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venerdì 15 maggio 2009

Non possiamo più dirci cristiani perché non siamo disposti a dare la nostra vita

Perché ci sia uno scatto nella natura e nella portata della nostra fede trinitaria e cristologica, è necessario mettere mano alle forbici e operare una netta semplificazione della nostra vita. Ma dove cercare questa sintesi semplificante? Dice l’apostolo Giovanni: colui che non è nell’amore non conosce Dio. Quindi, se vogliamo fare una revisione della nostra fede battesimale e cristiana, dobbiamo parlare del nostro amore: la sintesi semplificante e fortificante non la possiamo trovare altro che in una considerazione nuova del nostro amore e della nostra carità.

Seguendo l’invito di Dossetti, parliamo allora del nostro amore: è infatti questa, la via per quello scatto della nostra fede che in questi tempi duri sentiamo il bisogno di fare (per la declinazione specifica di questi tempi duri rimando al post di Mario “Perché non possiamo più dirci cristiani –1-”).
Le tenebre infatti (individuali, sociali, ecclesiali) si vincono solo sopportando la tensione degli opposti dentro di sé – come diceva Jung nel 1954 durante un dibattito al Club psicologico di Zurigo a proposito di una domanda sul pericolo di una guerra atomica: «Ritengo che dipenda da quanti sono in grado di sopportare la tensione degli opposti dentro di sé. Se quelli in grado di farlo sono in numero sufficiente, penso che la situazione non presenterà fratture e che saremo in grado di evitare innumerevoli pericoli» [in N. NERI, Un’estrema compassione, Mondadori, Milano 1999, 46]. Che è poi la stessa consapevolezza della Hillesum quando scriveva: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire»; o ancora: «Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».
Ebbene anche oggi il compito per gli uomini e le donne – a maggior ragione per i cristiani e le cristiane – è quello di custodire la qualità alta della propria caratura umana, all’interno di un mondo che invece sempre più propone la dis-umanizzazione.
Dossetti diceva: è questione di fede; e si chiedeva “Quale fede?”. Per rispondere non poteva che indicare la necessità di parlare dell’amore: è dalla qualità del nostro amore che dipende la qualità della nostra fede (essa infatti non è altro che una relazione) e dunque la qualità della nostra vita.
I testi che la liturgia ci propone per questa sesta domenica di Pasqua sembrano venire esattamente incontro al nostro bisogno di soffermarci su questa tematica. È per questo che ci concentreremo in particolare sul ragionamento portato avanti nel vangelo di Giovanni...
Innanzitutto il Signore, nel lungo discorso fatto durante l’ultima cena, chiarisce bene i termini della relazione di fede: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». Lo sbilanciamento è dunque suo: è lui che per primo ci ha amati. E questo – molto più che una bella frasetta o uno slogan che volta per volta i vari raduni cattolici ci propinano – ha una portata scaravoltante l’intero impianto su cui spesso è fondata la nostra religiosità: «Il livello assoluto è il solo livello assimilabile per l’uomo, egli è libero ovvero l’uomo è l’unico ente in grado d’arrischiarsi in maniera assoluta. Ma ciò accade poiché (comunque per primo) Dio si esprime in maniera assoluta, la sola misura favorevole per l’uomo. Donandosi fino all’abbandono Dio è chi consegna chiara dis-misura al reale, qualsiasi atteggiamento l’uomo ponga in campo non giunge dunque a misurarlo. […] Rispetto al libero dono divino, l’uomo ne diviene l’erede, egli non può restituirlo, lo traffica, non ne fa alcuna economia, lo dona a sua volta» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, Cittadella Editrice, Assisi 2008, 69-70].
In questa relazione originata primariamente da Dio, il Signore invita però a rimanere: «Rimanete nel mio amore». E immediatamente dice come: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore». L’estrema logicità del procedimento (la fede-relazione è un dono, in esso bisogna rimanere, per rimanerci bisogna osservare i comandamenti) rischia però di far perdere la qualità vera di quanto Gesù – nelle parole dell’evangelista Giovanni – sta proponendo ai suoi: il pericolo – purtroppo effettivamente percorso dalla pratica ecclesiale – è infatti quello di perdere il contesto autentico di questo ragionamento e di farlo transitare – a mo’ di “copia e incolla” – in un altro ordine di problemi.
La riduzione a cui è andata incontro la proposta di Gesù è infatti quella di essere stata considerata come un comodo libretto di istruzioni per andare in paradiso: le indicazioni di Gesù sono infatti state sottratte dal loro contesto d’origine, dalla portata con cui e per cui lui le diceva, e sono state adottate come risposta a problemi diversi, a problemi altri dai suoi, a problemi originatisi molto più tardi nella storia della chiesa. La nuova e ristretta prospettiva era infatti quella dell’ansia di salvarsi l’anima, non quella della relazione attuale e vivificante col Signore; una necessità di salvarsi l’anima data dall’eccessiva accentuazione della malvagità dell’uomo: rimanere nell’amore di Dio, voleva infatti dire tentare con le opere buone di ingraziarsi quel Dio giustamente adirato con noi per la nostra pochezza, scordando il primato incondizionato del suo amore per noi e la qualità alta dei gesti dell’amore, che non possono mai essere ridotti a strumenti per salvare sé, se no non sono più gesti d’amore… Questi ultimi infatti hanno la peculiarità di essere per gli altri: tra l’altro non nel senso estrinseco di fare qualcosa per qualcuno, ma nel senso pregnante dell’essere implicati in quello che si fa, dunque di un mettere in gioco sé in quello che si fa, impegnandosi dunque in una relazione, in uno sbilanciamento, in un’implicazione, in un legame, in un essere per l’altro più che in un dare qualcosa all’altro… E ovviamente – come noto – i comandamenti da osservare per rimanere in quell’amore funzionale a salvarsi l’anima erano tutto un elenco di precetti morali, cultuali, folkloristici, perfino superstiziosi…
Ma che i “comandamenti da osservare” non fossero quelli è abbastanza evidente dai versetti successivi:
- Innanzitutto il riferimento alla pienezza della gioia («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»), pressoché sconosciuta ai cattolici pre-conciliari e di cui invece Dossetti scriveva: «Il Cristo risorto ci appare talvolta da un punto di vista umano, per una piega non ben chiarita del nostro animo, del nostro intelletto, come un essere evanescente che non ha più i sentimenti. […] Il Signore risorto – invece –, sì, è glorioso, è potente, è libero, è sovrano, è dominatore del mondo, delle anime e della storia, è il giudice che viene, ma è soprattutto un essere infinitamente felice. […] E questa gioia ce la vuole comunicare, questa gioia paradisiaca che sta nella compenetrazione piena, nella corrispondenza totale dell’amore del Padre e del Figlio e che si esprime finalmente in un amore completamente efficace per i suoi. […] Il Cristo, che è alla destra del Padre e che è completamente nella visione beatifica, del Padre, vuole, per amore, che noi raggiungiamo la pienezza di questa gioia: questo è il Risorto! » [G. DOSSETTI, Omelie del tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 242-243].
- In secondo luogo la precisazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Il discrimine cioè non è posto sull’adempimento di qualche norma o sull’assolvimento di qualche dovere, ma molto più radicalmente su un orizzonte di senso che investe la vita, il modo di stare al mondo, il modo di guardare a sé, agli altri, alle scelte…
È su questo che va valutata la qualità del nostro amore, e dunque della nostra fede, e dunque della nostra capacità di sopportare in noi la tensione degli opposti, e dunque di offrirci come campo di battaglia in cui i problemi possano trovare ospitalità, combattere e placarsi… È su questo che va valutata la nostra capacità di non sfuggire, di portare, sopportare e risolvere il dolore, mantenendo intatto un pezzetto della nostra anima.
È dalla nostra qualità amante che dipende la caratura umana della nostra identità (non a caso è sull’amore che verremo giudicati…). E l’indicazione di Gesù è chiara… La qualità amante è cristica, è nella sua prospettiva quando sa dare la vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici».
Un cristiano dovrebbe cioè alzarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di disporsi in modo tale da essere uno che ama le persone che in quella giornata gli sarà dato di incontrare… che si tratti del marito, dei figli, dei fratelli, del panettiere, del capufficio, ecc… Tutto il resto è coreografia… Non a caso il brano di vangelo perentoriamente si conclude così: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Saremo allora persone con una qualità umana significativa se guarderemo a tutto quanto ci accade intorno con uno sguardo amante – che sa dare la vita.

È per questo che – rischiando di non essere politically correct e di far dispiacere qualcuno – non possiamo non cogliere questa occasione e questa sede per esplicitare il nostro dissenso sui recenti provvedimenti previsti dal “pacchetto sicurezza” del governo italiano, che essendosi nascosto diverse volte – quando gli faceva comodo – dietro la bandiera cattolica, dimostra, ancora una volta – se ce n’era bisogno – di tener conto, nelle sue scelte, di tutto, tranne che del vangelo… dimenticando forse che il cattolicesimo o è evangelico o non è…



P.S.: Vorrei allegarvi l'ultima vignetta che ieri sera Vauro ha mostrato alla trasmissione Annozero, perchè al di là della fede politica, contingentemente mi sembra davvero pregnante... Qui sotto si mostrano gli ultimi 5 min della trasmissione, quelli dedicati, appunto, alle vignette,.. a mio parere, merita: fa ridere, ma anche riflettere!

Itagliani di ieri e... oggi?


Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti . Le nostre donne li evitano non solo perchè poco attraenti e selvatici ma perchè si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali".
[...]
Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.

Il testo è tratto da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.

mercoledì 13 maggio 2009

Perché non possiamo più dirci cristiani -1-

Non abbiamo controllato loro neanche i documenti...Nel sondaggio on-line del Corriere, la maggioranza dei “lettori” non si dichiara d’accordo con le “preoccupazioni” della “chiesa” “per il trattamento dei rifugiati”… Altrettanto dicasi per quello della Stampa
Preoccupazioni” non si sa quanto “ufficiali” (aspettiamo una smentita della sala stampa vaticana appena il suo direttore sarà tornato, credo, dal viaggio in Medio Oriente…) e comunque fin troppo morbide davanti alla drammaticità dei fatti: confrontate questa nota dell’Avvenire1 con i toni usati a suo tempo sul caso Eluana o sui temi della vita (che evidentemente non riguardano con la stessa urgenza e gravità quella degli stranieri) o su questioni più amene come l’otto per mille o il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche… e sappiatemi dire! Siamo al limite della banalità o si sfiora l'apologia di reato...

Non è certo un sondaggio “scientifico” quello on-line, ma significativo certamente lo è!

