetto 25… mentre il testo proclamato in chiesa si ferma al v. 24… Curioso, no? No… il fatto è che siamo vicini… ma non ci siamo ancora… è ancora tempo di attesa (di Avvento – appunto –)… un’attesa che però si fa sempre più carica di aspettativa perché ormai le fila principali del discorso iniziano a snodarsi… ed oggi ci è dato di fare non un passettino qualunque verso il mistero che celebreremo sabato, ma quello decisivo… l’ultimo: ben sapendo che “quando si fanno 10 passi verso qualcuno, 9 sono solo la metà”…

Ma allora di cosa è fatto quest’ultimo avvicinamento a Natale, se non c’è la nascita di Gesù, come ci avevano detto (cfr Mt 1,18a)?

Beh… parla di un uomo a cui è successa una cosa strana… una cosa che potremmo delineare con queste parole: a quest’uomo, che si chiamava Giuseppe, è successo di passare dal “rannicchia mento” sui suoi pensieri agli orizzonti ampi apertigli da un incontro speciale…

Si sa, Matteo racconta i fatti dell’infanzia di Gesù dal punto di vista di Giuseppe… a quest’ultimo era stata data in sposa Maria. La procedura matrimoniale ebraica prevedeva 2 fasi: lo scambio del consenso e il trasferimento della sposa nella casa del marito… Ecco… Maria e Giuseppe nel momento che l’evangelista sta descrivendo erano promessi, ma non abitavano ancora insieme.

La sorpresa è che Maria si ritrova incinta… letteralmente «si trovò avente in ventre»… Forse a noi questo ventre riempito, che si ritrova con dentro qualcosa non fa più tanto problema… noi sappiamo già tutto il proseguimento della storia e la sua spiegazione: sappiamo che lì dentro c’è Gesù, che è il Figlio di Dio, che Maria l’ha concepito verginalmente, che c’ha pensato lo Spirito santo… ma proviamo a metterci un po’ nei panni dei protagonisti… nei panni di Giuseppe… forse le cose ci appariranno sotto un altro punto di vista… una prospettiva nuova che potrà aiutare anche la nostra (quella di quelli che sanno già tutto…) a farsi nuovamente istruire… Insomma… Giuseppe si ritrova con un ventre riempito… e il problema c’è… tant’è che sa che Maria potrebbe incorrere nel «pubblico ludibrio», potrebbe essere additata come una donna scandalosa, come una di quelle che ha concepito un figlio fuori dal matrimonio… (e che peccato che i cristiani nel guardare a queste donne non abbiano imparato dalla tenerezza e giustezza di Giuseppe verso la sua Maria)…

Ad ogni modo… Il versetto 19 e la prima parte del 20 ci descrivono quest’uomo contorto nei suoi pensieri, nella preoccupazione sul da farsi, nei giramenti di viscere tra incredulità di fronte all’accaduto, rabbia per un tradimento subito, amore per la sua Maria a cui comunque non vuol far del male: «Giuseppe poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò». Potremmo immaginarlo seduto, con la testa fra le mani, incapace di star fermo, col cervello che gli fuma e il cuore che gli sanguina («mentre stava considerando queste cose»)… ed è facile immaginarselo così… perché è così simile alle tante volte in cui noi ci ritroviamo così… raggomitolati su noi stessi alla ricerca di una via che non troviamo… con quella sensazione di impotenza, incapacità, sfiducia che ci ridona la consapevolezza di essere caduti, ancora una volta, nel circolo vizioso del cane che si morde la coda… E Giuseppe, proprio come noi, alla fine di tutto il suo ragionare, partorisce la sua risoluzione… come l’elefante che partorisce il topolino… infatti la sua è una risoluzione che non può che apparire ed apparirgli come il male minore, il meno peggio… come ogni uomo, nei contorcimenti della vita, non può che trovare espedienti, escogitare risposte in seconda battuta, tamponare la falla… «pensò di ripudiarla in segreto».

Eppure gli rimane, come rimane a noi d’altra parte, la terribile sensazione che era altro quello che dovevamo fare, che la vita aveva promesso altro a noi e a chi ci stava intorno… ma d’altronde che potevamo fare d’altro? Che poteva fare Giuseppe d’altro? «Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. […] Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Avviene qualcosa… finalmente per Giuseppe arriva l’unica risoluzione che dà gioia, l’unica che aveva sempre sperato di poter realizzare, ma che nel giro di un momento gli era morta in mano: prender con sé la sua sposa! È successo qualcosa in quest’uomo che avevamo lasciato poco fa incurvato sotto il peso dei suoi pensieri e che ritroviamo determinato e quasi felice (il testo non lo dice, ma l’incalzare dei verbi indica che lo scenario – anche interiore – è mutato: c’è dell’aria fresca da respirare ora…).

