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mercoledì 14 aprile 2010

La lezione di Adro (da studiare per imitare)

Io non ci sto

Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità.

Ho vissuto i miei primi anni di vita in una cascina come quella del film “L’albero degli zoccoli”.
Ho studiato molto e oggi ho ancora intatto tutto il patrimonio di dignità e inoltre ho guadagnato i soldi per vivere bene.
È per questi motivi che ho deciso di rilevare il debito dei genitori di Adro che non pagano la mensa scolastica.

A scanso di equivoci, premetto che:
  • - Non sono “comunista”. Alle ultime elezioni ho votato per FORMIGONI. Ciò non mi impedisce di avere amici di tutte le idee politiche. Gli chiedo sempre e solo la condivisione dei valori fondamentali e al primo posto il rispetto della persona.
  • - So perfettamente che fra le 40 famiglie alcune sono di furbetti che ne approfittano, ma di furbi ne conosco molti. Alcuni sono milionari e vogliono anche fare la morale agli altri. In questo caso, nel dubbio sto con i primi. Agli extracomunitari chiedo il rispetto dei nostri costumi e delle nostre leggi, ma lo chiedo con fermezza ed educazione cercando di essere il primo a rispettarle. E tirare in ballo i bambini non è compreso nell’educazione.
Ho sempre la preoccupazione di essere come quei signori che seduti in un bel ristorante se la prendono con gli extracomunitari. Peccato che la loro Mercedes sia appena stata lavata da un albanese e il cibo cucinato da un egiziano. Dimenticavo, la mamma è a casa assistita da una signora dell’Ucraina.

Vedo attorno a me una preoccupante e crescente intolleranza verso chi ha di meno. Purtroppo ho l’insana abitudine di leggere e so bene che i campi di concentramento nazisti non sono nati dal nulla, prima ci sono stati anni di piccoli passi verso il baratro. In fondo in fondo chiedere di mettere una stella gialla sul braccio agli ebrei non era poi una cosa che faceva male.

I miei compaesani si sono dimenticati in poco tempo da dove vengono. Mi vergogno che proprio il mio paese sia paladino di questo spostare l’asticella dell’intolleranza di un passo all’anno, prima con la taglia, poi con il rifiuto del sostegno regionale, poi con la mensa dei bambini, ma potrei portare molti altri casi.

Quando facevo le elementari alcuni miei compagni avevano il sostegno del patronato. Noi eravamo poveri, ma non ci siamo mai indignati. Ma dove sono i miei compaesani, ma come è possibile che non capiscano quello che sta avvenendo? Che non mi vengano a portare considerazioni “miserevoli”. Anche il padrone del film di cui sopra aveva ragione. La pianta che il contadino aveva tagliato era la sua. Mica poteva metterla sempre lui la pianta per gli zoccoli. (E se non conoscono il film che se lo guardino…).

Ma dove sono i miei sacerdoti. Sono forse disponibili a barattare la difesa del crocifisso con qualche etto di razzismo. Se esponiamo un bel rosario grande nella nostra casa, poi possiamo fare quello che vogliamo? Vorrei sentire i miei preti “urlare”, scuotere l’animo della gente, dirci bene quali sono i valori, perché altrimenti penso che sono anche loro dentro il “commercio”.

Ma dov’è il segretario del partito per cui ho votato e che si vuole chiamare “partito dell’amore”. Ma dove sono i leader di quella Lega che vuole candidarsi a guidare l’Italia. So per certo che non sono tutti ottusi ma che non si nascondano dietro un dito, non facciano come coloro che negli anni 70 chiamavano i brigatisti “compagni che sbagliano”.

Ma dove sono i consiglieri e gli assessori di Adro? Se credono davvero nel federalismo, che ci diano le dichiarazioni dei redditi loro e delle loro famiglie negli ultimi 10 anni. Tanto per farci capire come pagano le loro belle cose e case. Non vorrei mai essere io a pagare anche per loro. Non vorrei che il loro reddito (o tenore di vita) venga dalle tasse del papà di uno di questi bambini che lavora in fonderia per 1200 euro mese (regolari).

Ma dove sono i miei compaesani che non si domandano dove, come e quanti soldi spende l’amministrazione per non trovare i soldi per la mensa. Ma da dove vengono tutti i soldi che si muovono, e dove vanno? Ma quanto rendono (o quanto dovrebbero o potrebbero rendere) gli oneri dei 30.000 metri cubi del laghetto Sala. E i 50.000 metri della nuova area verde sopra il Santuario chi li paga? E se poi domani ci costruissero? E se il Santuario fosse tutto circondato da edifici? Va sempre bene tutto? Ma non hanno il dubbio che qualcuno voglia distrarre la loro attenzione per fini diversi. Non hanno il dubbio di essere usati? È già successo nella storia e anche in quella del nostro paese.

Il sonno della ragione genera mostri.

Io sono per la legalità. Per tutti e per sempre. Per me quelli che non pagano sono tutti uguali, quando non pagano un pasto, ma anche quando chiudono le aziende senza pagare i fornitori o i dipendenti o le banche. Anche quando girano con i macchinoni e non pagano tutte le tasse, perché anche in quel caso qualcuno paga per loro. Sono come i genitori di quei bimbi. Ma che almeno non pretendano di farci la morale e di insegnare la legalità perché tutti questi begli insegnamenti li stanno dando anche ai loro figli.

E chi semina vento, raccoglie tempesta! I 40 bambini che hanno ricevuto la lettera di sospensione servizio mensa, tra 20/30 anni vivranno nel nostro paese. L’età gioca a loro favore. Saranno quelli che ci verranno a cambiare il pannolone alla casa di riposo. Ma quel giorno siamo sicuri che si saranno dimenticati di oggi? E se non ce lo volessero più cambiare? Non ditemi che verranno i nostri figli perché il senso di solidarietà glielo stiamo insegnando noi adesso.
È anche per questo che non ci sto.

Voglio urlare che io non ci sto. Ma per non urlare e basta ho deciso di fare un gesto che vorrà dire poco, ma vuole tentare di svegliare la coscienza dei miei compaesani.

Ho versato quanto necessario a garantire il diritto all’uso della mensa per tutti i bambini, in modo da non creare rischi di dissesto finanziario per l’amministrazione. In tal modo mi impegno a garantire tutta la copertura necessaria per l’anno scolastico 2009/2010. Quando i genitori potranno pagare, i soldi verranno versati in modo normale, se non potranno o vorranno pagare il conto della mensa residuo resterà a mio totale carico. Ogni valutazione dei vari casi che dovessero crearsi è nella piena discrezione della responsabile del servizio mensa.

Sono certo che almeno uno di quei bambini diventerà docente universitario o medico o imprenditore o infermiere e il suo solo rispetto varrà la spesa. Ne sono certo perché questi studieranno mentre i nostri figli faranno le notti in discoteca o a bearsi con i valori del “grande fratello”.

Il mio gesto è simbolico perché non posso pagare per tutti o per sempre e comunque so benissimo che on risolvo certo i problemi di quelle famiglie. Mi basta sapere che per i miei amministratori, per i miei compaesani e molto di più per quei bambini sia chiaro che io non ci sto e non sono solo.

Molto più dei soldi mi costerà il lavorio di diffamazione che come per altri casi verrà attivato da chi sa di avere la coda di paglia. Mi consola il fatto che catturerà soltanto quelle persone che mi onoreranno del loro disprezzo. Posso sopportarlo. L’idea che fra 30 anni non mi cambino il pannolone invece mi atterrisce.

Ci sono cose che non si possono comprare. La famosa carta di credito c’è, ma solo per tutto il resto.

Un cittadino di Adro

Caro direttore,
ringrazio il Corriere della Sera per lo spazio che mi ha dedicato. Ho ricevuto tante richieste di interviste e di presentarmi in qualche trasmissione tv, ma ho detto di no per ribadire che con il mio gesto non cercavo alcun protagonismo. Chiedo il rispetto dell'anonimato, non per pudore o per paura, ma perchè quello che penso su questo argomento è tutto scritto nel documento e credo che ci si debba occupare delle idee prima che delle persone. Se interessa il tema della solidarietà rivolgetevi a tutti quelli che danno gratuitamente una cosa più importante dei soldi che è il loro tempo. E sono tanti e in silenzio.

Inoltre, nel documento che ho lasciato nel mio Comune mi riferivo alla politica locale che conosco e in particolare parlando del segretario intendevo il segretario di Adro. Se qualcuno ritiene che alcune considerazioni hanno valenza generale sono sue legittime deduzioni. Non iscrivetemi nel gruppo dei soloni che hanno in tasca la soluzione dei problemi del mondo.

Uteriori aggiornamenti: qui

martedì 13 aprile 2010

Perché taccio!

Qualcuno mi scrive in privato, sollecitandomi a parlare delle calunnie rivolte al Papa sulla sua presunta copertura di sacerdoti pedofili. Insomma mi si chiede di difendere le ragioni del Papa e della Chiesa

Personalmente penso che l’unico modo di difenderLo è cominciare ad assaporare anche noi quel dolore amaro che hanno le parole e gli atti che sappiamo ingiusti e persecutori. Se non altro per essere un poco, (assai troppo poco), anche nel dolore concreto, in comunione con quelle vittime innocenti che “noi” come Istituzione ecclesiale, abbiamo perseguitato…

C’è un episodio dell’Antico Testamento dove Davide in processione trionfante è insultato (anzi maledetto, lui il prediletto di Dio!) da un tale. Gli altri vogliono farlo tacere e lui invece ordina di lasciarlo gridare perché – dice – quella voce, disumana, irrazionale, offensiva, calunniosa… forse (!) veniva da Dio (cfr 2Samuele 16,11).