Allora?
C’è chi se la prende con Maroni… come se Maroni fosse stato eletto dai marziani…
C’è chi ne prende le distanze ma sostanzialmente ne avvalla la legittimità (il “nuovo” Fini e persino il “vecchio” Fassino che ci rivela che anche i governi di sinistra l’hanno attuata — il Pd come al solito è comunque diviso tra opportunismo e idealismo, incapace com’è di dare risposte concrete)…
C’è chi se ne “vergogna”, come se questo bastasse a lavargli la coscienza ed ad assolverlo storicamente per aver obbedito a un ordine che sapeva infame…
C’è chi ne contesta la “legittimità”, come se bastasse la “legge” per avere il diritto di calpestare la vita altrui…
C’è chi ne è inorridito…
C’è chi tace… anche se non acconsente (spero)… come da tempo fanno i nostri Pastori locali… forse distratti dal viaggio pacificatore del Pastore universale, che impegnato altrove, tace anche lui… (quando si dice “il tempismo della politica”: ricordate Putin quando invase la Georgia il giorno dell’inaugurazioni dei giochi olimpici di Pechino?).

Il mio modesto parere è che il problema non è Maroni, il problema non sono le leggi: per quanto disumane (considerate tali oggi, ma non da tutti allora) quelle razziali erano perfettamente “legali” e chi agiva, agiva nel pieno rispetto delle leggi del suo Stato… e chi disobbediva: “zac!”, un taglio e via…

Il problema è che quando tra qualche anno ci chiederanno in una nuova Norimberga cosa abbiamo fatto, non potremmo dire che non sapevamo… Non potremmo dirlo ai nostri figli, né ai figli di quelli che oggi chiamiamo clandestini e che domani saranno cittadini italiani come noi (nessuno potrà impedire all’Italia di domani di essere multietnica — visto anche che lo è già — nemmeno Dio, tanto meno un Presidente del Consiglio: o si vogliono impedire e “disfare” i matrimoni misti come a suo tempo si faceva in Sudafrica?)… e non basterà batterci il petto vergognandoci…

I cittadini italiani, il Paese, nella sua stragrande maggioranza è col governo (si disilluda l’Avvenire e i vescovi italiani ringrazino la propria sterile testimonianza) “che vedono finalmente forte e deciso” (ricordate il “quando c’era lui, caro lei”?) impegnato in un’azione “molto efficace” (come l’atomica su Hiroshima, i forni crematori, le torture di Guantanamo, e via dicendo?)… poco importa se cinica e sulla pelle di gente che ha la sola colpa di essere disperata di una disperazione che in gran parte gli abbiamo procurato noi imponendo loro governi e regimi e guerre al servizio della nostra opulenta sicurezza… Anche di questo dovremo prima o poi rispondere…

Il Papa che quando vuole ha coraggio da vendere, ha detto l’altro giorno, ciò che da tempo noi andiamo dicendo anche su questo blog, e cioè che anche la religione può pervertirsi2… lui, visto dove lo diceva e a chi lo diceva, ha fatto l’esempio della violenza… ma potrebbe farne molti altri se lo dicesse anche in Italia o in Europa…

Ecco! Il cristianesimo occidentale… si è dimostrato da tempo perverso e pervertitore e continua la sua parabola paganeggiante nel cuore dei credenti fedeli praticanti, che nella loro stragrande maggioranza, pur di difendere i “valori assoluti e irrinunciabili” di una fede astratta e ideologizzata, non esita a votare uomini e partiti che sono degni eredi dei loro predecessori di nefasta memoria… E di questo dobbiamo ringraziare anche i sacerdoti predicatori di una cultura che non si lascia incontrare dal Vangelo, figurarsi da quella africana…

Il problema dell’Italia oggi, per tornare in tema, non sono gli “efficaci” Maroni, Bossi, Berlusconi e compagnia, o gli “inefficaci” Grillo, Franceschini, Di Pietro, o le insignificanze di destra come di sinistra… e nemmeno i “supini” media alla Sergio Romano… o i banchieri con la coscienza così pulita da potersi permettere di macchiarsela continuamente… E nemmeno i mediatori melliflui e diplomatici di ogni sponda e clero… Il problema siamo tutti noi, italiani che ci illudiamo di essere “brava gente” perché non abbiamo il coraggio di guardarci allo specchio delle nostre ipocrisie…
Ipocriti come quei pensionati che al bar sbarcano il lunario sparando nostalgie sul passato perché morti al presente e giocano a bocce ingannando il futuro…
Ipocriti sono quelle pensionate, così tanto simpatiche e inoffensive da potersi permettere di passeggiare di telenovela in telenovela o appestare col loro pettegolo volontariato cattolico, un’ipocrita tradizione religiosa che da tempo ha svuotato di significato la fede…
Ipocriti sono quei giovani di ogni età, drogati del niente di tutto, che pur di illudersi di essere vivi sono disposti a farsi tifosi della morte…
Ipocriti sono quei professionisti, che pur di non perdere quello che hanno onestamente rubato, sono disposti a pagare altri professionisti che disonestamente donano ai poveri quel che ai poveri già apparteneva (cfr gli aiuti internazionali dell’Occidente e vedi quanto ci guadagniamo noi nell’aiutare i “poveri” del Terzo Mondo)…
Ipocriti erano e sono quei politici progressisti che pur di sfruttare politicamente i nostri sensi di colpa hanno lasciato marcire i problemi e hanno permesso che il disagio diventasse intolleranza e l’intolleranza razzismo e il razzismo cinismo… permettendo così ai politici d’altri lidi di sfruttare poi il filone delle nostre impotenti paure… Ah! quelli di sinistra che quando hanno potuto, hanno fatto di nascosto anche di peggio di quelli di destra… Come il sale che ha perduto di sapore… Quando in Africa i miei amici mi chiedevano per chi avrei votato se avessi potuto farlo per il Presidente americano, rispondevo senza esitare scandalizzandoli: “Per il presidente conservatore: almeno le ‘schifezze’ che combinano, si vedono!”… Fassino insegna, che non avevo torto nemmeno per l’Italia! Che dire? “Dagli amici di sinistra mi guardi Iddio, che dai nemici di destra basto io”!

Ipocrita come questa chiesa italiana, (e per chiesa intendo tutti i battezzati) sostanzialmente latitante, quando non addirittura connivente: mi sanno spiegare i vari membri dei vari movimenti cattolici che cosa ci fa un Formigoni nel Pdl e una Bindi nel Pd se non riescono a impedire crimini contro il senso umano della pietas come quello di consegnare a della gente (se la testimonianza è autentica ma non ci sono ragioni per dubitarne) che stupra e tortura povera gente già disperata, per il solo fatto che è nera o non mussulmana? Neanche un bicchiere d’acqua gli abbiamo dato, nemmeno un’aspirina (e sì che qualcuno l'ha posto come condizione per essere cristiani: Quello che avete fatto a loro, l’avete fatto a me… quello che non l’avete fatto a loro, non l’avete fatto a me! Ed ora andatevi a meditare la Via Crucis al Colosseo, o fattevi il giro nei vari santuari a Lourdes o a San Giovanni Rotondo, per consumare fino in fondo la vostra ipocrisia)…
Fosse anche nel pieno rispetto delle leggi internazionali, basta così poco a tacitare la coscienza? E passi dei politici, ma delle madri, dei padri e dei figli italiani?
E il Vangelo a che cosa ci serve allora? Che ci andiamo a fare a Messa la domenica? Per ricevere il perdono di chi? Non ci sarà nessun perdono fino a quando non lo riceveremo da coloro che abbiamo consegnato alla disperazione! Andate in Libia a riceverlo!

Anni fa avevo visto un film nel quale un capo mafioso era andato a confessarsi dopo aver saputo che era stato eseguito l’ordine da lui impartito di ammazzare un avversario. Si confessò, se ricordo bene, di aver perso la pazienza con la moglie e coi figli e di dire qualche bugia (evidentemente compresa quella che stava facendo omettendo di dire tutta la verità!)… il prete ignaro gli diede l’assoluzione e lui se ne andò felice illuso di essersi “salvato l’anima”… Mi chiedo se gli italiani sono tutti fessi a questo punto!... Ah! già… il Papa parlava di perversione della religione

Il “respingimento” è una perversione, oltre che dell’italiano, anche della ragione che non rifiuta mai un minimo di solidarietà umana anche tra poveri e disperati, ancor più da noi che non siamo ancora poveri e disperati come loro… E se lo è della ragione lo è necessariamente della religione e viceversa… E se c’è una legge che lo permette, questa legge è una bestemmia disumana, e chiunque l’abbia approvata, poco importa se democraticamente, ne è responsabile, davanti a Dio e agli uomini e alla storia, e se c’è qualcuno che la condivide ne è altrettanto responsabile se non peggio perché è come il “mandante di un crimine”… Se ne deduce che i cristiani hanno l’obbligo, anche a costo di rimetterci il posto di lavoro o di finire in galera o anche di rimetterci la vita, non solo di disobbedire a questi ordini e leggi disumane ma di fare di tutto affinché siano abolite e che mai più la ragion di stato prevalga sulla ragione umana…

Ha ragione Maroni, siamo davanti a una “svolta storica”, ma di ben altro tipo e sarebbe da stolti non prenderne atto e agire di conseguenza: l’Italia non può più dirsi cristiana e ancor meno gli italiani che appoggiano una politica che genera conflitti, li alimenta e non scioglie i nodi generatrici di violenza, ma si fa lei stessa promotrice di ben più subdola violenza… il post-cristianesimo, non tanto con l’azione del governo, ma per il fatto che essa sia “largamente condivisa dai cittadini italiani” si è così consumato…
Non siamo più davanti ad aborto o divorzio o eutanasia, dove i limiti della ragione esigono necessariamente il sostegno della fede: qui siamo di fronte a una immensa barbarie legalizzata e autogiustificata che getta nella disperazione centinaia di persone — ma non li abbiamo nemmeno contati: del primo battello le fonti italiane parlavano di 223 ma pare che fossero 238 — e che non intende cessare: tanto valeva allora ributtarli in mare, avrebbero sofferto di meno!… Pare che siano già 500 e c’è chi se ne vanta… Dobbiamo aspettare che arrivino a 6 milioni per cominciare a capire?… Dove sono finiti gli eminenti curiali che rombavano durante il caso Eluana? Non c’era vescovo che non dicesse la sua… allora!
Repubblica ha pubblicato un intervento di Tettamanzi… salvo poi scoprire che era un copia-incolla di un suo libro di prossima pubblicazione…
E quella volpe di Ruini? Si è distratto nel preparare qualche conferenza ai dirigenti del Pdl?
E la Segreteria di Stato Vaticana? Il suo silenzio è assordante oltre che scandaloso…

Perché, quali loschi interessi si nascondono dietro tanta omertà? Giuda ha venduto un’informazione per trenta monete d’argento, voi per quanto avete venduto il vostro silenzio? La mia non è una domanda retorica: lo voglio sapere veramente! Se non altro per conoscere quanto valiamo ai vostri occhi…

O temete anche voi una “ritorsione” del governo italiano che costerebbe chissà cosa… Al punto in cui siamo non c’è più niente da perdere… nemmeno la fede, perché i dati stanno ad indicarci che è persa da tempo… Mentre voi eravate intenti a organizzare e benedire le alleanze politiche di questi “cattolici”…

Vorrei anche sapere con che coraggio parlerete ora di “Missione ad gentes”: con un solo “Raus!” di questo governo, si sono bruciati secoli di evangelizzazione missionaria… Ve lo immaginate ora con che faccia migliaia di missionari, italiani e non, sparsi per il mondo ad annunciare la carità cristiana, possano continuare a farlo senza vergognarsene? Ora che l’Italia, paese che nel sentire collettivo universale è sede della cattolicità, si è rivelata così empia perché senza pietas! E non basta la Ripugnanza e rammarico per ciò che fece il fascismo agli ebrei, se non si prova altrettanto ripugnanza e rammarico per quello che stiamo facendo oggi ai “nuovi ebrei”: anche se non tutti lo sono veramente, in ogni “errante” vi è presente esistenzialmente...