È successo che mentre sognava gli si è fatto vicino Dio (“un angelo del Signore” nella Bibbia è l’espressione per dire la presenza di Dio) e gli ha sciolto il nodo che aveva in gola «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Gli ha detto di non avere paura a prendere in casa una ragazza madre, gli ha ricordato un’appartenenza promessa e da mantenere (quella ragazza madre è «Maria, tua sposa»), lo ha coinvolto nella vicenda di sua moglie, del figlio di lei, del figlio di Dio… l’ha coinvolto nella vicenda di Dio… che mai infatti – ci insegnerà lo stesso Gesù – si svolge senza l’uomo («ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù»).

E questo incontro speciale ha trasformato Giuseppe… Troppo spesso lo immaginiamo come una figura presto da dimenticare: non fa niente, gli tocca tenere e crescere un figlio non suo, con questa storia dello Spirito santo che fa sorridere i malpensanti, non può stare con sua moglie (che per la Chiesa è vergine prima durante e dopo), a un certo punto della storia sparisce, senza che si sappia più niente di lui… insomma… non pare avere una grande parte nella scena della vita di Gesù…

E invece no! Invece Giuseppe è uno di quegli «amati da Dio e santi per chiamata» di cui parla Paolo nella sua lettera ai Romani: è uno di quelli che attraverso il richiamo a non avere paura (di amare), la fedeltà ad una storia (d’amore) e il coinvolgimento da parte di Dio in una Storia (d’Amore) esce trasformato, convertito, trasfigurato… Giuseppe fa l’esperienza di passare, nell’incontro con Dio, dalla vita mortifera alla Vita vitale. E il suo sollevarsi dal raggomitolamento all’azione («Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa») è rivelazione che quel Dio lì che ha incontrato è il Dio della Vita… Giuseppe è testimone, nella sua carne, che con Gesù si ha a che fare con il Dio che dà vita, che fa fare esperienza di vita…

È interessante che la Chiesa proponga proprio questo testo l’ultima domenica prima di Natale: forse vuole dirci che la disposizione per accogliere questa nascita è il non avere paura di amare, essere fedeli alla storia e lasciarci coinvolgere nella dinamica vitale di Dio? Di quel Dio-con-noi che curiosamente è detto a noi, ma non a Giuseppe…? Matteo infatti mette la citazione di Isaia come suo commento al discorso dell’angelo… le parole «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi”» non fanno parte del discorso che l’angelo fa a Giuseppe… Giuseppe sa che il figlio che ha in pancia Maria «viene dallo Spirito Santo» e che «egli salverà il suo popolo dai suoi peccati», ma non sa che è l’Emmanuele, cioè non sa che è un Dio che sta dalla parte dell’uomo…

Ma secondo me a lui non l’hanno detto, perché non c’era bisogno: l’aveva già scoperto nella sua carne…
Eppure… non va dimenticato… che anche questa esperienza di Giuseppe non va troppo facilmente risolta nel suo “lieto fine”… anch’esso è testimonianza in piccolo di una dinamica più grande e pervasiva di tutto il vangelo: c’è sempre una drammatica con cui scontrarsi…