Ecco, io vedo in queste “diffamazioni” (sperando che lo siano davvero: peggio sarebbe se non lo fossero) un dono della Grazia, una possibilità della Chiesa di espiare in silenzio, ciò che le sue colpe (e il Papa le ha elencate, e tra queste non si è a priori escluso) hanno fatto di umanamente irrimediabile nei cuori, nelle vite, di troppi innocenti. Espiare, per sé e per tutti.

Siamo a Pasqua e credere nella Resurrezione vuol dire credere nella logica della Croce. E Cristo era innocente e noi non credo che lo siamo come lui. Vuoi per aver sottostimato nel tempo il problema, vuoi per una certa sessuofobia, vuoi per il ruolo marginale anche della donna nella vita del prete (parlo affettivamente come fonte di equilibrio…), vuoi per la mancanza di discernimento vocazionale, vuoi per i pessimi programmi educativi, vuoi per l’abbandono concreto con cui un parroco si trova a gestire il proprio sacerdozio, vuoi per la vita staccata (non solo dalla gente ma anche dai chierici) di tutta la curia romana e vescovile (quante volte tu che mi leggi hai potuto parlare a tu per tu con un vescovo?), vuoi per questo clima ovattato e clericale dei dicasteri e delle curie, vuoi perché quando il Papa era cardinale non ha pestato i pugni sul tavolo e minacciato le dimissioni per obbligare G.P. II ad aprire gli occhi… la lista è lunga e senza fine, prima di parlare di persecuzioni cominciamo a parlare di quanto poco abbiamo fatto per non meritarcele: praticamente niente!… C’è forse qualcuno che invece si crede innocente come il Cristo? Ebbene come lui, si lasci in silenzio condurre al macello per il bene di tutti!

La difesa ad oltranza, sempre, ma soprattutto in questo caso, male si addice a coloro che sono all’origine, anche indiretta, per omissione, del male.
C’è uno spirito di vendetta? Dio mio, se ne hanno diritto… io mi stupisco che non mi abbiano ancora cavato gli occhi!

E in ogni caso il male fatto è troppo immenso per lasciarlo alle parole. Ciascuno può fare un esperimento su di sé – e mi scuso per l’esempio troppo forte – guardate un vostro nipote o vostro figlio e pensate che un giorno possa dirvi che il prete che più stimate, perché vostro direttore spirituale, consigliere, confessore abituale, ecc., ha abusato di lui…
Basta ascoltare l’immenso insostenibile dolore che si prova e ci si accorgerà che non ci può essere pace per un cuore nemmeno nella fede, perché è un crimine che la uccide. Se qualcuno l’ha conservata è stato veramente per un vero e proprio miracolo di Dio, altro che quelli di Lourdes…

Sì credo proprio che parlarne per difendersi, sia un’altra forma di violenza. Credo che qui più che mai serva il silenzio e la preghiera, oltre a fare concretamente tutto il possibile, ma veramente tutto, per riparare al danno fatto alle vittime. E provare a vedere come riuscire a manifestare una giustizia non spietata verso i loro carnefici: c'è una solidarietà crocifissa che un cristiano deve poter manifestare anche verso i propri boia... Fino ad ora questa non è ancora emersa e ha aggiunto dolore a dolore: provate a pensare ora alla madre di un tale uomo!

Per questo a questo post non sono permessi commenti (se proprio qualcuno vuole farlo mi scriva in privato alla email che trova nel mio profilo)…
Scusatemi ma a me ogni parola, davanti a tanto dolore, mi appare oscena. E ne ho dette fin troppe!… Lascio dire chi deve dire (e son sicuro che vorrebbe tacere, se non è scemo) e vivo la dolorosa grazia del dover e poter tacere…

domenica 11 aprile 2010

Beati quelli che vedono perché credono

Gesù entra a porte chiuse. Eppure alla sua resurrezione, la pietra del sepolcro è rotolata e la porta del sepolcro si è aperta. [...] Ma qui egli entra e le porte sono chiuse, affinché quelli che dubitavano della resurrezione fossero presi da stupore al suo ingresso e da questo prodigio fossero condotti come per mano all’altro prodigio. [...] Gli apostoli, nascosti in una casa, vedono il Cristo. Egli entra a porte chiuse. Ma Tommaso, che in quel momento era assente, rimane incredulo. Desidera vedere Gesù con i suoi occhi e rifiuta i racconti degli altri discepoli. Chiude le orecchie e vuole aprire gli occhi. L’impazienza lo brucia, quando pronuncia queste parole: «Se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e se non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» (Gv 20,25). Troppo esigente per credere, Tommaso sfoga la sua diffidenza, sperando così che il suo desiderio sia esaudito. «I miei dubbi non spariranno se non quando lo vedrò, dice. Metterò il mio dito nei segni dei chiodi e abbraccerò quel Signore che tanto desidero.
Rimproveri la mia incredulità, ma colmi i miei occhi. Incredulo, quando lo vedrò, crederò quando lo stringerò tra le mie braccia e lo contemplerò. Voglio vedere le mani trafitte, che hanno guarito le mani che hanno trasgredito. Voglio vedere quel costato che ha scacciato la morte dal suo fianco. Voglio essere il testimone del Signore e non do peso alla testimonianza altrui. I vostri racconti esasperano la mia impazienza. La buona novella che mi portate non fa che ravvivare il mio turbamento. Non guarirò di questo male se non tocco colui che le guarisce». Ma il Signore appare di nuovo e dissipa contemporaneamente la tristezza e il dubbio del suo discepolo. Che dico? Non dissipa il suo dubbio, colma la sua attesa. Entra a porte chiuse e con questa visione incredibile conferma la non creduta resurrezione. Trova un nuovo motivo di stupore per convincere Tommaso. «Metti il tuo dito nel segno dei chiodi» (Gv 20,27), gli dice. Tu mi cercavi quando non c’ero, approfittane ora. Conosco il tuo desiderio nonostante il tuo silenzio. Prima che tu me lo dica, so che cosa pensi. Ti ho sentito parlare, e benché invisibile, ero accanto a te, accanto ai tuoi dubbi, e senza farmi vedere, ti ho fatto aspettare per meglio vedere la tua impazienza. «Metti il tuo dito nei segni dei chiodi, metti la tua mano nel mio costato e non essere più incredulo, ma credente». Allora Tommaso lo tocca, tutta la sua diffidenza si dissolve e colmo di una fede sincera e di tutto l’amore che si deve a Dio, esce in un grido: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). E il Signore gli dice: «Perché hai veduto, hai creduto. Beati quelli che non hanno visto e credono!» (Gv 20,29). Tommaso, porta la buona notizia della mia resurrezione a quelli che non hanno veduto. Conduci la terra intera alla fede non della visione, ma della parola. Va’ tra i popoli e le città barbare e insegna loro a portare sulle spalle la croce invece delle armi. Annunciami: crederanno e mi adoreranno. Non esigeranno altre prove. Di’ loro che sono chiamati per grazia e contempla la loro fede. In verità: «Beati quelli che non mi hanno veduto e hanno creduto!».
(Basilio di Seleucia, Omelia sulla santa Pasqua 2-4, PG 28,1084A-1085C).

sabato 10 aprile 2010

Beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!

La liturgia di questo tempo dopo Pasqua ci introduce in un atmosfera di gesti e di parole, di sentimenti e di comportamenti del Signore “risorto” che ci fanno intravvedere un’umanità calda e misericordiosa, premurosa e provocatoria, tutta intenta a far maturare nella fede debole e troppo umana dei discepoli, impaurirti e complessati dai propri sensi di colpa, il salto di qualità verso una fede matura, animata dal suo “Spirito” – come Gesù aveva loro promesso, uno volta arrivato a questa sua compiutezza: Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi! Nella tenerezza misteriosa e dolcemente imperturbabile, del crocifisso risorto, promana ad ogni incontro con i discepoli, il “perdono” e la “pace” e ritrovano speranza le grandi promesse deluse della storia dell’umanità.
“Egli entrò nel cenacolo chiuso, come un vero spirito; la densità della sua carne risorta era diversa dalla densità della carne non risorta. I più puri e ingenui accettano l’apparizione del Risorto semplicemente come un dato di fatto; i più complicati lo obbligano a un’opera di rivelazione. Chi non si aspettava d’incontrarlo lungo la strada lo prende per un viandante qualunque. Tommaso, che invece l’attendeva suo malgrado, gli chiede la più elementare delle prove, quella di toccare le piaghe delle mani e del costato: ‘Non crederò se non metterò la mano nelle sue piaghe’. E Cristo appare nel Cenacolo con la sua carne risorta, Tommaso corre a toccarlo sicuro di sé, incontra la carne piagata, sfiora le ferite con le dita; crede a ciò che vede, a ciò che tocca. Aveva rifiutato la testimonianza, deluso la fiducia degli altri, adesso crede perché tocca, perché vede. Cristo prova una pena profonda per il discepolo incredulo, con dolore accetta un dato di fatto: Tommaso non crede allo spirito, crede alla materia; non alla verità sempre enunciata, ma alla testimonianza dei sensi; non ciò che è, ‘è’, ma ciò che sembra ‘è’!(Vannucci).