Concludo con una domanda che rivolgo direttamente al Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi: “Sempre che sia vero quello che dicono i giornali, che notoriamente sappiamo sono faziosi e menzogneri quando dicono la verità su di lei – Signor Presidente, come si fa ad ‘accogliere solo quelli che hanno le condizioni per ottenere l’asilo politico’, respingendoli senza neanche verificarle?”. Se vuole rispondere, in questo blog c’è posto anche per Lei… peccato che non ci sia data la possibilità di fare altrettanto con almeno uno di quei criminali, trattati come non si usa fare più nemmeno con gli animali.

Ah! dimenticavo la foto… È presa dal sito della Stampa, appartiene a uno dei tanti “criminali” che il suo governo, benedetto a suo tempo dal clero italiano, ha respinto con il consenso della maggioranza dei cattolicissimi italiani…


NOTE
1L’affollarsi in poche ore di provvedimenti legislativi, azioni esecutive e improvvide parole in libertà in materia di immigrazione rischia di confondere i cittadini e di creare un clima d’intolleranza che non corrisponde al profondo sentire della maggioranza degli italiani [invece corrisponde eccome!]. Le numerose [numerose?... e dove sono i movimenti pro-life?] prese di posizioni del mondo cattolico – e di altri gruppi di ispirazione laica – segnalano che, nella pur condivisibile opera di limitazione degli arrivi irregolari, non si può mai abdicare al rispetto delle persone e alla loro dignità, che con sé porta diritti inalienabili. Negare la possibilità d’asilo a chi è respinto in mare resta un punto che merita sicuramente riconsiderazione, sebbene la soluzione non sia semplice. Sembra imporsi anche un monitoraggio del trattamento riservato ai migranti dalla Libia, mentre un miglioramento del «decreto sicurezza» risulta ancora praticabile. Ciò che va infine del tutto evitato sono le ‘provocazioni’ [L’Avvenire le chiama provocazioni e sbaglia: questi politici non “fanno finta”… in quello che dicono ci credono veramente… e lo fanno veramente!] – mezzi pubblici separati per italiani e stranieri – che hanno il chiaro sapore del razzismo. Av (il corsivo è mio)

2 «Costretta a servire l'ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l'abuso. Qui non vediamo solo la perversione della religione, ma anche la corruzione della libertà umana, il restringersi e l'obnubilarsi della mente. [...] non si dà anche il caso che spesso sia la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società». da Il Tempo.it vedi anche il discorso integrale nel sito del Vaticano.

venerdì 8 maggio 2009

Diventare suoi discepoli: il frutto della risurrezione


Sull’immagine biblica della Vigna converge il fascino dell’antica appassionata promessa di Dio di accudire l’uomo e insieme lo scoramento del cuore dell’uomo nel rifiuto di Dio o comunque nell’incapacità a intendersi con lui e dare frutti adeguati al suo amore! Piantare una vigna è una sfida di amore alla vita, al futuro, perché esige cura e passione, fa parte della casa e del pasto, si eredita come bene prezioso di famiglia, è luogo di lavoro e di incontro, di fatica e di gioia… per la vendemmia, il mosto, il vino! Ma la vigna è anche il luogo della delusione suprema di Dio e dell’uomo, il luogo del conflitto insanabile che porta all’uccisione del figlio del Signore della vigna, dopo lo sterminio dei suoi profeti (Mc12,1 e paralleli)! Dopo millenni, ancora, al nostro sguardo e alla nostra esperienza, rimane drammatico e insolubile il male nel mondo, ed ha ancora uno strascico tragico nella nostra storia l’antica disperazione di Dio, secondo il profeta: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?... Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi (Is 5,4ss). La vigna è uno delle grandi similitudini che Gesù ha scelto per dirci con linguaggio umano, nel contesto vitale della nostra cultura mediterranea, chi è lui per noi: “IO SONO” il pane, la luce, la porta, il pastore, la via, la verità … e la vita! Oggi ci dice: io sono la “vite” vera! come ci ha detto: io sono il pane vero ,la vita vera, il vero pastore… Per annunciare che in Lui finisce la storia dell’ infedeltà dell’uomo al suo stesso Padre, che l’ha piantato nel mondo. L’Agricoltore vede finalmente una vite fedele e feconda nel Figlio, nel quale tutti noi diventiamo, come discepoli, i suoi rami, la sua vigna – il popolo nuovo, redento e fedele per sempre
io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore!
Proprio per la sua densità di significato nel linguaggio biblico, la similitudine della vigna nel Vangelo di Giovanni contiene questa eccezionale garanzia: che da qualche parte, nel misterioso progetto di benevolenza di Dio, noi siamo radicati, vitalmente desiderati e legati da amore indissolubile, come nelle profondità della terra la vite è abbarbicata alle sue radici, che la nutrono e la fanno vivere. Non siamo orfani, isolati e abbandonati alla nostra sorte da un creatore inafferrabile e invisibile. Non siamo destinati a esaurirci nel nulla da cui siamo provenuti. Ma ancor più! L’annuncio (il Vangelo) che si fonda su questa garanzia di un legame vitale, va ben oltre. Tutta la vita di Gesù e la sua predicazione è mirata a coinvolgere l’uomo in questo progetto del Padre, realizzato finalmente nel Figlio, mandato nel mondo per salvarci. La fede dei discepoli consiste nel prendere atto di questa sorgente vitale da cui proveniamo e “rimanere” saldamente connessi ad essa. Gesù ci implora che rimaniamo in lui (8 volte in positivo e in negativo), perché solo così la sua opera di salvezza si comunica ai discepoli, i tralci di ieri e di oggi. Solo uniti al figlio siamo anche noi intimi a Dio. Rimanete in me… allora io rimango in voi … perché senza di me non potete far nulla! L’esigenza è così vitale e discriminante che sembra una minaccia, ma si tratta di conseguenza non punitiva ma naturale, vitale, come è appunto del tralcio se si stacca dalla vite: non è la vite che lo punisce, ma presto gli mancherà la linfa e si seccherà. Tutto è contenuto in un’unità di progetto, di amore vitale, di dedizione: un attaccamento esistenziale reciproco tra noi e Dio, in Cristo, che ne fa il mistero centrale del mondo e della sua storia, la convergenza in lui di tutto ciò che esiste.
se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…
Rimanere in lui non è un riferimento sentimentale, un simbolico legame di riconoscenza, ma una spinta propulsiva intima che sconvolge il cuore e la mente con un preciso nuovo progetto di vita, che è forza e modello insieme: lui e le sue Parole, lui e i suoi comandamenti, lui e il suo legame vitale al Padre. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui! Una comunione di assimilazione vitale interiorizzata dall’uomo, non una precettistica morale dall’esterno. Il discepolo si trova coinvolto attraverso questa comunione dinamica vitale, in un tessuto di relazioni vive, dove i personaggi della similitudine giocano ognuno il proprio ruolo, assumono un volto preciso nell’intreccio di amore, conoscenza e liberazione dell’uomo, che è il Regno di Dio, che cresce nella storia. Il Padre, è l’Agricoltore. Gesù, è la vite nuova nella vigna ostile del mondo. Noi, siamo i tralci chiamati a “divenire” suoi discepoli, proprio perché coinvolti e immersi nella dinamica di Cristo crocifisso e risorto, che si ripete e si comunica a noi. Lo Spirito, è il sigillo di garanzia di questa nuovo contesto di relazioni vitali, di cui dice la lettera di Giovanni: in questo riconosciamo che lui rimane in noi: dallo Spirito che ci è dato! La descrizione della presenza misteriosa di questo vitale intreccio trinitario nella nostra umile storia è descritta da Gesù con parole forti e insistenti, che possono apparire similitudini oscure, ma a chi si arrischia in quest’avventura fanno ben capire cosa gli sta avvenendo:
rimanere … in lui, anzitutto, nella sua parola, nel suo legame, che attraverso di lui ci collega al Padre. Rimanere nelle conseguenze talora dolorose della sequela del suo Vangelo. Ma rimanere anche nella scoperta progressiva e liberante che davvero quanto succede (e ci succede!) per quanto possa sembrare così avverso ed ostico, va ricompreso, pregato e vissuto come sua vera quanto imprevista risposta a ciò che chiediamo: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. Non tanto perché esaudisca i nostri desideri, che la sua Parola ci rivela piccoli e di corto respiro, ma perché li dilata secondo le sue promesse, rimettendoci in cammino verso i suoi orizzonti e dilatandoci il cuore secondo le sue misure. E così finiremo per chiedere quello che vuole lui… ed essere quindi sempre esauditi noi che, man mano che cresciamo, sappiamo sempre meno cosa domandare, e ci affidiamo all’anelito del suo Spirito, che geme in noi l’attesa del Padre nostro!
potare – Gesù stesso è stato potato così drasticamente da morirne… e solo così è stato abilitato nostra guida e salvatore. La potatura fa piangere la vite… gli taglia ogni illusione di estendersi dove la linfa naturale la spingerebbe: delusioni, lutti, malattie, ma soprattutto contrasti e conflitti e … incomprensioni, proprio con coloro che camminano con noi, nella stessa fede. Per S. Paolo il tormento dell’incomprensione delle esigenze superiori della fede da parte di chi faceva chiesa con lui, è stata la scarnificazione incessante di una vita. Il più delle volte ci ribelliamo, cerchiamo di proiettare ogni colpa nei vari soggetti coinvolti e perdiamo l’occasione di vedere la mano del Padre che taglia, pota, lega e slega, per non lasciarci nascondere ed illudere dietro il nostro fogliame infruttuoso. Una mano, la sua, talora indiscreta, se taglia non solo il tralcio che non porta frutto, ma anche ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto! Anche le opere buone può essere bene che siano tagliate!
produrre i frutti : c’è infine una realtà, sottesa tacitamente a tutta la similitudine evangelica della vite ed essenziale nella realizzazione vitale del cammino del discepolo: la linfa! Cioè lo Spirito, con il quale il Padre e il Figlio si amano, che ci tiene in vita nel legame alla Vite e al Vignaiolo, lo Spirito che piange con noi nelle nostre potature, il vero produttore dei “nostri” frutti … Solo lui può verificare in noi (come ha fatto in Gesù!) che… non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. Così si avvicina la meta di ogni cammino: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. La trasformazione che il rimanere in Gesù e l’accogliere le potature della storia, induce nel credente, lo fa “diventare” sempre più discepolo di Gesù. Vuol dire che sempre più si identifica (come il figlio) nella volontà del Padre, sempre più aumenta la sua disponibilità riconoscente ad accogliere nella vita i “diversi” progetti di Dio, che portano la salvezza al mondo… La preghiera diventa l’implorazione che attende e che fa … il Nome – il Regno – la Volontà del Padre. Questo vuol dire glorificare il Padre suo e nostro!
… la chiesa era in pace… si consolidava e camminava!
In tempi difficili e conflittuali, per la comunione ecclesiale (anche i nostri!) ci suona provocatoria e consolante insieme questa annotazione di Luca. La Chiesa si cui parla era appena uscita dalla persecuzione di Paolo stesso, e stava entrando nel conflitto interno drammatico dell’accesso dei pagani alla fede e nella persecuzione esterna di Erode, con l’assassinio di Giacomo e la dispersione dei discepoli… Ma di che pace si tratta? La chiesa vive entro una dialettica generata dai due fuochi che la tengono viva nella storia: il legame vitale al Cristo nel suo corpo che è la chiesa, attraverso la quale ci e donato Battesimo, Parola ed Eucaristia e la sollecitudine appassionata per chi è fuori della chiesa, la missione inarrestabile verso chi è lontano e diverso e rifiutato, e, proprio per questo, intimo a Gesù, che sulla croce coinvolge nell’amore del Padre persino i suoi uccisori! Infatti non saremo in pace finché non riusciremo a fare dell’umanità una sola famiglia, con tutte le creature, liberate dalla corruzione e dalla morte. Allora c’è una pace profetica, già disponibile prima della pace finale, mentre siamo ancora immersi nella complessità conflittuale e talora oppressiva della storia: purché sia sempre orientata all’universalità dell’amore. Non è la pace auto centrata e aggressiva di una setta. È una pace che per adesso è unilaterale ed eccentrica, perché non ha il baricentro in sé, ma lancia instancabilmente il ponte della benevolenza lontano da sé, presso l’altro che è ostile, dove il Padre ci aspetta. Per questo anche se i sentimenti sono feriti, le risposte deludenti, amare o aggressive… e spesso il nostro cuore ci rimprovera, perché ci sentiamo incapaci a reggere, sappiamo che Dio è più grande del nostro cuore. E tiene fede alle sue promesse!