Per Giuseppe è la sottrazione della generazione di suo figlio, di cui infatti sarà “solo” il padre legale («Per un momento, nella normale costruzione di un essere umano, è sospeso l’intervento dell’uomo: la donna è invitata a rinunciare al suo umano progetto, e diventa il luogo della parola parlata da Dio», I volti di Eva a cura del Monastero delle carmelitane scalze di Legnano)… dramma simbolico del fatto che quel bimbo porta in sé la drammaticità che cambierà la storia («Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”»Lc 2,33-35; «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada», Mt 10,34): anche Maria – che in tutto il racconto di Matteo non dice una parola – dovrà «continuare a cercare tra la gente, nelle strade e nelle contrade, nel tempio o sulle colline… il figlio dell’uomo, senza padre, che annunciava il Padre di tutti… anche a lei, al di là di ogni generazione carnale. In questa ricerca, “serbava nel suo cuore tutte queste cose, confrontandole tra loro”. Per domandarsi ancora una volta che senso avessero. Sotto la croce ha capito! Perché sotto la croce Dio le ha restituito – morto – il figlio comune (umano e divino). Mettere al mondo, dunque, non voleva dire soltanto far nascere, ma rendere mondano, cioè mortale, Dio. Mettere al mondo vuol dire mettere a morte. Seminare la morte all’interno di Dio. E Dio venne ad abitare nell’unico luogo dove non avrebbe mai potuto abitare. Ma siccome Dio è troppo grande, è la mondanità che è diventata interna a Dio. Di questa malattia umana, trasmessa da Maria, Dio è morto. Poiché questa unione di Dio con la sua carne di donna, dentro il suo corpo (questo è il mio corpo! Questo è il mio sangue!) è indivisibile. Il figlio morente ha fatto delle due cose incompossibili, una cosa sola, per sempre. Il matrimonio tra Dio e mondo, in Maria, diventa indissolubile, anche se una spada a due tagli cerca di separarli. La terra (l’umanità) si santifica stando impotente ai piedi della croce, col cuore trafitto dalla spada a doppio taglio. Doppiamente lacerati, dunque, dall’abbandono nel quale Dio lascia il figlio e la nostra storia nel suo abisso di impotenza e di morte – e dalla solidarietà con gli uomini nostri fratelli, incapaci di fraternità e perdono. Senza potere fare nulla»… [I volti di Eva]

… se non… re-investire esistenza – che è il contrario che l’emorragia di umanità (di cui siamo affetti quando muore qualcuno che amiamo); che vuol dire re-investire la nostra affettività, le nostre ‘molle’, le nostre dedizioni, la nostra voglia, le nostre chiacchiere, le nostre rabbie, i nostri perdoni… in un tessuto di volti… che è l’unica cosa che può portarci a perdonare Dio, o la vita, o la storia, o noi stessi, o chiunque individuiamo come sfogo del nostro “non doveva andare così”… perché soltanto il tornare a credere nell’amore (fino ad investirci la vita) ci fa fare pace con la drammaticità che la nostra storia – e il nostro Dio anch’egli passato in mezzo ad essa – ci consegna… [cfr. Elaborare la dipartita, a cura del Monastero della carmelitane scalze di Legnano].

sabato 11 dicembre 2010

Cristianesimo da “spam”


La mia casella postale, come accade oramai a tutti, è spesso invasa dallo spam (email indesiderate). Normalmente le cancello senza leggerle… Oggi mi si è illuminata una lampadina e ho provato a guardarle… Ho trovato interessante l’evoluzione del loro contenuto, che mi permette, in qualche modo, di vedere il “mondo” (nel senso giovanneo) dal punto di vista dei massaggi (No! Non è un errore di stampa!) dei suoi adepti.
Agli inizi arrivavano spam inviate dalla dea Venere.
Ora sempre più spesso arrivano spam direttamente dal dio Mammona che propone di trasformati in un novello re Mida.

Ecco alcune interessanti contenuti che mostrano, come dire, l’evoluzione filosofico-teologica della proposta (Mammona, si sa, è un gran teologo!).

Intanto al Casino si è aggiunto un accento trasformandolo in Casinò… questo se “fisicamente” non ha richiesto grande sforzo, oggettivamente bisogna riconoscere che c’è stato un gran salto di “qualità”. Infatti da banali distributori di piacere immediato si è passati a dei distributori che ti promettono un futuro di piacere…

Non è un’evoluzione di poco conto, perché passa dalla soddisfazione immediata del desiderio (che proprio per questo patisce la “curva della frustrazione”) alla soddisfazione come “promessa mai compiuta” che ha i confini infiniti del desiderio non appagato. In questo modo il desiderio non patisce la frustrazione che nasce dalla propria soddisfazione immediata, ma si lancia oltre se stesso verso un futuro solo promesso e solo parzialmente “anticipato” dalle calcolate vincite.

Per chi ha un minimo di conoscenze teologiche e bibliche non farà fatica a scoprire che siamo davanti a una proposta strutturalmente “cristiana” (non semplicemente “religiosa”), con dinamiche interne simili a quelle della speranza che proietta l’uomo e il suo cuore (teleologia) verso la promessa escatologica.
Cristianesimo senza Cristo, al cui posto – nel tempio umano – regna, come l’abominio biblico, trionfante il denaro agognato.