Non è tanto difficile, infatti, la prima fede – quella dell’adesione mentale ad una dottrina affascinante o al potere taumaturgico del messia di Nazareth. Il difficile è la seconda fede – quella consumata dalla delusione dell’impossibile, quando tutto è finito nel fallimento e nella morte. La fede, chiamata alla fiducia e allo sbilanciamento interiore nello spirito, a credere a chi che non si vede e non si tocca – la fede che continua ad affidarsi pur, nel tunnel dell’incredulità e del non senso …
L’esperienza di Tommaso è diventata così popolare e paradigmatica perché il buon senso istintivo della gente ci ha visto il “piccolo uomo” che tutti abbiamo dentro, quello che vede solo ciò che si vede, programma la sua vita su ciò che rende e … dopo, è già abbastanza stanco da non aver tempo da perdere per indagare oltre... Oltre! – dove solo i poeti e gli innamorati, i mistici e gli insoddisfatti del realismo di questo mondo (i poveri – guarda caso!), rimangono sempre ad aspettare cose che non ci sono ancora... Il “!piccolo uomo” è abituato a idee solide: ciò che gli occhi vedono e le mani toccano, perché solo questo è vero. Cristo lo ammonisce: “Tommaso, tu credi a ciò che hai veduto! Beato chi crederà a ciò che non ha visto!” (Gv 20, 29). Cioè: beato chi si applica ad una conoscenza fuori di ogni forma e misura corporea; beato chi vede con gli occhi dello spirito e non solo con quelli della materia!
Sta di fatto che in genere noi evitiamo volentieri ogni sforzo ‘spirituale’ (fondato o riferito all’immateriale!), perché credere a ciò che si vede e che corrisponde al nostro controllo è più facile che credere a ciò che s’intuisce soltanto e ci spinge oltre, in territori e situazioni non ancora sperimentati. Come si vede bene nell’istinto degli animali e dei bambini. Solo ripetere ciò che già si è visto e verificato sembra sicuro! Ma è solo ripetitivo, rassicurante, ma senza fermento di futuro. Entrare in un piano di aderenza fisica e psichica alle faccende e vicende quotidiane, controllate più o meno dalla ragione e dal buon senso, sembra più facile che inoltrarsi in un piano di aderenza spirituale alla “eccedenza” del vangelo e delle sue proposte sconvolgenti di approccio al diverso, all’imponderabile, al misterioso, a tutto ciò, insomma, che contiene una minaccia di rischio di sofferenza o di morte. L’esperienza di gran parte degli uomini (e di gran parte della nostra vita) si accontenta della “razionalità della carne” – non è molto provocata o coinvolta dalle sollecitazioni dello ‘spirito’, che pure ci appaiono in qualche momento come barlumi intermittenti e flebili (non cogenti) che illuminano per un secondo quali sarebbero le strade e le occasioni ove è promessa una maggior pienezza e coerenza della fede! La vita, giorno dopo giorno, ce ne presenta un’infinità, di queste occasioni o provocazioni, ad una risposta gratuita, ad un sorriso o ad un consenso previo, donato prima di ogni misura. Ma soltanto una litania di continui “affidamenti” e successive consegne interiori rendono possibile questa attitudine d’animo “spirituale”.
Ecco il campo interiore dove si coltiva … lo spirito – cioè l’amore trasparente, gratuito, capace di andare al di là degli psicosomatismi egocentrici, dai quali nel comportamento quotidiano tutto è vagliato e integrato secondo le proprie misure di carne paurosa. Lo spirito é amore! cioè relazione – e per dargli spazio occorre imparare a balbettare questo suo linguaggio sconnesso dai nostri automatismi, quindi ostico, all’inizio, per lo sforzo di uno sbilanciamento oltre abitudini e paure. Perché richiede di elaborare una consolidata attitudine interiore di apertura, di benevolenza, di spendimento generoso. Proprio questo è “agire nello spirito” – cioè entrare nell’orbita di oblatività verso l’altro. Invece che centrarsi sempre su di sé, aprirsi – per amore – cioè per far crescere l’altro! E allora è ovvio che occorre un volto di riferimento, una persona … un amico, che abbia già fatto la strada, che sia la strada stessa – su cui convergere i sentimenti, le attese, le fatiche, le speranze, i fallimenti… cioè tutto il nuovo (ancora maldestro) sistema copernicano “evangelico” o “agapico” (diremmo, nel nostro sistema culturale). E così, finalmente, mettere gradualmente e faticosamente al centro della galassia della propria vita l’amore all’altro – l’amore oblativo, non egocentrico.
Per anni Gesù aveva istruito i suoi discepoli cercando di preparare cuore e mente ai misteri del Regno – che sono i misteri dell’amore misericordioso rivelati ai piccoli e semplici, e nascosti ai grandi e ai sapienti. Adesso, ancora, impauriti nel cenacolo, incantati da una visione incredibile, i discepoli gioivano di aver ancora vicino il corpo che amavano, senza voler vedere o intendere altro. Sono trasecolati da questo corpo che avevano visto senza vita e deposto nel sepolcro – adesso tornato glorioso alla vita. Non son capaci di accogliere il vero messaggio della risurrezione che ora stava davanti a loro. Il lungo insegnamento degli anni terreni naufraga davanti al fatto concreto che li acceca, poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore…! (Lc 24,41). Ecco la tentazione che li chiude in una esperienza storica, necessaria, ma, come tale, transitoria! “Beato chi crede senza aver veduto”, perché sennò la sua fede è grande come ciò che tocca, e dura fin quando e quanto è possibile vedere coi propri occhi e toccare con le proprie mani e sentire con i propri sentimenti… È ancora una fede troppo “carnale!”
Credere senza vedere è possibile non tanto attraverso un intimo convincimento della mente (che ne sarà piuttosto la conseguenza), ma attraverso un affidamento strappato alle proprie viscere, che accoglie l’insegnamento che Tommaso rifiuta. La testimonianza dello Spirito non avviene sul piano della materia concreta, ma nell’attuarsi cosciente di uno stato spirituale che cambia gradualmente ma radicalmente la propria situazione interiore … :“.. ricevete lo Spirito Santo!”. Nello Spirito Santo Cristo vuole continuare la sua discesa negli inferi della coscienza umana, per convertire fino all’ultima fibra la pusillanime paurosa carne umana nella sua capacità di amare, perdonare ed effondere la pace. Si comunica così ai suoi discepoli presenti e futuri, come amore – perché l’amore gratuito è fatto così! – è gratuito è necessario dal di dentro, insieme. Nasce dalla spontaneità della voglia di bene e non è la “necessaria” conseguenza delle appartenenze carnali o psichiche. É una scelta e una grazia, un intimo dovere impellente di non poter fare diverso e insieme un dono inesigibile. E quando ti ha preso dentro … è la morte, non poterlo essere! È, infatti, la memoria rinnovata nella nostra storia dell’avventura liberatrice di Gesù, crocifisso risorto.

In qualunque casa entriate, prima dite: Pace!