Il segreto della Vita con la "V" maiuscola è "Rimanere in Lui"

Le letture che la Chiesa ci offre in questa quinta domenica di Pasqua, sono davvero ricchissime e bellissime. Siamo ancora all’interno della riflessione sulla risurrezione, che prosegue anche se in modalità nuove. La questione sembra infatti quella della domanda di vita del discepolo: quasi che Gesù in questo stralcio (Gv 15,1-8) del lungo discorso fatto durante l’ultima cena (Gv 13,1-17,26), voglia rispondere all’anelito più vero dell’uomo: Vivere!
E la risposta sembra essere molto perentoria: il segreto per la Vita è rimanere in Lui, proprio al modo in cui il tralcio rimane nella vite. Come infatti un tralcio non può vivere, non può ricevere linfa vitale, senza il restare ben ancorato alla sua pianta, pena il seccare, il non dare frutto e dunque l’essere tagliato e gettato nel fuoco, così l’uomo non può Vivere se non rimane in Lui, dove questo Vivere con la “V” maiuscola indica non solo e non immediatamente la vita eterna (anche! Siamo infatti sempre in una domenica di Pasqua), quanto piuttosto una diversa qualità di vita, che vale sia per l’aldiqua che per l’aldilà: una vita cristicamente piena, degna, riuscita, amata…
Il problema diventa allora cosa voglia dire questo “rimanere in Lui”: il rischio di queste pregnanti espressioni evangeliche è infatti sempre quello di risultarci vuoto, lontano, di fatto insignificante per la nostra vita quotidiana… E se anche immediatamente ci suscitano qualche emozione, spesso non riusciamo ad andare molto più in là della reazione sentimentale, umorale, superficiale… e perciò stesso, passeggera… mai veramente incidente sulla nostra vita.
La questione è infatti che cosa significhi questo “rimanere in Lui” nella concretezza delle scelte, del decidere delle cose e di noi; nel vortice quotidiano delle mille cose da fare e a cui pensare; nella drammaticità delle nostre relazioni, dei nostri affetti, delle nostre idealità…
Purtroppo su questo intreccio tra la relazione col Signore e il resto della vita, su questo impregnamento degli interstizi storici con la sua Parola, è necessario ancora soffermarsi… Proveniamo infatti da decenni (anteriori al Concilio Vaticano II) segnati da una predicazione che spesso – forse inconsciamente – riproduceva uno schema dualistico della realtà: c’era la vita “profana” – da una parte – e “le cose che riguardano Dio” – dall’altra; e l’unico legame diventava il timore che “le cose di Dio” avessero un impatto negativo sull’altra vita, quella normale, quella di tutti i giorni, quella profana, che la gente avvertiva come “più sua”: l’altra è “roba dei preti”. Tant’è vero che ancora oggi nel leggere il brano del vangelo di Giovanni proposto dalla liturgia, immediatamente certe espressioni ci rimandano a quello stesso orizzonte di senso peccaminoso-infernale: il rimanere in Gesù infatti sembrava più dovuto alla paura di fare la fine del tralcio che si secca e non produce frutto (di colui cioè che vive una vita immorale) e dunque viene tagliato e bruciato (cioè va all’inferno).
In realtà, se si osserva da vicino il discorso di Gesù, si vede con chiarezza come non vada per niente in questa direzione; e non è necessario essere esegeti per accorgersene: se infatti – anche solo ad un puro sguardo grammaticale – si leggono queste frasi senza pre-comprensioni, si evince in modo inequivocabile la positività del messaggio del Signore, il suo tentativo di infondere adesione, speranza, incoraggiamento (altro che minaccia, paura, ritorsione…).
Ma perché fare questa digressione sul passato e non andare dritti alla risposta alla domanda: Cosa significa “rimanere in Lui”? Perché forse la nostra forma mentis (nostra sia in senso personale che ecclesiale) è ancora troppo pre-conciliare…
Da un lato infatti questo emerge – come detto – dal fatto che anche a noi viene subito in mente la lettura peccaminoso-infernale descritta sopra (“rimanere in Lui” vuol dire non far la fine del tralcio che si secca); dall’altro, perché, ad un’osservazione più approfondita, questa lettura immediata ci giunge alla mente perché la sua radice errata (il dualismo) non è ancora stata pienamente estirpata, nonostante il Concilio sia finito da quasi 45 anni…
Questa radice consiste sostanzialmente in una confusione: Gesù aveva detto «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me», aveva cioè focalizzato l’attenzione sulla nostra relazione personale con Lui e sull’impossibilità per l’uomo di un’auto-fondazione di se stesso; aveva cioè dato connotazione estremamente positiva al “rimanere in Lui”. “Rimanere in lui” infatti significava entrare in quella relazione che fonda una vita bella, una vita pensata come unitaria, come impregnata e sostenuta per intero da quella relazione!
Noi invece il discrimine lo abbiamo posto ad un altro livello, che è quello morale. A noi infatti viene immediatamente in mente che il tralcio che non porta frutti e che si secca è l’uomo dal comportamento etico riprovevole, è quello che fa i peccati, è quello che non rispetta i precetti (per dirla col linguaggio degli anziani) o è quello che è interessato ad altro o non è interessato a niente, che non viene mai alle proposte della parrocchia, che non si fa coinvolgere (per dirla con un linguaggio più recente). “Rimanere in Lui” perciò assume la connotazione negativa di cercare di scampare l’inferno, accettando qualche sacrificio (andare a messa, comportarsi bene, ecc…), sempre con il solito vecchio meccanismo per cui il male sarebbe migliore, ma ci asteniamo dal farlo per evitare conseguenze nefaste (terrene o eterne) e sempre con la solita prospettiva dualistica: Dio non c’entra con la mia vita, semplicemente la dovrà giudicare, per cui nel “mondo del sacro” adempio i precetti che lo rabboniscono e nel profano cerco di evitare di scatenare le sue ire…
Anche l’educazione cristiana va in questo senso: andare a messa, dire le preghiere, confessarsi almeno una volta ogni tanto, non avere comportamenti morali (in particolare sessuali) riprovevoli, ecc… Questo fa un buon cristiano… Ovviamente non sono cose sbagliate… Ma bisogna stare attenti: proposte in questo modo rischiano infatti di rimanere alla superficie della nostra identità. Lo si vede benissimo se si pone la questione al rovescio, cioè se ci si chiede se le cose elencate qui sopra bastino a fare di un uomo un “buon cristiano” (come diceva don Bosco). E io credo che la risposta inconscia di molti purtroppo sia “Sì”… mentre Gesù contro chi ragionava in questi termini ha scagliato parole di fuoco: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,6-8).
Perché il comandamento di Dio – come ci ricorda sempre Giovanni nella sua I lettera – non era un’adesione a un codice etico o a una precettistica cultuale – per salvarsi la vita –, bensì: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri».
Il discorso – è bene chiarirlo – non vuole andare nel senso di un discredito di una correttezza morale o di una legittima scrupolosità cultuale: piuttosto ciò che si vuole ribadire è la loro non decisività. Sono cose importanti, ma non sono il nocciolo incandescente della fede cristiana. Questo è il punto: “rimanere in Lui” è ben più che garantire un’irreprensibilità morale o rispettare le norme liturgiche della propria comunità religiosa.
“Rimanere in Lui” è l’entrare in relazione con Lui, il decider-si per Lui, il coltivare un intreccio di libertà che impregna ogni tempo della vita. Questo vuol dire credere «nel nome del Figlio suo Gesù Cristo»: riconoscere cioè l’impossibilità per l’uomo di fondare se stesso (e questa è un’evidenza della storia, prima ancora che un dato di fede: nessuno sceglie di nascere; tutti hanno bisogno di qualcuno per crescere e più radicalmente per vivere; nessuno può salvarsi la vita dalla morte) – «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, così neanche voi» – e dare credito all’affidabilità del fondarsi in Gesù – «senza di me non potete far nulla».
È questo ritenere credibile il fondare la vita su di Lui che apre ad un entrare in relazione con Lui: è perché in Lui – cioè nella storia di Gesù – intuiamo la promessa di Vita, che lo scegliamo come Signore della nostra vita. “Rimanere in Lui” è dunque godere della sua compagnia.
E se dietro a questo “Lui” siamo capaci di non immaginarci un Signor Nessuno, imprevedibile e pericoloso per i poteri che ha, ma di riconoscere il volto di Gesù che la sua storia lascia intravedere, il “rimanere in Lui” non può che essere liberante.
Ecco perché Giovanni si azzarda addirittura a dire che «se il nostro cuore non ci rimprovera nulla», allora vuol dire che «abbiamo fiducia in Dio»; che è una frase potentissima, che scardina dal di dentro tutta una morale fondata sui sensi di colpa o – come piace adesso dire a certuni – sul senso del peccato… Se qualcuno infatti venisse a dirci che il suo cuore non gli rimprovera nulla, noi certamente penseremmo che è un superficiale, o uno che ha abbassato o azzerato le soglie della consapevolezza di sé… se poi pensiamo che per qualcuno addirittura l’invocazione che il cristiano dovrebbe sempre avere in bocca è “Signore abbi pietà di me”, è facile immaginare che idea questi avrebbe di chi ritiene di non doversi rimproverare nulla… E chissà perché non ci verrebbe in mente invece di trovarci di fronte a qualcuno che ha avuto così tanto coraggio da dar credito davvero al Signore, da entrare fattivamente in un rapporto con Lui, in un “rimanere” che gli alimenta la Vita e lo libera dalla paura della morte e dunque del peccato…
Il fatto è che le logiche sono diverse: come prima diversi erano i piani del discorso. Gesù ha sempre parlato al livello profondo del senso delle cose, della verità dell’esistenza, della salvabilità dell’identità di ciascuno attraverso l’amore, della possibilità per tutti di essere sé di fronte a Lui, dunque di essere tenuti, voluti, amati, salvati… La nostra ricezione invece rischia sempre di scivolare a delle applicazioni pratiche (cosa devo fare? Andare a messa, andare a confessarmi, ecc…) che perdono il senso delle cose, la freschezza di una relazione, la straordinarietà del parlare a tu per tu con Dio, la gioia vera del vivere secondo il vangelo, di amare i fratelli…
Forse perché ultimamente sappiamo, come si vede dalla I lettura, che chi con coraggio ci prova a introdursi in questa relazione, poi – per amore – rischia sempre di fare una brutta fine: Paolo, da quando incontra il Signore, continua a essere oggetto di desideri omicidi e infatti scappa prima da Damasco con la cesta, poi da Gerusalemme per aiuto dei fratelli…
Ma la paura di perdere la vita non si placa con un goffo tentativo di pagare a Dio la nostra vita eterna… essa perde la sua ragione di esistere quando si entra in relazione autentica col Dio-Amore di cui ci si fida!

