Perché ci sia uno scatto nella natura e nella portata della nostra fede trinitaria e cristologica, è necessario mettere mano alle forbici e operare una netta semplificazione della nostra vita. Ma dove cercare questa sintesi semplificante? Dice l’apostolo Giovanni: colui che non è nell’amore non conosce Dio. Quindi, se vogliamo fare una revisione della nostra fede battesimale e cristiana, dobbiamo parlare del nostro amore: la sintesi semplificante e fortificante non la possiamo trovare altro che in una considerazione nuova del nostro amore e della nostra carità.
Seguendo l’invito di Dossetti, parliamo allora del nostro amore: è infatti questa, la via per quello scatto della nostra fede che in questi tempi duri sentiamo il bisogno di fare (per la declinazione specifica di questi tempi duri rimando al post di Mario “Perché non possiamo più dirci cristiani –1-”).
Le tenebre infatti (individuali, sociali, ecclesiali) si vincono solo sopportando la tensione degli opposti dentro di sé – come diceva Jung nel 1954 durante un dibattito al Club psicologico di Zurigo a proposito di una domanda sul pericolo di una guerra atomica: «Ritengo che dipenda da quanti sono in grado di sopportare la tensione degli opposti dentro di sé. Se quelli in grado di farlo sono in numero sufficiente, penso che la situazione non presenterà fratture e che saremo in grado di evitare innumerevoli pericoli» [in N. NERI, Un’estrema compassione, Mondadori, Milano 1999, 46]. Che è poi la stessa consapevolezza della Hillesum quando scriveva: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire»; o ancora: «Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».
Ebbene anche oggi il compito per gli uomini e le donne – a maggior ragione per i cristiani e le cristiane – è quello di custodire la qualità alta della propria caratura umana, all’interno di un mondo che invece sempre più propone la dis-umanizzazione.
Dossetti diceva: è questione di fede; e si chiedeva “Quale fede?”. Per rispondere non poteva che indicare la necessità di parlare dell’amore: è dalla qualità del nostro amore che dipende la qualità della nostra fede (essa infatti non è altro che una relazione) e dunque la qualità della nostra vita.
I testi che la liturgia ci propone per questa sesta domenica di Pasqua sembrano venire esattamente incontro al nostro bisogno di soffermarci su questa tematica. È per questo che ci concentreremo in particolare sul ragionamento portato avanti nel vangelo di Giovanni...
Innanzitutto il Signore, nel lungo discorso fatto durante l’ultima cena, chiarisce bene i termini della relazione di fede: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». Lo sbilanciamento è dunque suo: è lui che per primo ci ha amati. E questo – molto più che una bella frasetta o uno slogan che volta per volta i vari raduni cattolici ci propinano – ha una portata scaravoltante l’intero impianto su cui spesso è fondata la nostra religiosità: «Il livello assoluto è il solo livello assimilabile per l’uomo, egli è libero ovvero l’uomo è l’unico ente in grado d’arrischiarsi in maniera assoluta. Ma ciò accade poiché (comunque per primo) Dio si esprime in maniera assoluta, la sola misura favorevole per l’uomo. Donandosi fino all’abbandono Dio è chi consegna chiara dis-misura al reale, qualsiasi atteggiamento l’uomo ponga in campo non giunge dunque a misurarlo. […] Rispetto al libero dono divino, l’uomo ne diviene l’erede, egli non può restituirlo, lo traffica, non ne fa alcuna economia, lo dona a sua volta» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, Cittadella Editrice, Assisi 2008, 69-70].
In questa relazione originata primariamente da Dio, il Signore invita però a rimanere: «Rimanete nel mio amore». E immediatamente dice come: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore». L’estrema logicità del procedimento (la fede-relazione è un dono, in esso bisogna rimanere, per rimanerci bisogna osservare i comandamenti) rischia però di far perdere la qualità vera di quanto Gesù – nelle parole dell’evangelista Giovanni – sta proponendo ai suoi: il pericolo – purtroppo effettivamente percorso dalla pratica ecclesiale – è infatti quello di perdere il contesto autentico di questo ragionamento e di farlo transitare – a mo’ di “copia e incolla” – in un altro ordine di problemi.