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”«, così Giovanni descrive il primo incontro che i discepoli fanno con Gesù risorto (solo la sua Maria l’aveva già incontrato, ma per lei – si sa – Gesù aveva una predilezione). Manca Tommaso, si scoprirà più avanti nel racconto, ma ciò che colpisce di più a questo punto della narrazione è vedere il registro su cui Gesù si colloca per ritrovare i suoi. “Pace a voi”, gli dice; e lo ripeterà ancora due volte (una dopo aver mostrato i segni della passione e l’altra “otto giorni dopo”, quando finalmente ci sarà anche Tommaso).
La paradossalità di questo saluto – che magari in prima battuta sembra piuttosto naturale (dato che siamo abituati a sentire che Gesù risorto saluta in questo modo e che – se ci ricordiamo un po’ anche ciò che diceva da vivo – era stato proprio lui a consigliare ai suoi di salutare così quando entravano in casa di qualcuno: «In qualunque casa entriate, prima dite: Pace», Lc 10,5) – salta agli occhi se proviamo ad andare a vedere come si erano lasciati i discepoli e Gesù l’ultima volta che si erano visti... Gv 18,1 era l’ultima volta in cui i discepoli comparivano, là dove si diceva appunto che «Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli». Da questo momento in avanti essi spariscono: in quel giardino infatti arriverà Giuda, «con un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi» e arresteranno Gesù. Soltanto Pietro ricomparirà ancora – ma nell’episodio del rinnegamento – e in seguito il discepolo amato – l’unico che fa una bella figura – perché “adotta” Maria. I discepoli non ci saranno nemmeno quando si tratterà di andare a recuperare il corpo morto di Gesù: ci andranno infatti Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, due che erano discepoli “di nascosto”… E non faranno nemmeno il tentativo di raggiungere il loro Maestro morto – la mattina – come le donne, per rendergli omaggio. Non crederanno nemmeno a Maria di Magdala che pure era andata ad annunciargli: «Ho visto il Signore!». Niente! In Gv 20,19 essi sono ancora con le porte chiuse per paura dei Giudei.
Bene, in questa situazione a Gesù la prima cosa che viene in mente di dire è: “Pace a voi!”. «neppure qui come in nessun altro testo, li rimprovera rivangando la faccenda che quando lui era in pericolo i suoi prodi se la sono svignata. Questo è il primo gesto della redenzione, il più bello che ci sia in tutte le Scritture del Nuovo Testamento, quello simboleggiato dall’espressione di Gesù che dice: “Chi cercate voi?” “Gesù, il Nazareno” “Sono io!”, gli altri non c’entrano (cfr. Gv 18,4-9). Impara, evangelizzatore d’assalto! Gesù è quello stesso che prima, quando le cose andavano bene, ai suoi ragazzotti diceva: “Se non prendete la vostra croce e non mi riconoscerete davanti agli uomini, un giorno io non saprò neanche chi siete”. Giusto, perché quando stiamo tutti bene i ragazzotti hanno bisogno di essere istruiti sul fatto che qui non è come iscriversi al club della vela…ci sto, non ci sto, mi va, non mi va, devo provare i buoi, …stai a casa! Ma quando viene il pericolo vero, lo stesso che quando le cose vanno bene ai suoi dice “Ragazzi, questo è un gioco duro, non è una roba per dilettanti!”, i suoi li chiude nella cuccia (e non è vero che non c’entrano perché non han fatto altro che dire: “Signore ci siamo noi! Cosa possiamo fare? Ci organizziamo…”) e alle guardie dice: “Prendete me, tutto quello che sanno, che credono, che fanno, è perché gliel’ho insegnato io, quindi prendete me!”. Questa è la redenzione. Questo è lo stile dell’Evangelo e della testimonianza. Questo è stile, le due parti insieme e cioè: non c’è il Vangelo allo zucchero filato che dice: “Se venite con me vi faccio stare bene, vi spariscono anche i brufoli, vi faccio volare, vi faccio vedere Dio…”…No! Non c’è, il Vangelo non è piazzato come un coefficiente del benessere, ha la durezza che deve avere, però, siccome la Parola di Gesù è che ciascuno deve offrire la propria guancia, non quella di suo fratello (tanto perché qualche volta ci confondiamo), quando viene il momento del pericolo il Signore si aspetta che come fa lui, ciascuno dei discepoli per suo conto offrendo la propria, tenga al riparo i suoi. Anche quelli che di per sé hanno ricevuto dal Signore la vocazione a farsi avanti, non si devono fare avanti al posto suo. Questa è la differenza, questo è Dio. L’uomo sarà anche peccatore, ma Dio non vuole che si faccia avanti al posto suo» [P.A. Sequeri, sbobinatura della lezione del 12 marzo 2003 del Corso di Teologia Fondamentale in FTIS].
Ecco il primo elemento fondamentale del brano: Gesù non è risorto per arrivare a tirare i conti, non ha cambiato l’atteggiamento di redenzione verso i suoi che aveva tenuto durante la passione, ha riconciliato quel pezzetto di storia – piccolo ma tanto determinante – del tradimento di tutti i suoi, semplicemente presentandosi e esordendo con “Pace a voi!”.
E che la chiave di lettura del vangelo odierno sia precisamente il perdono – e più radicalmente il perdono in senso forte, cioè la vera e propria ricostruzione delle condizioni affinché l’altro possa ricostruirsi e ricostruire la relazione – è dato anche dalla seconda cosa che Gesù dice: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Gesù cioè come prima istanza – da Risorto – ha quella di fare dei suoi “ministri della riconciliazione” – come dice Paolo in 2Cor 5,18. Perché – come ricordava il prof. Luca Moscatelli in una sua recente conferenza – “se mi dicessero che posso perdonare chi voglio – e so cosa vuol dire essere perdonato – beh, perdonerei tutti! O no?”… Anche perché lì Paolo è interessante davvero; dice: «L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana» (2Cor 5,14-16) – alla maniera umana, infatti, uno avendo un potere (in questo caso quello di rimettere i peccati) potrebbe farne anche un uso scorretto, tipico di chi non sa cosa vuol dire davvero avere il cuore e la storia e la provenienza riconciliata (come cantava Zaccaria in Lc 1,72: «egli ha concesso misericordia ai nostri padri»). Ma in più Paolo – giusto per non lasciare adito a dubbi – dice: «Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» – è l’esperienza dell’essere riconciliati che abilita alla riconciliazione. È perché a Pietro e agli altri non imputa le loro colpe, il motivo per cui subito dopo può invitarli a farlo con chiunque!
Se pensiamo a cosa invece spesso voglia dire nella nostra vita cristiana “riconciliazione”, c’è proprio da mettersi le mani nei capelli e concludere con Petrosino che “L’uomo fa sempre così: prende una roba e ne fa una schifezza”…
Interessante – ad ogni modo – che a Gesù prema così tanto questo fatto della riconciliazione… Forse perché a ben guardare, presa nella sua caratura profonda, essa è l’unica dinamica che può permettere la vita: viviamo – infatti – solo quando gli altri ci abilitano a farlo, quando ci perdonano la nostra inadeguatezza, il nostro non essere mai all’altezza, il nostro tradire, il nostro non riempire i loro desideri… Ciascuno di noi, per gli altri, è sempre inevitabilmente anche questo… Ma se la paura, o l’inacidimento, o l’intransigenza, o la durezza, o “la convinzione di avere la verità”, o chissà che altro, chiude l’altro nel suo errore, nella sua uscita infelice, nel male che ha fatto, se cioè prevale il nostro bisogno di avere ragione sul bene che vogliamo all’altro – beh lì lo uccidiamo e uccidiamo la nostra relazione con lui. Gli spegniamo la fonte zampillante del suo cuore, mettendoci sopra la pietra delle nostre buone ragioni…
Ecco – invece Gesù – da vivo, da morto e da risorto proclama sempre (non solo a parole, ma con le decisioni concrete della sua libertà) che è sempre più importante la faccia dell’altro, cha abbia lo spazio per ricostruirsi, che noi gli facciamo questo spazio, che gli ri-creiamo quelle possibilità di Vita, che magari lui stesso da solo ha rovinato…
E a ben guardare è la stessa cosa che fa con quel rompimento di Tommaso: al quale concede tutto, gli va dietro in tutto, pur di ricostruirgli intorno – intorno alla sua intransigenza («Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo») – la possibilità di un ri-allacciamento della relazione.
È questo il compito di ciascun cristiano e della Chiesa tutta: avere pazientemente il coraggio di mettersi lì a ricreare per tutti la possibilità della Vita.

sabato 3 aprile 2010

…ma Dio lo ha risuscitato …e ci ha ordinato di annunciarlo al popolo!