giovedì 7 maggio 2009

Compiutezza promessa


Oggi siamo in vena di ringraziamenti...
Ringraziamo anche l'autore (anonimo?) del blog "Incompiutezza" per averci messo non solo tra i "favoriti" ma tra i favoriti "pensanti"... Cortesia che ricambieremo al più presto... Intanto "incompiuto"... se ci sei, batti un colpo e dicci almeno il tuo nome. Ciao...

P.S.: altro sfondo in regalo...

498°? Dentro ogni previsione illusoria!


Questa poi chi l'avrebbe mai detto... stando agli autori del sito luckylab che cita la fonte di "Criteo" (che confesso non so cosa sia, nel senso che non lo voglio neanche sapere!), saremmo tra i primi 500 blog italiani(?) in quanto a visite... Mah! Sarà ma a me pare inverosimile... cosa che anche gli autori del blog citato sembrano sostenere... comunque sia, grazie della pubblicità, che come vedete ricambiamo!
P.S.: naturalmente, modestissimamente per la qualità dei "servizi" siamo i secondi (dopo il Vangelo intendo, eh! che diamine pensavate fossimo megalomani?).
P.P.S.: cosa c'entra la foto? niente! è solo un regalo per chi volesse usarlo da sfondo per il suo desktop...
Bye, bye...

venerdì 1 maggio 2009

Gesù risorto: questione di vita o di morte, per il mondo intero!?


Il pastore alternativo!
Il buon pastore di cui il vangelo racconta, è una guida illuminata e amorevole, tra i pochi saggi che, nel lungo succedersi dei secoli, hanno inutilmente predicato un po’ di umanità… o piuttosto, come lui stesso afferma di sé, è la pietra angolare della nuova creazione, scartata e gettata in discarica dalla coalizione dei poteri di oppressione e di morte, in un mondo ormai cresciuto e consolidato secondo una logica spietata di competizione e sopraffazione, che ha cercato di eliminare per sempre anche lui?
“La figura del pastore, come oggi si presenta nella Bibbia e nel mondo biblico, è una figura drammatica, che si pone in modo antagonistico rispetto a quello che, nella prospettiva naturale dopo il peccato, è il pastore di tutta l’umanità, a cui nessuna pecora può sottrarsi, cioè la morte! E quindi il suo pastorato assume una connotazione drammatica, perché si definisce fin dal principio come un pastorato che si deve opporre al pastorato della morte, che deve riuscire a far vincere il sovrano che domina l’umanità: se Cristo non fosse entrato nel regno della morte a strappare tutto il gregge dalle mani di questo terribile pastore, il gregge non avrebbe potuto essere libero…” (G. Dossetti, omelie del tempo di Pasqua, Paoline 2007, p. 186).
Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza! (10,10)
Questa è l’affermazione che apre la pagina del vangelo di oggi, per introdurre l’appassionata ripetuta proclamazione dell’urgenza del dono della “sua” vita per la vita delle sue pecore… Non solo per i suoi discepoli, ma per tutti gli uomini, per tutto il mondo. Deve donare la sua vita, perché le pecore sono in balia di pastori mercenari, il cui obiettivo è il danaro non il bene delle pecore. E questi obbediscono al “mercato”, quindi al primo pericolo di perderci, le lasciano smarrite e disperse in balia del lupo. Deve donare la “sua vita” perché la vita è il dono che ha ricevuto dal Padre per comunicarlo a loro e il Padre lo ama proprio in questo e per questo suo essere il tramite del suo amore paterno in loro! Deve donare la vita alle pecore di ogni specie e di ogni tempo cioè, far convergere le diverse appartenenze disperse, perché la sua voce (la sua Parola) sarà riconosciuta come voce e parola del Padre, e proprio il “riconoscimento” di questa origine e destinazione “paterna” farà, infine, che ci sia un solo gregge guidato da un solo pastore.
In nessun altro c’è salvezza
Perché tanta insistenza sulla necessità di donare la vita… alla gente? Siamo un gregge di moribondi? Il termine ‘gregge’ ha un significato peggiorativo: una massa di individui che non sanno cosa fanno, che vagano senza sapere bene dove orientarsi. Allora l’umanità intera è vista come un grande gregge spintonato da pochi interessati che decidono cosa gli altri devono pensare, mangiare, perseguire… Un gregge di alienati, alla deriva, in vista di quale esito? Come pecore sono avviate agli inferi, loro pastore è la morte (Salmo 49). Sotto il potere supremo della morte, in fin dei conti!... È questa l’inevitabile fine di tutti, anche di chi ha creduto di comandare sugli altri, o di preservare qualcosa per sempre!… Tutti obbediscono alla morte, senza eccezione.
…per questo il mondo non ci conosce!
La nostra fede contiene una speranza antitetica alla dinamica del mondo. È refrattaria alla sua logica e il mondo la rifiuta come ingenua o alienante. Ma anche noi stessi, essendo un pezzetto di questo mondo, ci troviamo lacerati, perché: “noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”. Dunque la nostra comprensione della vita e dell’amore che ci abita è debole e incompiuta. La nostra fede stessa nel supremo pastore che ha tolto il pastorato alla morte, mentre ci sta conducendo alla vita vera che non muore, si scontra con le smentite e i fallimenti o il buio del cammino quotidiano, in un contesto di sofferenza e competizione, nel quale sembra vincere la tentazione di abbandonare gli altri alla loro sorte di perdizione e di morte… e cadere nella stessa logica del mondo che Gesù ha combattuto, di pensare a salvare noi stessi!
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Man mano, dunque, che “vediamo” come egli è, man mano che la sua parola illumina la nostra condizione e il dramma che in essa si svolge tra la vita e la morte, tra la speranza e la desolazione, si manifesta anche nella nostra vita il destino di Gesù. Non solo alla fine, perché la sua presenza fa parte della dinamica della fede nella storia: alla fine ci sarà solo l’esplosione di quanto quaggiù il fermento in noi della sua parola e della sua eucaristia ha trasformato e lievitato nell’impasto di paura e di aggressività, che è il terreno del mondo. Questo suo fermento nel mondo è il Regno di Dio – il seme che ci fa figli di Dio, figli della risurrezione. La lettera di Giovanni ne ribadisce, appunto, la consapevolezza certa quanto misurata, cioè ancora in cammino nella storia: noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato – se non in Gesù!
Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata
…da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d'angolo. In nessun altro c'è salvezza. Qui si parla della sola pecora – l’agnello sgozzato! – che lucidamente ha intrapreso e percorso la via della morte, come tutti, ma assumendola con tutto il suo carico di male, senza lasciarsene avvelenare, sapendo che il passaggio dentro il cammino di morte (la sua Pasqua!) la tramutava in via della vita per sé e per tutti. Nella sua vita ha accolto pienamente la voce del Padre, ne ha testimoniato fino alla fine l’amore e la verità. I discepoli riscoprono nelle Scritture che l’Agnello condotto al macello, sgozzato e insieme trionfante, inerme e insieme invincibile, è il segno e il sacramento, la via e la verità, che apre la strada ai suoi fratelli, per vincere anche loro la morte. Per questo il mondo, dove la paura e la minaccia della morte è il criterio dominante, non l’ha potuto sopportare, ed ha creduto di chiudere la partita espellendolo fuori dell’accampamento civile e religioso, uccidendolo e disperdendone i discepoli. Ma il Crocifisso risorto è divenuto il buon pastore che ha vinto la morte in sé stesso ed ha strappato dal suo potere annichilente chi ne era soggiogato in terra e negli inferi… e così ha aperto la porta dei pascoli di salvezza a tutti quelli che credono in lui, ne accolgono lo spirito, imparano a perdonarsi, si uniscono tra loro nella comune partecipazione alla stessa avventura nel suo corpo e del suo sangue, donati per noi e capaci di coinvolgerci in questo dono.
…non vi è infatti altro nome nel quale noi siamo salvati
Per poter cogliere questo spiraglio di luce, per poter accedere a questa strada stretta, bisogna lasciarsi dunque illuminare dalla luce di Cristo e reinterpretare le Scritture alla luce della sua parola. Ci salva una fede illuminata dalla risurrezione di Gesù. Allora le Scritture rischiarano la nostra storia e ne sono reciprocamente illuminate. E noi impariamo a percepire la lotta drammatica all’interno della Bibbia per l’affermarsi, lungo i millenni, di questa luce, sempre più forte, che Dio è il buon pastore di tutti, anche se l’esito immediato di tutti i suoi successivi interventi che lì si raccontano è centrato sull’obiettivo particolare del momento. Non si trattava dunque semplicemente di portare il popolo fuori dalla schiavitù d’Egitto o condurlo alla terra promessa o richiamarlo dall’esilio, o di riportare alla purezza rituale e morale il popolo… ma l’obiettivo del suo pastorato è portare tutti, in Cristo, con i passi lenti e pesanti della storia, alla vita definitiva, al di là dell’esistenza terrestre!: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola (10,27ss).
Chi ha il potere di donare la vita, ha anche il potere di riprendersela!
Questo può essere il motto dell’esperienza di Gesù e quindi della nostra! Lo “scarto” della proposta cristiana rispetto alla funzionalità sociale, psicologica, politica, economica, è radicale! La scelta (o la beatitudine) della povertà rispetto alla pienezza, alla potenza, alla ricchezza… l’atteggiamento di mitezza non violenta che assume su di sé il male invece che trasmetterlo in ritorsione inarrestabile, l’amore e la benevolenza, insomma, come criterio di vita, sono il nuovo statuto cristiano… (oro e argento non ho… ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo…). Nasce una contraddizione insanabile dei discepoli di Gesù con la logica e la struttura della società religiosa politica economica (quella che aveva scartato Gesù…), nonostante tutti i legittimi tentativi di mediazioni storiche sperimentate nei millenni per sopravvivere da cristiani nella storia – chiamati però a non cedere mai all’“antropologia di potenza”, che permea l’uomo, le istituzioni, gli stati, il mercato (ove tutti sono mercenari, pena l’espulsione… dalla competizione, appunto!). Il costo è qualche pezzo di vita, e poi magari tutta quanta, che ci portano via. In palio c’è questa sfida suprema di Gesù: solo la vita che si dona è salva! Non muore più… e potrai riprendertela trasfigurata, come ha fatto Lui!