La riduzione a cui è andata incontro la proposta di Gesù è infatti quella di essere stata considerata come un comodo libretto di istruzioni per andare in paradiso: le indicazioni di Gesù sono infatti state sottratte dal loro contesto d’origine, dalla portata con cui e per cui lui le diceva, e sono state adottate come risposta a problemi diversi, a problemi altri dai suoi, a problemi originatisi molto più tardi nella storia della chiesa. La nuova e ristretta prospettiva era infatti quella dell’ansia di salvarsi l’anima, non quella della relazione attuale e vivificante col Signore; una necessità di salvarsi l’anima data dall’eccessiva accentuazione della malvagità dell’uomo: rimanere nell’amore di Dio, voleva infatti dire tentare con le opere buone di ingraziarsi quel Dio giustamente adirato con noi per la nostra pochezza, scordando il primato incondizionato del suo amore per noi e la qualità alta dei gesti dell’amore, che non possono mai essere ridotti a strumenti per salvare sé, se no non sono più gesti d’amore… Questi ultimi infatti hanno la peculiarità di essere per gli altri: tra l’altro non nel senso estrinseco di fare qualcosa per qualcuno, ma nel senso pregnante dell’essere implicati in quello che si fa, dunque di un mettere in gioco sé in quello che si fa, impegnandosi dunque in una relazione, in uno sbilanciamento, in un’implicazione, in un legame, in un essere per l’altro più che in un dare qualcosa all’altro… E ovviamente – come noto – i comandamenti da osservare per rimanere in quell’amore funzionale a salvarsi l’anima erano tutto un elenco di precetti morali, cultuali, folkloristici, perfino superstiziosi…
Ma che i “comandamenti da osservare” non fossero quelli è abbastanza evidente dai versetti successivi:
- Innanzitutto il riferimento alla pienezza della gioia («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»), pressoché sconosciuta ai cattolici pre-conciliari e di cui invece Dossetti scriveva: «Il Cristo risorto ci appare talvolta da un punto di vista umano, per una piega non ben chiarita del nostro animo, del nostro intelletto, come un essere evanescente che non ha più i sentimenti. […] Il Signore risorto – invece –, sì, è glorioso, è potente, è libero, è sovrano, è dominatore del mondo, delle anime e della storia, è il giudice che viene, ma è soprattutto un essere infinitamente felice. […] E questa gioia ce la vuole comunicare, questa gioia paradisiaca che sta nella compenetrazione piena, nella corrispondenza totale dell’amore del Padre e del Figlio e che si esprime finalmente in un amore completamente efficace per i suoi. […] Il Cristo, che è alla destra del Padre e che è completamente nella visione beatifica, del Padre, vuole, per amore, che noi raggiungiamo la pienezza di questa gioia: questo è il Risorto! » [G. DOSSETTI, Omelie del tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 242-243].
- In secondo luogo la precisazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Il discrimine cioè non è posto sull’adempimento di qualche norma o sull’assolvimento di qualche dovere, ma molto più radicalmente su un orizzonte di senso che investe la vita, il modo di stare al mondo, il modo di guardare a sé, agli altri, alle scelte…
È su questo che va valutata la qualità del nostro amore, e dunque della nostra fede, e dunque della nostra capacità di sopportare in noi la tensione degli opposti, e dunque di offrirci come campo di battaglia in cui i problemi possano trovare ospitalità, combattere e placarsi… È su questo che va valutata la nostra capacità di non sfuggire, di portare, sopportare e risolvere il dolore, mantenendo intatto un pezzetto della nostra anima.
È dalla nostra qualità amante che dipende la caratura umana della nostra identità (non a caso è sull’amore che verremo giudicati…). E l’indicazione di Gesù è chiara… La qualità amante è cristica, è nella sua prospettiva quando sa dare la vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici».
Un cristiano dovrebbe cioè alzarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di disporsi in modo tale da essere uno che ama le persone che in quella giornata gli sarà dato di incontrare… che si tratti del marito, dei figli, dei fratelli, del panettiere, del capufficio, ecc… Tutto il resto è coreografia… Non a caso il brano di vangelo perentoriamente si conclude così: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Saremo allora persone con una qualità umana significativa se guarderemo a tutto quanto ci accade intorno con uno sguardo amante – che sa dare la vita.
È per questo che – rischiando di non essere politically correct e di far dispiacere qualcuno – non possiamo non cogliere questa occasione e questa sede per esplicitare il nostro dissenso sui recenti provvedimenti previsti dal “pacchetto sicurezza” del governo italiano, che essendosi nascosto diverse volte – quando gli faceva comodo – dietro la bandiera cattolica, dimostra, ancora una volta – se ce n’era bisogno – di tener conto, nelle sue scelte, di tutto, tranne che del vangelo… dimenticando forse che il cattolicesimo o è evangelico o non è…
Seguendo l’invito di Dossetti, parliamo allora del nostro amore: è infatti questa, la via per quello scatto della nostra fede che in questi tempi duri sentiamo il bisogno di fare (per la declinazione specifica di questi tempi duri rimando al post di Mario “Perché non possiamo più dirci cristiani –1-”).