ormai, dunque, poiché è risorto, da lui dipende tutto ciò che ogni uomo (tutta l’umanità) va cercando con sempre più angoscia e consapevolezza della propria precarietà: questa è la testimonianza dei suoi amici e discepoli! Da lui dipende la vita e la morte (egli è il giudice dei vivi e dei morti) – e il recupero della fiducia in sé e nel futuro, perchè dal riferimento costante e vitale alla sua avventura umana, scaturisce la pacificazione con il male proprio e del mondo (chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome). Questo è il mistero della risurrezione, al centro della fede che abbiamo ricevuto. Non una fiaba commovente per sfuggire dalla durezza e insignificanza di una vita impotente di fronte all’incombere della morte, ma la chiamata a credere e vivere il mistero di Cristo e della sua vittoria sulla morte, come qualcosa che ci concerne, perché dalla morte e risurrezione di Cristo vengono a noi quelle energie che intessono il nostro destino di coscienze risvegliate e inquiete, che vogliono raggiungere la pienezza della vita. Anche a noi, come gli apostoli, ci prende il dubbio o la paura che si tratti di accorati vaneggiamenti come capitò alle donne, sconvolte di fronte alla tomba vuota – un amore irrepetibile, perso per sempre! Il mistero della risurrezione ci è trasmesso circondato da debolezza e fragilità … e la risurrezione si fa ‘certa’ e percepibile solo attraverso testimonianze di apparizioni riservate a coloro che Dio ha chiamato (a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti ). Mentre la crocifissione e la morte erano fatti evidenti a tutti e irrefutabili, qui si entra in un nuova qualità di rapporti, in cui la relazione tra il fatto e la coscienza non ha più niente di così evidente o di cogente. Chi ha visto il Risorto? Non tutti quelli che passavano, come sotto la croce, ma solo testimoni prescelti. Dunque la risurrezione si presenta sotto la forma di una chiamata di alcuni a vedere che Dio ha vinto le potenze di morte coalizzate per uccidere il giusto liberandolo dalla tomba. Non si entra in questa sfera (propria della fede) né si convincono gli altri con argomentazioni costringenti. Si possono dimostrare storicamente molti tratti della vita e dell’insegnamento di Gesù di Nazareth, ma la risurrezione non ha dimostrazioni di tale evidenza che uno sia costretto razionalmente a crederci.
Perché Dio è così riservato e reticente sul fatto centrale della rivelazione cristiana? Non è un miracolo tra i tanti, ma il fondamento della fede, come già asseriva Paolo: se Cristo non è risorto vana è la nostra fede! Ma proprio quello che è essenziale nell’atto di fede non può essere frutto di evidenza cogente. Non si tratta infatti di un rapporto di conoscenza intellettuale, ma di coinvolgimento vitale. La costrizione dell’evidenza annullerebbe le dinamiche dell’amore, che può nascere soltanto dall’incontro sempre più compromettente di due libertà che si affidano reciprocamente la vita … Credere, infatti, non vuol dire aderire semplicemente a fatti avvenuti o a verità proclamate nel ‘credo’. Ci induce ad un coinvolgimento della persona credente attraverso un cammino di comprensione, di adesione e di affidamento che coinvolge il senso e l’orientamento della vita intera. Per introdursi in questo cammino o prendere vera consapevolezza di questa “conoscenza” di Gesù di Nazareth, occorre aver fatto una scelta preliminare: si tratta di cambiare la visione di sé e del mondo e l’impostazione delle proprie attese dall’esistenza. Bisogna anzitutto aver incontrato o riscoperto il Signore come centro di riferimento della propria vita. E ancor prima, aver messo a nudo (l’ha fatto o lo farà presto la vita, se non ci intontiamo!) le caverne che si sono scavate dentro di noi e dentro la gente con cui viviamo, dove vibrano e patiscono e domandano inutilmente ascolto le sofferenze e le impotenze del mondo, a cominciare dai più deboli e più piccoli. Allora la risurrezione appare non come eventuale riserva estrema di salvezza “per me”, se tutto va male di qua, ma come il dato fondamentale di senso o non senso della fede: colui che è stato crocifisso, per la sua radicale fedeltà all’amore di Dio e dell’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi! Questo nucleo di fuoco della fede accomuna tutte le prime chiese in una sola comunione. Anche Paolo che ha approfondito questo mistero come nessun altro, è cosciente che trasmette ciò che a sua volta ha ricevuto dai testimoni primi: sia io che loro così predichiamo (1Cor 15,11)!
Credere nella risurrezione del crocifisso, nel concreto dei giorni, vuol dire anzitutto aver capito che il messaggio delle beatitudini è vero – e si è realizzato in Gesù di Nazareth, che l’ha trasmesso a noi! Comporta di vivere nella storia sotto lo sguardo di misericordia del Padre, pienamente consegnati a lui e al suo Regno – come orizzonte di senso e attitudine di vita! Ma questo richiede anche di fidarsi dei “testimoni” che l’hanno conosciuto e sono stati con lui, sui quali questa fede è fondata e trasmessa fino a noi, per metterci in contatto con la Parola di Dio che si è manifestata negli eventi di salvezza e nelle Scritture che li raccontano. Infine (è il terzo passo) la fede si vive e comunica ecclesialmente – cioè comunitariamente – di fronte e in mezzo alla gente, nonostante le innumerevoli difficoltà esterne ed interne – perché la comunicazione reciproca e la comunione dei credenti in Cristo è essenziale alla dinamica di maturazione e trasmissione della fede stessa (è trinitaria – cioè ‘divinamente’ relazionale!).
La novità della risurrezione si sintetizza dunque nel fatto che Gesù è elevato dall’umiltà della sua esistenza mortale, per il suo totale affidamento al Padre, strappato alla morte che non poteva tenerlo incatenato, viene costituito figlio di Dio “con potenza”. Può dire quindi agli apostoli che l’avevano visto sconfitto e perciò l’avevano abbandonato: A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,18s). Da qui è cominciato l’annuncio del Vangelo per tutti i popoli lungo i secoli … fino a noi. La resurrezione non è annunciata come fosse uno straordinario fenomeno che riguarda solo Gesù / individuo, ucciso e resuscitato nel suo corpo e ora assiso alla destra di Dio, dove ci aspetta. Credere che è risorto vuol dire invece che Egli è divenuto principio di nuova creazione (il nuovo Adamo), inscindibile da noi, che organicamente facciamo una cosa sola con lui – noi, a livello non ancora manifesto, ma inedito, nascosto – eppure determinante per la nostra vita e il futuro del mondo! “Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede (le forze spirituali introdotte da Cristo nelle coscienze) perché possiate esser radicati nell’amore (nella partecipazione alla vita, alla luce, al fuoco che Cristo ha donato all’uomo) (Ef 3,17). “L’idea fondamentale dell’esperienza del cristianesimo “vissuto” è quella del Cristo interiore: quando si tratta di Cristo è di me stesso che si tratta, di Cristo che abita nei nostri cuori come forza trasfìguratrice. Questa certezza, raggiunta per una mutazione di coscienza, rende comprensibili alcune espressioni del primo cristianesimo: «Non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20) … Cristo, la Parola incarnata, è la Persona in sé, l’Uomo interiore, il nostro vero Io. Nella prospettiva di questa possibile esperienza di fede, cerchiamo di penetrare, per quanto le insufficienti parole umane lo permettano, nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo”. (Vannucci).
Morire è necessario per risorgere, ma questo non vuol dire che la carne deve sparire – perché non è spirito. Niente è più potente in noi, lasciati a noi stessi, della carne, nulla più vincolante della carne. Pensiamo di fare la nostra volontà, invece noi siamo incatenati ai comandi dello stomaco, del sangue, del sesso, dei nervi, delle voglie ormonali e degli equilibri o squilibri psichici – soggiogati e tormentati, infine, della angoscia dell’io di non essere amato. Fintanto che eseguiamo gli ordini dell’organismo, esistiamo come un dato di natura, con poche briciole di libertà … poca capacità di resistere e governare queste necessità” rivestite di razionalità. “E allora non siamo né tenebra né luce, né bene né male, né verità né menzogna. Quando invece orientiamo le energie della nostra tremenda natura verso la consapevolezza che lo Spirito di Gesù è presente, diffuso nei nostri cuori – e perciò possiamo vivere insieme con lui, a noi per sempre contemporaneo, l’avventura di morire insieme, essere insieme con lui sepolti e insieme risuscitare nei nostri corpi mortali, allora la carne, il sangue, i nervi, le velleità non dominano più e veniamo a conoscere quello che nella realtà siamo: terra perché nati dalla terra, spirito perché nati dallo spirito, e perché tali chiamati a trasfigurare la terra in una pienezza di luce e di vita” (id).
Nel profondo dell’essere nostro, laddove il cuore osa far sentire il suo palpito, dove siamo soli, più soli di ogni solitudine, sentir ascendere la vita nel profondo abisso della morte, e vivere totalmente in questa realtà, comprendendo che essa sola ha un significato.
Penetra nelle nostre idee di razza, di popolo, di patria, di religione, e brucia i loro elementi caduchi ed egoisti, per far brillare la visione dell’Uomo vero, dell’uomo eterno non più vincolato a mète terrene, ma in cammino verso la vita senza fine, ove l’uomo finalmente si sentirà figlio di Dio. Avvicina le nostre tradizioni venerabili e plurisecolari, e vi risveglia un’inquietudine di vita e di verità che farà dileguare tutto ciò che in esse è sorpassato e morto.
Le opere della carne nella carne si esteriorizzano, le opere dello spirito nello spirito si sublimano. Se nella carne, nel perenne gioco della vita che fluisce, c’è una perennità di mutazioni, questa non può esistere nello spirito. Ogni avanzamento nello spirito è una conquista da cui non possiamo tornare indietro; i ponti e le navi sono bruciati. Sempre oltre, la gloria della risurrezione è continua, la sua animazione è costante.
è possibile la morte che precede la risurrezione, allora moriamo e risorgiamo. Molti sono i modi di morire, uno solo in verità costituisce il preambolo alla risurrezione: la morte del rinnegamento di se stessi, cioè del proprio io egoistico! Questa morte ci inserisce nella corrente della risurrezione, nella rivelazione consustanziale che ci rende una sola realtà, mediante l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria

Il tessuto dell’esistenza è composto dalla perenne lotta tra la morte e la vita; la vita che invade i campi devastati e li rende nuovamente fecondi, la morte che si adagia sui nuovi virgulti e lentamente li estingue. Questo su tutti i piani dell’esistenza: la pianta vive e muore, nel seme riprende il suo ciclo vitale; l’animale vive e muore, nella generazione la sua vita continua; la mente vive nei pensieri, i pensieri vengono spenti dalla ripetizione, riprendono vigore in nuove formulazioni; il cuore vive nei sentimenti, a loro volta questi vengono usurati dall’abitudine, e riprendono vita quando appaiono nuove visioni, nuovi ideali. Le creazioni dell’uomo, dopo un tempo di intensità, si affievoliscono, e ciò che prima era stata l’attuazione di grandi speranze, si trasforma in rattristanti istituzioni, finché non vengano rianimate da nuovi e più intensi ideali – destinasti pure loro a cedere all’onnipotenza della corrosione e della morte. Qui si inserisce il mistero della risurrezione di Cristo (dell’uomo nuovo – cioè di cristo e di noi! Risuscitato – ricreato dalla potenza di Dio) come dice Paolo:. Se prima non si muore non si può risorgere, non vi è risurrezione senza morte, come non esiste riscatto senza schiavitù, luce senza tenebre, bene senza male. Per vivere la Risurrezione è necessario morire, chi non muore non risorgerà. Possiamo celebrare la Risurrezione in due maniere: o
L’evento della morte-risurrezione di Gesù Cristo si rivelerà l’inizio di un immenso movimento ascensionale di un imperativo creatore che ci impone la necessità di accettare la nostra vita e la nostra morte positivamente, l’ascesi di tutto l’essere nostro personale per integrare e sublimare ogni energia, per intensificare la vita della coscienza, che farà passare l’uomo e il suo universo nella pienezza della luce della risurrezione.