Non a caso il linguaggio di queste spam è prettamente “biblico”, nel senso che attingono alle figure tipiche del mondo genesiaco  cercando di riproporre quelle idealizzazioni da “paradiso terrestre”, nostalgicamente ancora ben vivo nella ancestrale memoria culturale di ciascuno.

Ed ecco alcune proposte allettanti, testuali, testuali: «entra nel mondo dei ricchi» e un’altra «clicca qui, potresti non dover lavorare in vita tua».

Se questo è lo spam oggi, possiamo fermarci un attimo a pensare ad eventuali analogie… gli insegnamenti che ne ricavo mi istruiscono non poco: scelgo un filone, tra i tanti che mi si mostrano.

Intanto noto che queste spam non si distanziano da molte proposte politiche.
Naturalmente, quando parlo di politica intendo anche politica economica.
Sindacati e imprenditori non sono esclusi dalla categoria. Anzi!
Marchionne e le sue proposte di un’Italia migliore (sic!) si iscrive a pieno titolo all’interno della logica religiosa di queste spam: un sacrificio oggi per avere il paradiso domani. Naturalmente lui si prende per il dio al quale dobbiamo il nostro fiat!

Altrettanto dicasi dell’accertato e documentato slittamento della cosiddetta “classe operaia” (e sue successive evoluzioni con o senza “colletto bianco”), dall’eresia comunista all’eresia leghista.
Infatti, molte scelte politiche (votare questo o quel partito, aderire a questa o quella azione sindacale…) si ispirano a questa nostalgia paradisiaca, di un benessere a cui gli altri continuamente attentano. Qui la proposta religiosa, oltre ad arricchirsi di ulteriori riti, si fa più raffinata: il sacrifico lo si fa fare agli altri (ieri erano i padroni, oggi, visto che siamo diventati padroncini, sono stranieri, Rom, terroni, musulmani, ecc.) e il paradiso ce lo teniamo noi!

Non sto a descrivere l’ovvio e quindi è inutile affermare ciò che è evidente a tutti e cioè che eletti e elettori del Pdl (almeno quelli che io ho conosciuto direttamente o indirettamente) si ispirano agli stessi valori “cristiani” delle spam sopra descritte, al punto che potrebbe essere definito letteralmente un “partito spam” (o «spam di partito», vedete voi). Sarà per questo che si crede cristiano?

Ma anche certe affermazioni di altri personaggi “insospettabili” sono inconsciamente rivelatrici che lo spam oramai ci ha raggiunto l’anima. Durante l’allora trasmissione di confronto all’americana per la campagna elettorale tra Berlusconi e Prodi ad un certo punto il giornalista, evidentemente a corto di domande, ha la bella pensata di chiedere a Prodi che cosa prospetta nel futuro degli italiani. Alche, il grande Prodi, non trova di meglio che augurarsi e quindi promettere in un rotondo e per nulla imbarazzato sorriso, «Più di felicità!». Ditemi se non è una promessa “religiosa”, da spam!

Conclusione? Non basta essere cristiani (su questo giudichi Iddio!) per esserlo anche politicamente (questo dobbiamo farlo tutti!): Infatti la separazione del potere politico dal potere religioso, implica, tra le altre cose, che il potere politico rinunci a delle promesse “religiose”, e si faccia fattore di una società semplicemente più vivibile per tutti: vivibile il lavoro, vivibile la scuola, vivibile la sanità, ecc.

Mi attendo una politica vivibile che rinunciando a linguaggi e promesse messianiche sia più attenta alle dinamiche proprie della “secolarità”: diritto, lavoro, equità, giustizia, democrazia, ecologia… Altrimenti il nostro sogno di un mondo migliore si tradurrà in fuga alienante dalla realtà concreta che lascia irrisolti i suoi problemi. E “le cose” non potranno che andare peggio. Il “paradiso”… lasciamolo a Dio!

Chissà se Bertone, tra una cena e l’altra, ci ha mai pensato.

venerdì 10 dicembre 2010

III Domenica di Avvento: Giovanni e Gesù, l’antico e il nuovo

Il vangelo che la Chiesa ci offre in questa terza domenica di Avvento, fa nuovamente riferimento alla figura di Giovanni Battista, anche se – ovviamente – tratta un episodio diverso rispetto a quello narrato settimana scorsa.