E adesso che Gesù è risorto?

In questa quarta domenica di Pasqua, la Chiesa continua ad invitarci a riflettere sul mistero della Risurrezione. A differenza delle domeniche precedenti però, la liturgia non presenta racconti di apparizioni del risorto, ma preferisce intercettare la stessa questione partendo da altri punti di vista. In particolare essi potrebbero essere riassunti in questi termini: innanzitutto – facendo riferimento alla prima e alla seconda lettura – Qual è il rapporto dei discepoli (e dunque anche nostro) con questo Cristo ormai risorto («nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato»)? Come cioè egli agisce ancora nella storia? In che senso il suo nome è l’unico, sotto il cielo, in cui è stabilito che siamo salvati? E cosa significa sul fronte umano questo essere salvati? Questo già essere figli di Dio? Questo essere associati alla sua risurrezione? In poche parole: Che ne sarà di noi? Cosa saremo? La risurrezione è qualcosa che riguarda solo lui o in qualche modo – e se sì in quale modo – coinvolge anche noi?
Sull’altro fronte invece, quello del vangelo, la questione suona piuttosto in questi termini: Qual è la vera identità di Gesù Cristo, il crocifisso risorto? Quali sono i termini corretti per comprendere la sua morte e risurrezione? E retrospettivamente la sua storia? Dunque per dire chi egli sia?
Evidentemente il perno delle questioni poste dalle letture nel loro insieme sta in questo secondo ordine di domande: la risposta ad esse infatti apre alla corretta lettura anche delle prime, dona loro la giusta prospettiva, le inserisce in un orizzonte univoco.
Come infatti Gesù risorto sia legato efficacemente alla storia che prosegue e a noi e cosa – in Lui – noi saremo, non sono domande disgiungibile da chi egli sia stato e dunque da quale sia la sua identità: il crocifisso infatti è il risorto; l’identità storica di Gesù coincide con la sua libertà di Figlio di Dio.
È come, cioè, se la Chiesa ci invitasse a lasciar trapelare dal cuore quelle domande che l’evento di risurrezione pian piano fa emergere, le stesse in qualche modo che hanno interrogato anche i discepoli della prima ora (Adesso che è risorto Gesù sarà ancora con noi? O la grazia della risurrezione lo allontanerà per sempre dalla nostra esperienza? Ora che ha vinto la morte si dimenticherà di noi – suoi discepoli che lo abbiamo tradito? Se ne andrà abbandonandoci al non senso della storia?), e a rintracciarne il corretto orizzonte di senso nella storia di Gesù.
E – come già accennato nella disamina dei testi – il problema vero diventa: Chi è veramente Gesù? È uno di cui ci si può fidare? O è uno che – vinta la morte – ci mollerà qui? È uno che “apposto lui apposto tutti” o uno che ha a cuore il destino degli uomini? Dei suoi? Anche se traditori?
Inevitabilmente dunque il problema post-risurrezione diventa il problema dell’affidabilità di Gesù: ecco perché – anche storicamente – il cristianesimo nasce sul ripercorrere, alla luce della risurrezione, la storia umana di Gesù. Ecco perché – per esempio – nella quarta domenica di Pasqua ci ritroviamo a leggere un testo del capitolo 10 di Giovanni, quando si racconta (ma sempre a posteriori) di Gesù vivo nella sua dimensione terrena. Con un unico chiaro punto fermo: per quanto ci sia una discontinuità tra il corpo di Gesù in carne ed ossa e quello risorto che vedono i discepoli durante le apparizioni, il risorto è il crocifisso, c’è identità cioè tra il prima e il dopo di Gesù: è la stessa libertà umano-divina, è la stessa intenzione amante, la stessa attuazione esperienziale, lo stesso uomo-Dio.
Ecco perché per cercare l’affidabilità del risorto – e dunque la comprensione del nostro destino dopo la sua assenza fisica nel mondo – è necessario ripercorre la sua affidabilità di crocifisso, e di predicatore, e di taumaturgo, e di profeta, e di Maestro, e di amico, ecc… in una parola è necessario ripercorrere l’affidabilità della sua storia.
Come dicevamo infatti non è un caso che la liturgia proponga il testo di Giovanni 10: in esso infatti è contenuta una delle più chiare auto-dichiarazioni di Gesù sulla sua identità, «Io sono il buon pastore».
Di fronte al continuo ritorno della messa in discussione dell’affidabilità di Gesù – e in lui di Dio – che sale nel cuore al discepolo (durante la vita di Gesù, durante la sua morte, durante la sua risurrezione: prima perché vedevano solo un uomo, poi perché vedevano solo un uomo morto, poi perché non vedevano più nulla…), la dichiarazione di Gesù è inequivocabile: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore».
Di fronte cioè al sempre ritornante dubbio del serpente per cui il vero volto di Dio nei confronti dell’uomo sarebbe quello del dominio, quello di chi non vuole che conoscano il bene e il male per potergli essere superiore, quello di chi dietro alla faccia pietosa nasconde un’indole prevaricatrice, giudicante, che te la fa pagare, la risposta di Gesù è perentoria: l’unico volto vero e reale di Dio è quello della dedizione. Egli infatti non è come il mercenario che al sopraggiungere del pericolo abbandona le pecore!
Egli è il pastore, che conosce ciascuna per nome (Gv 10,3), che cammina davanti ad esse, e loro lo seguono perché a loro volta conoscono la sua voce (Gv 10,4); ma soprattutto egli – proprio in virtù di questo rapporto – è colui che dà la vita per loro, è colui che cioè nel pericolo non abbandona, che è disposto a mettere a repentaglio la propria incolumità per la loro… appunto è affidabile.
Tutto il nocciolo della fede cristiana e della fede nella risurrezione ruota intorno a questo: al dar credito a questa affidabilità di Gesù. Questa è la questione delle questioni: se la sua vita, le sue parole, i suoi gesti, la sua morte («Io dò la mia vita. […] Nessuno me la toglie: io la dò da me stesso»), la sua risurrezione, rivelino un Dio affidabile. Sull’assenso che diamo o non diamo a questa affidabilità si gioca anche la qualità delle domande – e dunque delle risposte – poste prima (Qual è il rapporto dei discepoli – e dunque anche nostro – con questo Cristo ormai risorto? Come cioè egli agisce ancora nella storia? In che senso il suo nome è l’unico, sotto il cielo, in cui è stabilito che siamo salvati? E cosa significa sul fronte umano questo essere salvati? Questo già essere figli di Dio? Questo essere associati alla sua risurrezione? In poche parole: Che ne sarà di noi? Cosa saremo? La risurrezione è qualcosa che riguarda solo lui o in qualche modo – e se sì in quale modo – coinvolge anche noi?).
Esse infatti non possono essere considerate in modo estrinseco: come se ci fosse stata la storia di Gesù, chiusa con la risurrezione, e poi noi staccati da questa esperienza a porci domande disincarnate sul nostro destino terreno ed eterno, come invece a volte noi facciamo: considerando Gesù ormai assente – dopo la risurrezione e l’ascensione –, ormai etereo, ormai insignificante sulla nostra storia di oggi (come cioè se fosse indubbiamente un grande maestro di ieri, le cui indicazioni possono valere ed essere attualizzate anche oggi, ma col quale non è possibile nessun rapporto effettivo) e ponendo domande a un dio senza volto, a qualcuno di più grande di noi che si spera ci sia e accontentandosi di risposte preconfezionate e generiche da parte di un apparato dottrinale in cui non si crede ma si spera: “I preti dicono che si risorge dopo la morte… mah… speriamo… intanto pensiamo a arraffare il più possibile nell’aldiqua, che non si sa mai…”.
In realtà tutto il tentativo storico di Gesù, riassunto magistralmente nell’auto-dichiarazione sulla sua identità riportata nel testo di Giovanni 10 («Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore»), era stato quello di «attestare la verità di Dio sul principio di un’evidenza ‘entusiasmante’: prima di tutto e nonostante tutto, l’essenza della volontà di Dio è la cura per l’essere umano»; era stato quello cioè (attraverso le sua parole, i suoi gesti, il suo dare la vita…) di mostrare un volto di Dio univoco, non impersonale o ambiguo: ma univoco: Dio è Abbà, Padre; è la libertà – eternamente determinatasi per la cura dell’uomo – che chiede relazione: «Più che rappresentare un elenco di immagini destinate a comporre il quadro scolastico di una definizione di Dio e della sua giustizia» Gesù sembra voler «attivare un processo di interno confronto fra l’immagine dell’abbà e la rappresentazione faraonica di Dio coltivata nel fondo della nostra coscienza. Una sorta di estremo e radicale confronto fra il suo inconscio e il nostro: davanti al quale dobbiamo prendere posizione» [Sequeri].
Questa presa di posizione è la fede: dar credito alla storia singolarissima (non generica o per sentito dire) di quell’uomo-Dio che ha vissuto solo amando, che dunque ha un volto concreto, interpella a partire da un volto ben definito, e chiama a uno sbilanciamento la nostra altrettanto singolarissima identità. Riconoscerlo come affidabile e dunque giocarsi per Lui, accettare di intrecciare la nostra vita alla sua, determinarsi sempre per la cura dell’uomo e mai per il dominio – sapendo che questo ci condurrà alla morte: questa è la risposta alle domande poste all’inizio. Questo infatti è il suo modo di rapportarsi a noi da risorto, questo è il suo modo di agire nella storia, questo significa essere salvati, associati alla sua risurrezione; questo è quello che ne sarà di noi; questo è quello che saremo; questo è il modo in cui il suo vivere-morire-risorgere coinvolge anche noi: il decider-si (il decidere di noi stessi) per Lui, ma appunto non in senso sentimentale e tanto meno devozionale, ma con la propria storia, interiorità, decisionalità, affettività, ecc…
La corretta prospettiva per entrare nei misteri della vita cristiana (per esempio la risurrezione) e sulle domande sul nostro versante che essi fanno emergere (che ne sarà di noi?) è dunque quella dell’acconsentire ad un entrare in relazione con Gesù, con quella sua libertà, storicamente realizzata e visibilizzata, nella sua vita terrena: finché infatti non acconsentiremo a dare del “tu” a Dio, incontrandolo come quel volto univoco di dedizione per l’uomo che la storia di Gesù ha fatto trasparire, saremo sempre un passo al di qua dalla fede: e nessuna devozione, irreprensibilità morale o costruzione mentale potrà farci colmare questa distanza. Ciò che “serve” infatti è lo sbilanciamento-affidamento della libertà.