Trovarono la pietra rotolata via
la prima scoperta del giorno di Pasqua è la tomba vuota. Cosa vorrà dire? se la porta della tomba si è spalancata, il morto dov’è finito? Infatti le donne, scrive Luca, “si trovano senza via d’uscita…” : letteralmente “erano in aporia” (senza soluzione, senza senso: come una vita… la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato? Gb 3,23). È importante capire cosa Luca vuole mettere in rilievo, perché questa è la condizione di ogni uomo di fronte al problema della morte: “non c’è via d’uscita”. Per ogni uomo, è come un anticipo personale dell’angoscia sul senso finale del mondo e della storia in cui viviamo: “…vi saranno sulla terra angoscia – aporìa! – di popoli senza scampo… e gli uomini tramortiranno per la paura di quanto incombe sull’universo! Lc 21,25. Lo sgomento della tomba vuota non è certo una prova della risurrezione, non è la fede pasquale… ma è una condizione previa, per domandarci : cosa è successo? Le donne sono poste di fronte al problema della sorte … del loro straordinario amico. Straordinario, anche, che siano proprio le donne (la cui testimonianza non aveva nessun valore nella cultura e nel diritto giudaico) ad essere testimoni di questa situazione assolutamente nuova.
Sta nascendo la fede cristiana, … la fede nella resurrezione di Gesù, il crocifisso! E nasce in modo debole, fragile, affidata al cuore abbagliato dalla possibilità impensata che l’amato sia ancora vivo … e sente nascere dentro di sé uno sbilanciamento, trepidante e incerto ancora, ma ormai avviato a lasciarsi prendere tutta la vita. La passione e la morte erano visibili ed evidenti. Ma la resurrezione è fondata su fatti ed esperienze non a disposizione di tutti, non cogenti, non costrittive. Anzi, riservata ad un ristretto gruppo misteriosamente privilegiato. La resurrezione si manifesta, infatti, in base ad una scelta di Dio, non dell’uomo. Non è l’esito di un ragionamento o di un’autoconvizione. È Dio che chiama i testimoni “prescelti”… e, secondo un metodo suo proprio, evidente nei vangeli, sceglie come testimoni proprio quelli che nella cultura del tempo non possono esserlo, cominciando, appunto, dalle donne. Perché si tratta di una testimonianza assolutamente nuova – di una sfera di relazioni nuove…
Ecco subito… “due uomini”: per suffragare e rendere plausibile la loro testimonianza, come le Scritture e la tradizione volevano! Due “annunciatori” sfolgoranti, come Gesù nella trasfigurazione, che ribattono alla domanda di senso sulla tomba vuota: perché cercate il Vivente con i morti? É la provocazione più caustica, perché denuda la rassegnazione delle donne alla morte definitiva e irrimediabile di Gesù, che dovrebbe essere “insieme” a tutti i morti. Ogni illusione umana finisce così… in questo: “non è qui!” Neanche nella tomba! (Anche Maria di Magdala cadrà in questo equivoco disperato: dimmi dov’è, e andrò a prenderlo!). Per quanto ci riguarda, presto o tardi anche le tombe si svuotano nella consunzione di ciò che gli uomini, con dolore e paura, vi hanno posto! E la terra divora ogni vita. (“se non vedo il mio Dio, o natura splendente, sei una tomba immensa, per me non sei niente!... scriveva in una poesia S. Teresa di Lisieux).
… è risorto
!
Questo è l’incredibile annuncio pasquale, il nucleo portante della nostra fede! Tanto incredibile e misterioso per noi, come per loro, pur in qualche modo, testimoni oculari. In questo momento, infatti, le donne non vedono Gesù risorto. In nessun modo era comprensibile quando aveva pure più volte predetto, che un morto risuscitasse. Adesso, di fronte alla tomba vuota intuiscono cosa volesse dire Gesù, proprio perché gli “annunciatori” li richiamano ai passi essenziali della fede: “ricordate come vi parlò … quando era ancora in Galilea… che il Figlio dell’uomo doveva essere consegnato… crocifisso… e risorgere!” – E si ricordarono delle sue parole. Dunque le donne erano con Gesù, erano testimoni della sua predicazione, soprattutto della sua preannunciata passione e morte, ma non avevano capito nulla di quanto riguardava la risurrezione. E corrono subito a trasmettere questo annuncio ai loro compagni, come vere apostole… Ma sono accolte come visionarie.
… e non credevano loroPietro e gli altri apostoli non si fidano delle donne, ma dovranno anche loro fare lo stesso cammino che le donne hanno fatto per prime. La barriera che oscura la fede (l’aporia) è inevitabile e ci sbarra il cammino che tutti (anche noi!) dobbiamo rifare ad ogni tornante della vita, dall’incredulità all’affidamento di sé. Lo si fa tornando a Gesù! Occorre fare memoria (ricordate!?...) della sua vicenda, considerare la sua storia a partire dalla sua fine (passione, morte e risurrezione), assumere la chiave di lettura che lui stesso ha usato, per capire e donare la propria vita, come chiave di lettura anche della nostra vita, per imparare a fare come lui. Cioè “cogliere” il significato profondo (il logos di Giovanni) della nostra vita e della storia del mondo. La risurrezione è l’esito finale di un percorso che ha segnato a morte la vita di Gesù, come dono di sé. Non si può separare la risurrezione dalla vita di Gesù e dal suo vangelo. Ecco perché la fede non può essere l’esito di una dimostrazione argomentativa o razionale, ma è una questione che coinvolge le radici e la destinazione dell’esistenza, dove l’uomo cerca, ama e si dona… nel complesso e trepidante gioco di componenti interiori che fanno “la libertà” – la fragile libertà umana, chiamata ad incontrarsi con un’altra libertà… quella di chi ci ha “pre/scelti”, in Gesù – per la salvezza nostra e di tutti. E in questo approccio, Dio è rispettoso, timido, paziente e infinitamente misericordioso.
Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret…Gesù per primo ha giocato questa libertà umana in dialogo fiducioso (e talora difficile: con forti grida e lacrime!) con suo Padre. Non si è sottomesso alla paura e alle minacce di morte… ma subendole, senza tradire la verità e l’amore, le ha vinte. Perciò “Dio lo ha costituito giudice dei vivi e dei morti”… come annuncia Pietro. I Giudei… lo uccisero, appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno … La resurrezione di Gesù non è la rivitalizzazione di un cadavere, ma un giudizio sul mondo e sulla morte. Toglie alla morte il pungiglione che avvelena l’umanità. Il condannato crocifisso con i malfattori è risorto giudice. È questa la risposta, la sfida di Dio alla imperante logica umana di morte, paura, oppressione e perdizione – del debole prima, ma poi di tutti gli uomini. È il capovolgimento addirittura della creazione – dove tutto è destinato alla consunzione! La nostra drammatica vicenda umana ci spinge in un tunnel senza uscita: un’aporia! La risurrezione è davvero incredibile! Ecco perché, secondo i Vangeli, alla morte di Cristo tutta la creazione ha sussultato: il sole, il buio, le rocce, il terremoto, i morti nelle tombe, il velo del tempio, la gente, il centurione e il ladrone … capiscono che sta succedendo qualcosa di oltreumano. Da allora, fin adesso… “…la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio;… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8,19ss).
“voi siete morti, infatti, e la vostra vita è nascosta con Cristo, in Dio”!… il motivo per cui possiamo morire in Cristo è che noi, agli occhi di Dio, siamo già con/resuscitati in lui. “mortificate dunque immoralità, passioni, desideri cattivi… e rivestitevi di tenerezza bontà, umiltà, mansuetudine…”. Questo nostro cammino di morte alla logica mondana e di vita nuova fa parte del FATTO cristiano – cioè della resurrezione di Gesù. E la Parola ne è l’annuncio – e l’Eucaristia la dose di veleno quotidiano! Questo paradosso è il seme esplosivo della nostra risurrezione! cfr, in un contesto più ampio, Rom 8,10ss :“Se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto, a causa del peccato, ma lo spirito è vita, a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.

giovedì 1 aprile 2010

La Pasqua di Gesù, uno che mangia e dorme

In questa domenica di Pasqua, il giorno più importante per i cristiani, la Chiesa ci propone tre bellissimi testi: At 10,34.37-43; Col 3,1-4 e Gv 20,1-9.
Innanzitutto il vangelo: il racconto riprende esattamente là dove lo avevamo lasciato la domenica delle palme (la sepoltura) e dove la liturgia del Triduo ci ha fatto più volte ritornare: Gesù muore di venerdì e quello stesso giorno viene sepolto in tutta fretta, perché il giorno seguente era sabato, giorno sacro per gli ebrei, in cui le donne e i discepoli «osservarono il riposo come era prescritto» (Lc 23,56). «Il primo giorno della settimana» – la domenica – invece «Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio» (Gv 20,1). Cioè, appena cessata la prescrizione sabbatica, Maria va da Gesù; meglio: dal suo corpo morto.
Sarebbe molto interessante riflettere su questo dato incontrovertibile del vangelo: sono le donne ad andare per prime al sepolcro di Gesù e ci vanno per prendersi cura del suo corpo morto; tutti e quattro gli evangelisti lo sottolineano. Certo in gioco vi sono gli usi e costumi ebraici del tempo, ma questo fatto non deve essere irrilevante per il lettore: a fronte degli apostoli nascosti (nei quali prevale la paura: non sono stati loro nemmeno ad andare a richiedere il corpo di Gesù a Pilato, ma Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, due discepoli dell’ultim’ora), le donne escono alla scoperto (vincono le paure) e vanno da un corpo morto. Scenograficamente è come se – dopo la morte di Gesù – tutti i suoi e le sue fossero rintanati in qualche nascondiglio silenzioso, tramortiti dal dolore e bloccati dal terrore. Ecco, da qui, dopo che un grande silenzio avvolge il tutto e la telecamera inquadra una città deserta, a far capolino da quelle tane in cui si erano ritirati, non sono i discepoli, ma delle donne, armate di oli e unguenti e determinate a rimanere attaccate all’ultimo pezzo del loro Signore che gli era rimasto: il suo corpo morto.
Interessante: rischiano la vita per un cadavere… A testimonianza imperitura che quando una donna ama, diventa atea: nessuna legge sovrasta quell’amore, nessun dio, nessuna paura può normarne il cuore. Quel cadavere infatti non è un cadavere qualsiasi: quello è l’ultimo brandello di carne dell’amato; morto, ma visibile; muto, ma a cui ci si può ancora rivolgere; immobile, ma ancora accarezzabile; freddo, ma cui si può ancora regalare il calore di un bacio.