In quell’occasione, volutamente, ho preferito non concentrarmi sul precursore, per poter oggi – grazie a questo secondo brano che affianca quello (Mt 3,1-12) – affrontare il discorso con una completezza maggiore.

Siamo al capitolo 11 del vangelo di Matteo; sono quindi “passati” 8 capitoli rispetto al battesimo di Gesù: 8 capitoli nei quali i due cugini hanno avuto destini diversi. Giovanni è finito in carcere a causa della sua predicazione, che creava problemi al potere costituito; mentre Gesù ha iniziato la sua vita pubblica (a questo punto del vangelo ha infatti già annunciato l’approssimarsi del Regno, chiamato i discepoli, compiuto guarigioni, fatto il famoso discorso della montagna e quello missionario… ha già avuto le prime discussioni…); addirittura – per l’evangelista Marco – il momento dell’arresto dell’uno, ha coinciso con l’inizio dell’attività dell’altro («Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio», Mc 1,14), tanto che secondo Giovanni – l’evangelista –, Giovanni – il Battezzatore – avrebbe detto: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30.

È proprio dopo questi 8 capitoli, che hanno segnato, per i due, una storia così diversa, che sulla scena irrompe la domanda di Giovanni Battista che manda a Gesù i suoi discepoli per chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».

La domanda non è banale… In Israele al tempo di Gesù c’era una forte attesa messianica e Giovanni da subito aveva individuato in Gesù il compimento di questa attesa (Mt 3 e paralleli)… Eppure ora, dopo 8 capitoli, è un po’ dubbioso… Perché? In che cosa Gesù non lo convince molto come messia?

Per intuirlo è interessante andare a rileggersi l’idea di Dio (e quindi di messia) che ha in testa Giovanni, quella che si può trovare nella II parte del vangelo di settimana scorsa – la “predica” di Giovanni (Mt 3,7-12: «Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile») e confrontarla con la vita di Gesù narrata nei primi 10 capitoli del vangelo di Matteo… dei quali, basti un assaggio: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste», Mt 5,43-48.

È interessante, perché si vede subito che l’idea di Dio dei due cugini non è precisamente la stessa… anzi…
Per quanto Giovanni aspetti il messia e lo riconosca in Gesù, quest’ultimo nel suo proporsi è sempre sorprendente… non prevedibile, inedito! E questo a volte mette in crisi, perché rompe gli schemi… ed è così per tutti… «Qui, [infatti] il problema del Messia non è più quello del popolo che si converte, alla voce di Giovanni, mentre i maestri e i capi lo rifiutano, ed Erode, prima affascinato, è poi travolto nella logica di morte dalla quale non riesce a togliersi… Il problema è di Giovanni stesso. Proprio lui, il più preparato ad accoglierlo, la cui missione è di preparatore degli altri. Ma anche per Giovanni, quando il Messia s’avvicina, la sua vera identità è sorprendente, inaspettata – anche per lui, come poi per Maria, come per tutti i discepoli, Gesù è il messia, il figlio del Dio vivente, dirà Pietro… ma non come l’aspettavano! E questa è la vera fonte dei nostri guai di fede! Il Signore non è ovvio, non è prevedibile coi criteri miracolosi che ci hanno detto: è sempre inaspettato – sempre, per tutti! Giovanni aveva atteso e predicato, sulla scia di antiche profezie, un Potente che battezza con Spirito e fuoco…una scure incombente alle radici dell’umanità in attesa. Occorre convertirsi subito, o sarà la fine! Ma arriva un Mite, che si mischia coi poveri e i peccatori, li perdona senza castigo, si autoinvita a casa loro…» [Giuliano].