domenica 26 aprile 2009

Come imparare a raccontare una storia: la storia della salvezza!


...Storia di Gesù
…i discepoli di Gesù, quelli che più da vicino ne avevano condivisa l’avventura del giovane maestro che percorreva i sentieri della Galilea, predicando il regno di Dio e operando prodigi di misericordia, sono saliti con lui a Gerusalemme nel momento cruciale della sua vita, ma quando i poteri del mondo si coalizzano contro di lui, lo abbandonano per paura di essere travolti nella sua passione e morte. Di fatto, in due giorni, fu tradito, giudicato, torturato, crocifisso. E tutto è finito... in una tomba, come ogni avventura umana! Nel loro cuore, sui ricordi struggenti di questa esperienza, una lapide: Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele… (Lc 24,21). Ma ecco l’evento nuovo, incredibile: “alcune donne delle nostre ci hanno sconvolti… : “abbiamo visto” il Signore! E, dopo le donne, tutti i discepoli, in diversi modi incontrano il “crocifisso risorto!” ¬ e sono chiamati ad esserne testimoni! Una testimonianza speciale: Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio (At 1,3). Insegna loro, dunque, a capire e a rivivere il compimento delle Scritture che in modo impensabile si è avverato in lui, nella breve storia della sua vita, morte e risurrezione: lui stesso apre loro la mente (Lc 24,45) e infiamma il cuore (24,32) coinvolgendoli totalmente in questa storia, perché imparino a viverla e raccontarla.
L’autotestimonianza di Gesù
Nessun altro ha capito la sua storia, la sua missione nel mondo, nonostante innumerevoli tentativi di prevenire e poi spiegare il Regno di Dio… che in definitiva era Lui stesso! A noi è arrivata la testimonianza di chi finalmente, condotto per mano da Lui stesso, e poi dallo Spirito che ha alitato su di loro, ha colto la quintessenza di tutta la Scrittura, contenuta in questi avvenimenti. Nella sua vita, morte e risurrezione si sono condensate tutte le Scritture e si è illuminato il loro senso. È arrivato alla tappa definitiva il lungo millenario cammino. Gesù l’aveva predetto varie volte, ma le sue parole erano apparse incomprensibili: bisogna che si compiano le cose scritte su di me! Adesso la premura pedagogica di Gesù ha una premessa: togliere anzitutto dai discepoli la paura e i dubbi (Luca li chiama i “ragionamenti che salgono dal cuore”, che covano in ogni credente, almanaccando tutte le ipotesi possibili per…non arrendersi all’evidenza troppo coinvolgente: è un fantasma, un’allucinazione, la proiezione del desiderio…!?). Ma l’evidenza è incontrovertibile: vedere, toccare, parlare, mangiare sono il marchio di garanzia della sua permanente corporeità, altrettanto “fisica” quanto “libera” dalle leggi pesanti della materia di quaggiù. Un diverso modo di essere pienamente corpo! Di più non ci è spiegato e non è necessario alla fede! Ma colui che guardano, toccano e vedono mangiare è di certo la stessa “persona”, lo stesso uomo, il loro maestro che avevano visto crocifisso e deposto nel sepolcro!
Pietro disse al popolo…: fratelli, il Dio di Abramo… !
…finalmente ha imparato gli è cambiato la mente e il cuore in questi quaranta giorni! La sua fede era morta o paralizzata dalla paura e dallo scoramento, ma adesso è rinata e consolidata: è divenuta fede “cristiana”! Proprio il rifiuto e il ribrezzo della passione e morte del Signore era il veleno del rinnegamento, che inquinava la fede precedente, pure sincera e lodata dal Signore. Una fede che, però, vedeva solo la gloria del Messia potente! Adesso parla di Gesù chiamandolo con la convinzione e tenerezza di un approccio nuovo: il “servo” Gesù! Adesso il veleno si è sciolto. Pietro ha visto e toccato nelle piaghe gloriose del suo maestro, servo e signore, che umiliazione ed esaltazione, lavare i piedi ed essere maestro, morire sul legno maledetto ed attrarre tutti a sé – insomma, che morte e risurrezione, sono inscindibili. E la loro unione, il passaggio dialettico dall’una all’altra è la Pasqua di salvezza, il seme che marcendo sotto terra diventa fecondo! Capirlo e lasciarsene coinvolgere, è il segreto della fede cristiana. È il nodo ineludibile, il fuoco centrale, la dinamica propulsiva della vita di Cristo, che proprio così porta a compimento quanto tutta la storia anela, nel suo gemito di attesa che tutto si compia. Le promesse sempre rimandate e le attese deluse, seminate nel cuore dell’uomo e in particolare nel cammino del popolo di Israele, attendevano di vedere, capire … e vivere!. E Pietro, adesso per primo davvero, impara la storia della salvezza. Ed ecco che racconta la storia di Gesù, perché è diventata inscindibilmente la sua propria storia, la storia del suo popolo, la storia dell’umanità che ritrova la speranza: “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe,… ha glorificato il suo servo Gesù, … Avete ucciso l'autore della vita, ma Dio l'ha risuscitato dai morti… e noi ne siamo testimoni…”. Questa è la storia che ci salva, coinvolgendoci!
raccontare la storia… fondare la chiesa
… adesso, mentre parla al popolo di Gerusalemme, è già in funzione in Pietro l’apertura di mente operata da Gesù (Lc 24,45), e già lo spinge il fuoco che gli ardeva in petto, che ha bruciato ogni paura e dubbio. Impara a parlare e a spiegare cosa è successo, perché ha trovato in Gesù morto e risorto la chiave, la luce, il senso della storia raccontata nelle Scritture. La realizzazione della Promessa antica. E insieme, in questo incontro con il crocifisso risorto, ha ritrovato “il dono del perdono totale” dal suo Signore rinnegato. Proprio perché, senza fargli pesare per niente il suo peccato, l’ha rinnovato nell’intimo, sradicandolo dai complessi di colpa e attraendolo in una dinamica di amore smisurato (mi ami tu di più…!?). Ecco perché può annunciare e coinvolgere tutti in questa storia. A partire dall’obiettivo centrale della missione di Gesù : il perdono dei peccati, sperimentato personalmente nella lacerazione del suo cuore troppo fragile! Dalla sua testimonianza viva, ove si mescola l’avventura personale e la missione istituzionale, nasce la comunità cristiana, nelle sue caratteristiche sorgive fondamentali:
  • la conversione e il perdono dei peccati” – Non è un’operazione di igiene spirituale asettica. È uno struggente rapporto di affidamento e di consegna al Signore, “che ha dato la sua vita per me”! È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo
  • Contemporaneamente, dallo stesso intenso rapporto, nasce il cambiamento di mente e l’inversione di rotta del senso della vita (metanoèsateepistrepsate di At 3,18) : nasce una comunità di ri/conoscenti, legati tra loro dallo stesso perdono e salvezza - in Cristo – dallo stesso vangelo!
  • Adesso il peccato, che è ancora in noi come fragilità e debolezza, non uccide il rapporto con Cristo, né tra di noi. Gesù, anzi, ce ne difende con tenerezza e sollecitudine, come avvocato presso il Padre… La fede però si realizza nella sempre rinnovata fedeltà personale e comunitaria ai “suoi” comandamenti (il nuovo statuto evangelico). Dunque, nella prassi faticosa e condivisa della vita, non tanto nella certezza di una dottrina o di una gnosi… ma nella ricerca comune di trovare le nuove strade di prassi e di annuncio dell’amore salvifico di Gesù al mondo.
  • La comunità cristiana è chiamata a cogliere la presenza nuova di Dio sulla sua strada in quel viandante che si fa riconoscere attraverso i segni fondamentali per la sua sopravvivenza, ma per vita del mondo: le Scritture, lette in chiave Cristologica e la frazione del pane (Lc 24, 1-33). La storia umana, spazio privilegiato dell'azione di Dio, è storia di salvezza che attraversa tutte le situazioni umane.
È Dio, infatti, che in Cristo dirige misteriosamente la storia; è lui che opera l'evangelizzazione e guida il cammino dei suoi. L'evangelista dei confini del mondo - da Adamo al regno, da Gerusalemme all’estremità della terra - è anche l'evangelista dei giorni feriali. La salvezza radicale dell'uomo è nel liberarsi incessantemente dal suo cuore di pietra, che sempre rinasce, e nel ricevere un cuore nuovo, il che comporta un dinamismo che liberi da ogni forma di schiavitù. Ma subito trova il suo impegno di riconoscenza e la sua pacificazione nel donare agli altri il perdono e la speranza che ha ricevuto! Raccontando la propria storia!