E ancora più strepitoso è il fatto che Giovanni riduce il numero delle donne alla sola Maria di Magdala (la sua Maria): quella stessa che qualche versetto dopo, per prima (e senza nessuno scrupolo di discriminare gli altri) incontrerà il Signore risorto, il suo Maestro. Con buona pace di tutti quelli che sentono il bisogno di ricordarci ogni due per tre che Gesù era casto, celibe, vergine, ecc… che son cose vere, ma che spesso fanno passare Gesù come un ectoplasma cosmico, incorporeo e fantasmico, quasi inconsistente, di certo poco umano. Lo straordinario di Gesù è invece che in Lui finalmente il Dio dell’AT «si scioglie nell’assoluta intimità di un uomo col quale si può passeggiare lungo il mare e bere un whisky». Se infatti noi non abbiamo nessuna possibilità di costruire il Regno di Dio che guardando a Cristo, bisognerà pure che lo guardiamo! «Soltanto che bisogna guardare a Cristo in un mettere a fuoco che non sfuoca […]. Qui Ignazio è forte, quando dice: “Guardate a Cristo”. Tutti gli esercizi di Ignazio sono: “Guardate a Cristo”. Però dovremmo essere più ignaziani di Ignazio e cioè dire: “Ma lui come beveva? Come camminava? Come dormiva? E come guardava le donne? Come sognava? Come mangiava?”. I vangeli dicono delle cose. La santità infatti è in relazione al modo di mangiare, di baciare, di camminare, di guardare il cielo, non è che sia un’altra roba. […] Per questo è importante che Gesù sia una persona storica e non sia l’idealizzazione di un modello: perché se è l’idealizzazione di un modello hanno ragione quelli che dicono che è una contromossa della psiche (idealizzo l’ideale, che è una parola che non a caso è così vicina alla parola “idolo”). Invece di fronte a Gesù, tu non sei in presenza di un ideale, sei in presenza di uno che mangia e dorme […]. Per quello dico: bisogna guardare a Lui. Come sta con le donne, poi si può fare tutta una fenomenologia delle cose […]: mangia, si fa toccare dalle donne, tocca. Ricordo un prete che una volta mi diceva: “Silvano, a me in seminario hanno detto: ‘Non toccare, non farti toccare, non toccarti’”. Però Gesù non fa altro che toccare: sputa, fa… tocca, si fa toccare da donne, prostitute, bambini, malati…» [tratto da una conferenza di Silvano Petrosino].
In quest’ottica, forse, si capiscono molto meglio gli stati d’animo con cui Maria va al sepolcro.
Solo che quando ci arriva «vide che la pietra era stata tolta. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”». Maria non interpreta immediatamente il sepolcro vuoto come un indizio della risurrezione. Siamo noi ad aver dato questo significato a quel simbolo. Per lei è soltanto l’ultima espropriazione: anche quel brandello di carne di Gesù rimastole, le è stato tolto. Tant’è che quando ricomparirà nel racconto (qui infatti lascia la scena a Pietro e al discepolo amato), la ritroveremo ancora disperata: «Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. (Gv 20,11-15).
Nel frattempo però, i due discepoli “più importanti” del Vangelo di Giovanni, Pietro e il discepolo amato, sono andati al sepolcro, tirati fuori dal loro nascondiglio da una donna (e anche qui la finezza con cui l’evangelista legge le dinamiche umane è strepitosa), svegliati a tal punto che ormai corrono. Giunti sul luogo, essi a differenza di Maria, entrano, uno dopo l’altro, nel sepolcro: prima Pietro, che pure era arrivato per secondo, e poi il discepolo amato. Anche in questo correre insieme, superarsi, aspettarsi c’è molto di ciò che abita i cuori di questi uomini e – attraverso loro – i cuori degli uomini di tutti i tempi: le paure, le trepidazioni, le speranze. Dopo tutto quello che avevano vissuto in quegli ultimi giorni, chissà che cosa pensavano mentre correvano?
E poi c’è il finale di questo brano: dopo la descrizione di ciò che trovano nel sepolcro (teli posati, sudario) e soprattutto di ciò che non trovano (non c’è il corpo di Gesù) si dice quasi contemporaneamente «l’altro discepolo vide e credette», «infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Ma se non avevano ancora compreso che doveva risorgere dai morti, in cosa credette l’altro discepolo?
La domanda sorge solo se ci si ostina in una lettura troppo cerebrale del vangelo e non si fa invece lo sforzo di farsi prendere per le viscere, di tentare cioè un’immedesimazione nei vari personaggi, dove allora il punto non è il contenuto oggettivo di un credo, ma è il ripetersi interiore dello squarciamento del velo del tempio: come quello non era solo un lenzuolo strappato, questo non è solo un sepolcro vuoto; senza ancora dire – come faranno giustamente poi – che il velo del tempio squarciato voleva dire che era annullata la distanza tra Dio e l’uomo o che il sepolcro vuoto voleva dire che Gesù era risorto…
Non sanno ancora che Gesù è risorto, ma dentro gli si è girato qualcosa: «vide e credette».
E precisamente questo giramento interiore sono le “cose di lassù” che Paolo invita i Colossesi a cercare. Infatti, anche se la nostra cultura e formazione cattolica ci porterebbe a pensare la dicotomia “cose di lassù” / “cose della terra” come se si trattasse di anima / corpo, soprannaturale / naturale, spirituale / carnale, o più esplicitamente sesso / castità, in realtà Paolo sta parlando, paradossalmente (per noi, non ancora girati dentro) del contrario, cioè di come abitare l’aldiqua in prospettiva cristica, abitando davvero l’amore, guardando davvero a Gesù che mangia e dorme e tocca e si fa toccare; dice infatti: «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre precetti quali: “Non prendere, non gustare, non toccare”? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-21, che sono i versetti immediatamente successivi alla nostra seconda lettura). «Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo ha creato. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto» (Col 3,9-10.12-14).
Che è la stessa scoperta di Pietro, che fa il discorso che riporta la prima lettura in casa di Cornelio, il centurione pagano, a cui aveva detto poco prima: «Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo» (At 10,28), che esso sia donna, immigrato, malato, anziano, colpevole, diverso…

venerdì 26 marzo 2010

Passione di nostro Signore Ges Cristo secondo Luca

Come di consueto, anche quest’anno durante la domenica delle Palme, si legge il racconto della passione e morte di Gesù. A differenza però degli altri anni e del modo consueto di commentare le letture delle domeniche dell’anno liturgico, quest’anno preferisco lasciare ampio spazio al testo. Anche perché esso non ha bisogno di nessuna aggiunta e – dopo la sua lettura per intero (che consiglio vivamente a tutti) – non lascia spazio che ad un denso silenzio. Mi permetto allora semplicemente di mettere – nel testo – i passaggi che più di tutti a me, oggi, paiono significativi, quelli che più di tutti fanno vibrare le mie corde interiori, così, proprio per far posto – qualche volta – più alla pancia che alla testa.

Dal libro del profeta Isaìa (Is 50,4-7)
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (Fil 2,6-11)
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca (Lc 22,14-23,56)
Quando venne l’ora, [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi».

Anche se forse non tutti saranno d’accordo… leggendo questo testo mi è capitato più di una volta di immaginare la medesima situazione di Gesù e dei discepoli all’ultima cena, riadattandola con i personaggi della mia vita, con le persone che amo o, addirittura, come se fossi io a pronunciare le parole di Gesù.
Forse non tutti saranno d’accordo, perché – insomma – non si fa… Chi può avere l’ardire di mettersi nei panni di Gesù e pensare di riuscire a vestirli? Chi può mettere al posto di Gesù qualcuno che ama, senza scadere nell’idolatria? Ecc…
Eppure, se è vero che la conoscenza di Lui, l’incontro con Lui e l’amore per Lui non può avvenire che in maniera mediata (dalla storia, dal volto degli altri, dalla struttura antropologica dell’amare, del pensare, del decidere, ecc…), allora forse il tentativo – magari un po’ infantile – di immedesimazione, fa comprendere molto bene le dinamiche affettive in gioco in quei terribili momenti: la consapevolezza dell’imminente morte, la paura di morire, il dramma del lasciare chi si ama… e dentro lì, la scelta di morire donandosi…
E dal punto di vista dei discepoli: l’incomprensione, la paura, l’annientamento del futuro, l’orrore della solitudine…
E la domanda: Perché se metto qualcuno che amo al posto di Gesù o se mi metto io stessa, lasciando i miei amati nel ruolo dei discepoli, mi si agghiacciano di angoscia le interiora e mi sale il magone del terrore in gola, mentre se non faccio questa associazione, mi sembra solo il racconto scontato – perché mille volte già ascoltato – del superuomo Gesù, molto più ectoplasma cosmico, che uomo da amare come gli altri!?!??



«Ma ecco, la mano di colui che mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell’uomo se ne va, secondo quanto è stabilito, ma guai a quell’uomo dal quale egli viene tradito!». Allora essi cominciarono a domandarsi l’un l’altro chi di loro avrebbe fatto questo. E nacque tra loro anche una discussione: chi di loro fosse da considerare più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.