Giovanni si aspettava il Dio della potenza, il Dio giudice, il Dio armato che premierà i buoni e distruggerà i cattivi e dunque vedeva la realizzazione dell’uomo nello sforzo volontaristico di essere gradito a Dio…

Gesù, invece, parla di un Dio che è Padre, che fa sorgere il sole su tutti, sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti… e vede la realizzazione dell’uomo nella sua capacità di imparare ad amare tutti, anche i nemici…

Non a caso la risposta di Gesù ai discepoli di Giovanni va proprio in questo senso… Stanno mettendo in discussione la sua identità messianica e lui risponde dicendo di riferire a Giovanni ciò che vedono e odono, cioè che dove passa lui la morte è trasformata in vita, la tristezza in gioia, l’aridità in fertilità… Per Gesù infatti il Regno di Dio, dunque, il mondo come Dio lo vuole, sono gambe storte che si raddrizzano, occhi ciechi che ci vedono, orecchie sorde che ci sentono, cuori induriti che si sciolgono… insomma l’umanizzazione della dis-umanizzazione in tutte le sue forme. Sia nel macrocosmo (poveri – prigionieri – ciechi – oppressi), sia nel microcosmo (noi, nelle nostre povertà – prigionie – cecità – oppressioni). La prospettiva di Gesù è infatti sempre quella di restituire all’uomo la sua specifica caratura umana (non a caso i suoi miracoli non sono mai segni di potenza, ma sempre di liberazione dal male!).

Questo è Gesù, questo è ciò che lui stesso dice di sé… questo è il suo modo di essere messia, quello per cui «Oramai guarire [non punire] l’uomo è un criterio di riconoscimento» [Giuliano] di Dio.

Il confronto, però, non termina qui, ma prosegue nella scena in cui Gesù – dopo aver congedato i discepoli di Giovanni – parla, alle folle, del Battista stesso… definendolo “il più grande fra i nati da donna”, ma sottolineando anche come il più piccolo nel regno dei cieli sia più grande di lui…

Come a dire che con Giovanni si chiude – seppur in maniera degnissima – un certo modo di interpretare Dio e quindi l’uomo e con Gesù irrompe nella storia qualcosa di qualitativamente diverso: con Giovanni finisce un’epoca, che in lui ha avuto il suo apice, ma che si esaurisce in Gesù, il quale inaugura una possibilità totalmente nuova di stare al mondo, che rivela un volto di Dio inaudito, che mostra una via per l’uomo mai percorsa…

Con Giovanni si chiude l’Antico Testamento (l’antica alleanza, l’antico volto di Dio, l’antico volto dell’uomo) e con Gesù si apre il Nuovo (la nuova e definitiva alleanza, il nuovo e definitivo volto di Dio, l’uomo nuovo…).

Ecco perché Giovanni è definito “quell’Elia che deve venire” (gli ebrei infatti credevano che prima dell’avvento del messia, ci sarebbe stato il ritorno di Elia, del quale la Bibbia non racconta la morte, ma il rapimento su un carro di fuoco, 2 Re 2): Giovanni è l’Elia che deve venire, è l’ultimo atto prima che si inauguri la nuova storia del popolo di Dio, è il precursore… è il massimo che il modello precedente poteva offrire, ma minuscolo di fronte al Regno di Dio che con Gesù arriva: «Giovanni è la nostra verità umana più umile, perciò più vera e più autentica. Tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di lui: è la soglia, dunque! Più in là non siam capaci di andare. È presentato da Gesù stesso come il culmine del Primo Testamento, il grande profeta severo e ardentemente impaziente di preparaci per l’arrivo del Signore. Ma, almeno come anelito, Giovanni segna l’avventura intima di ogni uomo» [Giuliano]. Quella per cui il rapporto con Dio è basato sulla paura: l’uomo che teme la morte e sa che Dio lo può salvare, fa di tutto per ingraziarselo (osserva le sue leggi, gli fa dei sacrifici, teme il suo castigo, spera nel suo premio) e guarda a chi gli sta intorno come un mezzo per raggiungere lo scopo (i poveri come mezzi per la nostra santificazione) o come rivale (se il premio è per pochi, deve essere per me, non per te…).

La novità di Gesù sta invece nel fatto che egli pone come base per ogni ragionamento o scelta o modo di stare al mondo, la benevolenza immeritata ma sovrabbondante: l’uomo che teme la morte scopre che Dio è un Padre che gli vuole bene e che lo invita ad entrare in un circolo di benevolenza che passa di mano in mano e umanizza chi lo riceve (e chi lo dà). Per questo guarda agli altri come a fratelli fatti della stessa carne / pasta umana sua… e perciò si dedica alla loro custodia (fino a dare la vita), perché gli altri, chiunque altro, è dei suoi…

Questa seconda impostazione – quella di Gesù – è quella che coincide con il vangelo, con la buona notizia, e che è proposta a chiunque voglia essere discepolo di Gesù… è la buona notizia che con lui prende carne, nel Natale che aspettiamo.
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