Le tenebre infatti (individuali, sociali, ecclesiali) si vincono solo sopportando la tensione degli opposti dentro di sé – come diceva Jung nel 1954 durante un dibattito al Club psicologico di Zurigo a proposito di una domanda sul pericolo di una guerra atomica: «Ritengo che dipenda da quanti sono in grado di sopportare la tensione degli opposti dentro di sé. Se quelli in grado di farlo sono in numero sufficiente, penso che la situazione non presenterà fratture e che saremo in grado di evitare innumerevoli pericoli» [in N. NERI, Un’estrema compassione, Mondadori, Milano 1999, 46]. Che è poi la stessa consapevolezza della Hillesum quando scriveva: «L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire»; o ancora: «Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima».
Ebbene anche oggi il compito per gli uomini e le donne – a maggior ragione per i cristiani e le cristiane – è quello di custodire la qualità alta della propria caratura umana, all’interno di un mondo che invece sempre più propone la dis-umanizzazione.
Dossetti diceva: è questione di fede; e si chiedeva “Quale fede?”. Per rispondere non poteva che indicare la necessità di parlare dell’amore: è dalla qualità del nostro amore che dipende la qualità della nostra fede (essa infatti non è altro che una relazione) e dunque la qualità della nostra vita.
I testi che la liturgia ci propone per questa sesta domenica di Pasqua sembrano venire esattamente incontro al nostro bisogno di soffermarci su questa tematica. È per questo che ci concentreremo in particolare sul ragionamento portato avanti nel vangelo di Giovanni...
Innanzitutto il Signore, nel lungo discorso fatto durante l’ultima cena, chiarisce bene i termini della relazione di fede: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi». Lo sbilanciamento è dunque suo: è lui che per primo ci ha amati. E questo – molto più che una bella frasetta o uno slogan che volta per volta i vari raduni cattolici ci propinano – ha una portata scaravoltante l’intero impianto su cui spesso è fondata la nostra religiosità: «Il livello assoluto è il solo livello assimilabile per l’uomo, egli è libero ovvero l’uomo è l’unico ente in grado d’arrischiarsi in maniera assoluta. Ma ciò accade poiché (comunque per primo) Dio si esprime in maniera assoluta, la sola misura favorevole per l’uomo. Donandosi fino all’abbandono Dio è chi consegna chiara dis-misura al reale, qualsiasi atteggiamento l’uomo ponga in campo non giunge dunque a misurarlo. […] Rispetto al libero dono divino, l’uomo ne diviene l’erede, egli non può restituirlo, lo traffica, non ne fa alcuna economia, lo dona a sua volta» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, Cittadella Editrice, Assisi 2008, 69-70].
In questa relazione originata primariamente da Dio, il Signore invita però a rimanere: «Rimanete nel mio amore». E immediatamente dice come: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore». L’estrema logicità del procedimento (la fede-relazione è un dono, in esso bisogna rimanere, per rimanerci bisogna osservare i comandamenti) rischia però di far perdere la qualità vera di quanto Gesù – nelle parole dell’evangelista Giovanni – sta proponendo ai suoi: il pericolo – purtroppo effettivamente percorso dalla pratica ecclesiale – è infatti quello di perdere il contesto autentico di questo ragionamento e di farlo transitare – a mo’ di “copia e incolla” – in un altro ordine di problemi.