La Risurrezione non è così banalmente e gioiosamente annunciabile

Nel breve racconto dell’apparizione agli undici si affacciano molti temi, alcuni già noti, altri che compaiono per la prima volta. In questa scena soltanto Gesù agisce e parla: saluta, domanda, rimprovera, mostra le mani e i piedi e, perfino, mangia davanti ai suoi discepoli. Al contrario i discepoli sono fermi e silenziosi, tranne il gesto di offrire a Gesù una porzione di pesce. Non si dice se hanno toccato Gesù e neppure, almeno esplicitamente, se hanno creduto. Di loro sono, però descritti i sentimenti interiori: lo sconcerto e la paura, il turbamento e il dubbio, lo stupore e l’incredulità, la gioia. I sentimenti dominanti tradiscono la difficoltà a credere nella risurrezione. Luca sa che non è facile credere nel Risorto.
[B.Maggioni, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 398].

In questa terza domenica di Pasqua la Chiesa rinnova la proposta di continuare a meditare il mistero di Cristo risorto. In questa prospettiva, come già nei testi di domenica scorsa (Gv 20,19-31: l’episodio di Tommaso), ciò che emerge con chiarezza è quanto anche la citazione sopra riportata comunica efficacemente: non è facile credere nel Risorto! Questo è il dato che più di ogni altro emerge dai testi sulle apparizioni di Gesù risorto, ed è un elemento di cui bisogna rendere conto.
Perché non lo riconoscono – mi è stato diverse volte chiesto in questi giorni? Perché i sentimenti dominanti di chi lo incontra sono lo sconcerto, la paura, il turbamento, il dubbio, lo stupore, l’incredulità? Perché anche oggi siamo così propensi a stimare l’operato storico di Gesù e lo spessore umano rivelato durante la sua passione e morte, e invece così lontani, forse addirittura scettici, sull’evento di risurrezione, che ci appare sempre così vaporoso, quasi che Gesù lì diventasse evanescente, inconsistente e dunque superfluo?
Certo la risposta a questi grandi quesiti non può essere chiara, netta e univoca, anche perché intercettano diversi livelli e piani storici: un conto è rendere ragione della paura e incredulità dei discepoli, che – non riconoscendolo pensavano di avere davanti un fantasma –, un conto è rendere ragione della nostra fede nella risurrezione, 2000 anni dopo le apparizioni… Eppure non si può nemmeno negare che in ultima analisi alla radice di queste problematiche, diverse ma evidentemente collegate, ci sia un fondamento comune.
Procediamo con ordine; innanzitutto: perché i suoi non lo riconoscono?
Il dato della non-riconoscibilità di Gesù (che nell’altra faccia della medaglia – quella meno gloriosa – vuol dire anche il non-riconoscimento da parte dei discepoli) è – come già accennato – comune a tutti gli scritti neotestamentari. Il problema degli evangelisti infatti era rendere ragione di un elemento difficilmente spiegabile con le categorie della scientificità e materialità: essi cioè dovevano in qualche modo far comprendere ai loro lettori che Gesù risorto era in continuità con il Gesù storico (era il crocifisso, era lo stesso uomo), eppure anche in discontinuità con esso (cioè in una condizione nuova). Ecco allora l’introduzione narrativa (dunque non sperimentale, analitica, medica…) di una serie di elementi che rendano questa realtà: il risorto ha i segni dei chiodi, conosce i suoi, dove sono, la storia appena vissuta, mangia, dice parole in continuità con quelle di sempre; e nello stesso tempo entra a porte chiuse, sembra un fantasma, nessuno lo riconosce…
Il non-riconoscimento / la non-riconoscibilità è dunque un segno di questa discontinuità: Gesù è il crocifisso, ora risorto.
Ma perché questo elemento è così difficilmente superabile? Perché cioè anche quando Gesù esce dalla sua irriconoscibilità, rimangono nei discepoli sentimenti di dubbio, incredulità, addirittura paura?
Beh, forse innanzitutto e molto banalmente, perché vedere vivo uno che era morto, dev’essere effettivamente un’esperienza un po’ sconvolgente e frastornante… e poi soprattutto perché quello che noi raccogliamo in un’espressione linguistica breve e veloce, “Gesù, il crocifisso risorto”, nella realtà dei fatti e nella portata di senso che li accompagna è in realtà qualcosa di molto più consistente, lento a elaborarsi, ribaltante ogni schema di comprensione della storia. Nella concentrazione di una o più apparizioni, cioè, ai discepoli si è presentato qualcosa che “non stava né in cielo né in terra”, come usano dire i bergamaschi per sottolineare la straordinarietà positiva o negativa di qualche evento… Gesù risorto, cioè quello stesso uomo con tutti gli elementi di continuità e discontinuità con il Maestro conosciuto descritti sopra, non sta né in cielo né in terra, cioè non c’è nessuno schema comprensivo della realtà dell’aldiqua (non è un malato risanato, un morto redivivo che poi morirà ancora come Lazzaro, non è uno che aveva fatto finta di morire, ecc…) né della realtà dell’aldilà (non è un angelo, non è una voce dal cielo, ecc…) che renda ragione dell’esperienza che i suoi, nell’incontrarlo, vivono. Ecco perché l’invito pressante di tutte le letture di oggi è quello della conversione: è quello cioè della rottura, quasi dell’esplosione di tutti gli schemi mentali, gli orizzonti di senso, le prospettive di significazione che finora avevano guidato quegli uomini. Non c’è nessun contenitore simbolico – fra quelli costruiti finora nella loro vita – che possa contenere questo evento nuovo.
Ecco da dove arriva il dubbio, l’incredulità, la paura: dal fatto che è chiesto un salto antropologico; un salto antropologico che finché non hanno incontrato Gesù risorto non era nemmeno immaginabile (quante volte infatti Gesù aveva preannunciato la sua risurrezione? Eppure le sue parole – stando alla narrazione evangelica – sembrano cadute nel nulla, nella dimenticanza, nell’oblio): già durante la sua vita terrena Gesù aveva condotto a tante conversioni i suoi, a tanti cambi di mentalità, a tanti salti antropologici. Ma questo non si era ancora dato; non era possibile prima: ma essi questo immediatamente non lo comprendono (poi sì, tant’è che gli evangelisti poi mettono per iscritto la memoria ritrovata degli annunci di risurrezione) e si chiedono perché Gesù non gli abbia fatto fare questo pezzetto di percorso quando era ancora con loro, riconoscibile, in carne e ossa.
Ecco perché il dubbio, l’incredulità, la paura: perché, immediatamente senza orientamenti, si ritrovano di fronte a un evento che fa saltare ogni possibilità di comprensione (secondo gli schemi vecchi, cfr Mt 9,16-17: «Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano») e stavolta – a differenza dei tre anni di vita pubblica precedente – sono chiamati a farlo in prima persona, senza una conduzione passo passo del Maestro, senza una rintracciabilità di senso nelle sue parole di spiegazione (cfr per esempio Mt 13,36: «Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”», o Mc 9,28: «Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”»), nella sua vicinanza, nella sua fruibilità quotidiana.
Ecco dunque la drammaticità della situazione, soprattutto della situazione interiore di questi uomini e donne che si ritrovano di fronte a Gesù risorto: l’angoscia del tradimento, lo smarrimento per quello che era apparso il fallimento della loro vita, la paura della persecuzione e della morte… e dentro lì il prorompere di un evento, di un incontro, che mostra di non essere com-prensibile, intelligibile, organizzabile con gli schemi mentali soliti e che dunque chiede una conversione, un’esplosione antropologica, teologica, mentale…
Forse per questo le prime parole di Gesù sono sempre parole di pace… Perché si rende conto davvero di quello cui sta mettendo di fronte i suoi…
Perché invece noi passiamo via così lisci su questo mistero della risurrezione? Perché – scrivevo anche sopra – oggi noi siamo così propensi a stimare l’operato storico di Gesù e lo spessore umano rivelato durante la sua passione e morte, e così lontani, forse addirittura scettici, sull’evento di risurrezione, che ci appare sempre così vaporoso? Quasi che Gesù lì diventasse evanescente, inconsistente e dunque superfluo?
Forse il percorso fatto finora può aiutarci un po’ nel rispondere a queste domande: forse infatti il problema nostro è diventato quello di aver concentrato così tanto il racconto di risurrezione, che esso è diventato quasi uno slogan, un modo di dire, qualcosa di ovvio, su cui non c’è più bisogno di soffermarsi… Forse purtroppo bisogna constatare che non solo questo, ma tutto il mistero cristiano è stato come liofilizzato, spezzettato e fatto conoscere attraverso brevi formulazioni (pensate al catechismo di Pio X), da imparare a memoria, sradicate dalla storia narrata nei vangeli e vissuta da Gesù e dai suoi e sradicate dalla domanda di senso che esse contengono; che è della stessa qualità e profondità delle domande di senso che anche l’uomo di oggi si pone, il quale però dal messaggio evangelico si sente tutto, fuorché intercettato in verità! E questo per quelli di fuori, ma anche per quelli di dentro (alla Chiesa)!
Ecco il problema, che l’annuncio evangelico non ci intercetta più a quel livello radicale che ha sconvolto i discepoli, a quel livello dove in discussione non entrano comportamenti morali o atteggiamenti liturgici, ma l’adeguatezza del mio orizzonte di senso con la realtà, con la verità, con la vita. Per i discepoli il dramma è stato convertirsi fino a questo punto di fronte al loro Gesù morto e risorto… è stato cambiare la ragione con cui pensare la vita, la storia, il senso… e decider-si (decidere cioè di se stessi) di fronte ad essa! A noi invece sembra non far molto problema né che sia morto, né che sia risorto, come se si parlasse di qualcosa d’altro da noi, di qualcosa che non ci riguarda, di un bel raccontino edificante, che però è lontano anni luce dalla nostra vita…
Il dramma dei discepoli – descritto nelle pagine di vangelo di queste domeniche – dovrebbe invece aiutarci a venir fuori dal nostro oblio e a confrontarci davvero con quello che stiamo dicendo annunciando al mondo Gesù risorto… perché davvero non è facile credere alla risurrezione e non possiamo andare a gridare uno slogan, se prima (e incessantemente) non accettiamo di passare nel crogiuolo della conversione radicale (e gioiosa, ma solo dopo, non immediatamente e banalmente) che la risurrezione di Gesù inevitabilmente impone: credere nella risurrezione di Gesù vuol dire infatti far esplodere la struttura antropologica del mors tua vita mea, perché finalmente e radicalmente liberati dalla paura sappiamo fin morire per gli altri. Ma questo non è né banale, né troppo gioiosamente annunciabile…
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