La riduzione a cui è andata incontro la proposta di Gesù è infatti quella di essere stata considerata come un comodo libretto di istruzioni per andare in paradiso: le indicazioni di Gesù sono infatti state sottratte dal loro contesto d’origine, dalla portata con cui e per cui lui le diceva, e sono state adottate come risposta a problemi diversi, a problemi altri dai suoi, a problemi originatisi molto più tardi nella storia della chiesa. La nuova e ristretta prospettiva era infatti quella dell’ansia di salvarsi l’anima, non quella della relazione attuale e vivificante col Signore; una necessità di salvarsi l’anima data dall’eccessiva accentuazione della malvagità dell’uomo: rimanere nell’amore di Dio, voleva infatti dire tentare con le opere buone di ingraziarsi quel Dio giustamente adirato con noi per la nostra pochezza, scordando il primato incondizionato del suo amore per noi e la qualità alta dei gesti dell’amore, che non possono mai essere ridotti a strumenti per salvare sé, se no non sono più gesti d’amore… Questi ultimi infatti hanno la peculiarità di essere per gli altri: tra l’altro non nel senso estrinseco di fare qualcosa per qualcuno, ma nel senso pregnante dell’essere implicati in quello che si fa, dunque di un mettere in gioco sé in quello che si fa, impegnandosi dunque in una relazione, in uno sbilanciamento, in un’implicazione, in un legame, in un essere per l’altro più che in un dare qualcosa all’altro… E ovviamente – come noto – i comandamenti da osservare per rimanere in quell’amore funzionale a salvarsi l’anima erano tutto un elenco di precetti morali, cultuali, folkloristici, perfino superstiziosi…
Ma che i “comandamenti da osservare” non fossero quelli è abbastanza evidente dai versetti successivi:
- Innanzitutto il riferimento alla pienezza della gioia («Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»), pressoché sconosciuta ai cattolici pre-conciliari e di cui invece Dossetti scriveva: «Il Cristo risorto ci appare talvolta da un punto di vista umano, per una piega non ben chiarita del nostro animo, del nostro intelletto, come un essere evanescente che non ha più i sentimenti. […] Il Signore risorto – invece –, sì, è glorioso, è potente, è libero, è sovrano, è dominatore del mondo, delle anime e della storia, è il giudice che viene, ma è soprattutto un essere infinitamente felice. […] E questa gioia ce la vuole comunicare, questa gioia paradisiaca che sta nella compenetrazione piena, nella corrispondenza totale dell’amore del Padre e del Figlio e che si esprime finalmente in un amore completamente efficace per i suoi. […] Il Cristo, che è alla destra del Padre e che è completamente nella visione beatifica, del Padre, vuole, per amore, che noi raggiungiamo la pienezza di questa gioia: questo è il Risorto! » [G. DOSSETTI, Omelie del tempo di Pasqua, Paoline, Milano 2007, 242-243].
- In secondo luogo la precisazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi». Il discrimine cioè non è posto sull’adempimento di qualche norma o sull’assolvimento di qualche dovere, ma molto più radicalmente su un orizzonte di senso che investe la vita, il modo di stare al mondo, il modo di guardare a sé, agli altri, alle scelte…
È su questo che va valutata la qualità del nostro amore, e dunque della nostra fede, e dunque della nostra capacità di sopportare in noi la tensione degli opposti, e dunque di offrirci come campo di battaglia in cui i problemi possano trovare ospitalità, combattere e placarsi… È su questo che va valutata la nostra capacità di non sfuggire, di portare, sopportare e risolvere il dolore, mantenendo intatto un pezzetto della nostra anima.
È dalla nostra qualità amante che dipende la caratura umana della nostra identità (non a caso è sull’amore che verremo giudicati…). E l’indicazione di Gesù è chiara… La qualità amante è cristica, è nella sua prospettiva quando sa dare la vita: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici».
Un cristiano dovrebbe cioè alzarsi la mattina e avere come unica preoccupazione quella di disporsi in modo tale da essere uno che ama le persone che in quella giornata gli sarà dato di incontrare… che si tratti del marito, dei figli, dei fratelli, del panettiere, del capufficio, ecc… Tutto il resto è coreografia… Non a caso il brano di vangelo perentoriamente si conclude così: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Saremo allora persone con una qualità umana significativa se guarderemo a tutto quanto ci accade intorno con uno sguardo amante – che sa dare la vita.
È per questo che – rischiando di non essere politically correct e di far dispiacere qualcuno – non possiamo non cogliere questa occasione e questa sede per esplicitare il nostro dissenso sui recenti provvedimenti previsti dal “pacchetto sicurezza” del governo italiano, che essendosi nascosto diverse volte – quando gli faceva comodo – dietro la bandiera cattolica, dimostra, ancora una volta – se ce n’era bisogno – di tener conto, nelle sue scelte, di tutto, tranne che del vangelo… dimenticando forse che il cattolicesimo o è evangelico o non è…
P.S.: Vorrei allegarvi l'ultima vignetta che ieri sera Vauro ha mostrato alla trasmissione Annozero, perchè al di là della fede politica, contingentemente mi sembra davvero pregnante... Qui sotto si mostrano gli ultimi 5 min della trasmissione, quelli dedicati, appunto, alle vignette,.. a mio parere, merita: fa ridere, ma anche riflettere!