Luca colloca a questo punto la discussione su chi fosse da considerarsi più grande… Agghiacciante che la collochi proprio qui… Segno forte della solitudine di Gesù, non ancora a livello concreto (ha ancora intorno i suoi), ma indubbiamente esistenziale: solo Lui infatti sta capendo bene ciò che accade. E solo Lui, dentro agli eventi, mantiene quella lucidità che ridà ai fatti il significato autentico, continuamente falsato da tutti gli altri attori in scena (qui e fino alla fine) e rivela un’incommensurabile capacità leggere in trasparenza le dinamiche umane.
«Voi però non fate così»...


Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi».

Anche Pietro fa una lettura falsata della realtà… addirittura una lettura falsata di se stesso… che Gesù, senza giudizio né rimprovero, semplicemente smonta, per riportarlo alla carne e al sangue… molto più veri di tanti nostri propositi… Perché è molto più vera la paura, che la baldanza; la trepidazione, che l’ostentata sicurezza… siamo molto più un grumo di sangue impaurito, che dei valorosi combattenti indomiti.
Ma la cosa interessante è che mentre noi passiamo una vita a cercare di nascondere a noi stessi e agli altri questa verità, Gesù la vede da sempre e non se ne fa proprio problema. Anzi… La guarda con trasparenza e naturalezza, benevolenza e fiducia: quel grumo di sangue impaurito è il suo grumo di sangue impaurito! E sarà sapere questo (questo suo sguardo, questo suo amore) che renderà quel grumo di sangue impaurito – che pure resterà un grumo di sangue impaurito – così libero da saper davvero a sua volta amare fino a dare la vita!


Poi disse loro: «Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra gli empi”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli disse: «Basta!». Uscì e andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro circa un tiro di sasso, cadde in ginocchio e pregava dicendo: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: «Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».

Cade in ginocchio, il suo sudore diventa come gocce di sangue che cadono a terra… c’è una lotta… è la fatica, tutta umana di Gesù di tirar dietro al suo cuore, alla sua mente, alla sua “determinata determinazione” («non sia fatta la mia, ma la tua volontà») anche la sua carne, il desiderio di vita che si sprigiona da ogni sua fibra, la paura di morire che corre lungo le sue midolla, il terrore del nulla che gela le sue viscere…
È così che Dio agisce nella storia! Nella lotta, tutta sudore e sangue, di una libertà che si decide per Lui, per l’amore, per la vita degli altri, per il primato dell’uomo! Il resto è coreografia folkloristica (spesso di cattivo gusto)…


Mentre ancora egli parlava, ecco giungere una folla; colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, li precedeva e si avvicinò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate! Basta così!». E, toccandogli l’orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che erano venuti contro di lui, capi dei sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Come se fossi un ladro siete venuti con spade e bastoni. Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me; ma questa è l’ora vostra e il potere delle tenebre».

«Come se fossi un ladro…»: la grande menzogna… Mentre tutti si costruiscono la verità (il “come se”), Gesù riporta sempre all’autenticità della realtà (al “come è”)...
L’uomo infatti ha bisogno di mentire, di falsare, di mascherarsi… altrimenti non rimarrebbe di lui che un grumo di sangue impaurito… che nessuno degnerebbe di uno sguardo, che nessuno terrebbe in alcuna considerazione… a cui nessuno riconoscerebbe una qualche autorità, o a cui darebbe un qualche potere… che nessuno dunque ammirerebbe, stimerebbe e amerebbe…
La trasparenza dello sguardo di Gesù si fonda invece sull’incontrovertibile onorabilità del grumo di sangue. E della sua verità. Questi è l’uomo. Questi è la creatura di Dio. Questi è chi Lui ama.


Dopo averlo catturato, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno; anche Pietro sedette in mezzo a loro. Una giovane serva lo vide seduto vicino al fuoco e, guardandolo attentamente, disse: «Anche questi era con lui». Ma egli negò dicendo: «O donna, non lo conosco!». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei uno di loro!». Ma Pietro rispose: «O uomo, non lo sono!». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questi era con lui; infatti è Galileo». Ma Pietro disse: «O uomo, non so quello che dici». E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

Pietro è l’emblema di questo ritorno alla realtà… Per lui basta uno sguardo… Dopo la grande menzogna, dopo l’invenzione della verità, dopo la maschera, gli occhi dell’amico lo riportano a chi lui è veramente… un grumo di sangue impaurito e mentitore per paura!
Ma la scoperta di Pietro è che – al contrario di quanto gli suggeriva la sua paura, per cui mostrarsi nella sua verità lo avrebbe condotto alla morte, alla non accettazione, al disprezzo, alla solitudine – lo sguardo di Gesù che lo vede per quello che è veramente, è sempre quello di chi lo ama, di chi da sempre lo vedeva come un tenero grumo di sangue, di chi lo tiene perché è suo!


E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?». E molte altre cose dicevano contro di lui, insultandolo. Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i capi dei sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al loro Sinedrio e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi». Rispose loro: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma d’ora in poi il Figlio dell’uomo siederà alla destra della potenza di Dio». Allora tutti dissero: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli rispose loro: «Voi stessi dite che io lo sono». E quelli dissero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? L’abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca». Tutta l’assemblea si alzò; lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che metteva in agitazione il nostro popolo, impediva di pagare tributi a Cesare e affermava di essere Cristo re». Pilato allora lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai capi dei sacerdoti e alla folla: «Non trovo in quest’uomo alcun motivo di condanna». Ma essi insistevano dicendo: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea, fino a qui». Udito ciò, Pilato domandò se quell’uomo era Galileo e, saputo che stava sotto l’autorità di Erode, lo rinviò a Erode, che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.
Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò, facendogli molte domande, ma egli non gli rispose nulla. Erano presenti anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, e insistevano nell’accusarlo. Allora anche Erode, con i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici tra loro; prima infatti tra loro vi era stata inimicizia.
Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate; e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «Togli di mezzo costui! Rimettici in libertà Barabba!». Questi era stato messo in prigione per una rivolta, scoppiata in città, e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita. Rimise in libertà colui che era stato messo in prigione per rivolta e omicidio, e che essi richiedevano, e consegnò Gesù al loro volere.

Pilato sa che Gesù è “una patata bollente”… e se ne vuole liberare. Ci prova con Erode… ricordando che Gesù è Galileo e che dunque Erode ne aveva l’autorità… Ma Erode glielo rimanda: non ha interesse per lui, quando si accorge che non ha niente del giullare di corte che coi suoi trucchetti fa divertire il pubblico… Pilato allora prova a tenere duro con i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo. Ma poi, la ragion di stato (quindi non una ragione vera, ma un’altra invenzione della verità, quella adatta a non far scoppiare una rivolta) prevale. E Gesù – nel teatro delle menzogne – diventa colpevole: condannato.

Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: “Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi!”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?».

Strepitoso in tutto questo orchestrare la menzogna, il commento lucidissimo di Gesù: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli»… La verità infatti, anche se non riconosciuta da alcuno, se non da Gesù solo, è che quegli uomini e quelle donne – e non lui – sono nell’errore. Non solo nell’errore di valutazione sulla colpevolezza o l’innocenza di Gesù, ma nell’errore della postura esistenziale.

Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori. Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.

Le tre cose che Luca fa dire a Gesù in croce sono insuperabili: lo sguardo trasparente sui suoi assassini («Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno»), a cui ridona la caratura umana di cui loro si stanno auto-privando; lo sguardo (la cura) al prossimo sofferente anche nel momento in cui lui stesso è il prossimo sofferente («Oggi con me sarai nel paradiso»), cui continua a guardare come si guarda ad un uomo, anche quando gli altri, la vita, lui stesso, lo hanno disumanizzato; e infine lo sguardo al Padre («Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»), guardato fino in fondo come Padre.
Fra tutti, solo Gesù vede la verità, solo i suoi occhi riconoscono i veri volti di ciascuno…


Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti, e le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, stavano da lontano a guardare tutto questo. Ed ecco, vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, buono e giusto. Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Era di Arimatèa, una città della Giudea, e aspettava il regno di Dio. Egli si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo come era prescritto.

E infine, quando ormai Gesù non può guardare più e non può più dirci la verità facendoci guardare la realtà coi suoi occhi, ecco che rispuntano i suoi e soprattutto le sue… le quali – piuttosto che nulla – vogliono almeno avere tra le mani il suo corpo (morto), in un atteggiamento tutto femminile che è quello della cura, della custodia, dell’“in-grembamento”…

Il mio augurio, all’inizio di questa settimana santa, in attesa della domenica di risurrezione, è di vivere un po’ questo “in-grembamento”.

giovedì 25 marzo 2010

25 marzo 2010 - In diretta dal Paladozza di Bologna

per vedere in diretta RAIPERUNANOTTE senza problemi di connessione potete vederla su RAINEUWS24

mercoledì 24 marzo 2010

Oscar Romero e il martirio continuo: massacro dei cecchini durante i funerali


Snipers from the National Army fire from the top of buildings during Romero's funeral in 1980 in the central San Salvador park. And yes, this is how OUR people suffered, thanks in part to the US' involvement in Salvadorian affairs! The US supported the then-bloodthirsty junta with financial aid and arms. They only stopped helping the Salvadorian junta after the 4 nuns were murdered, only to resume their aid a few days later. The US has been responsible for literally millions of deaths throughout the 20th century via illegal coups, establishing dictatorships in 3rd world countries and CIA-backed private wars. dall'Autore nella pagina del video
Grazie a Greg50 che ci ha ricordato l'anniversario del martirio di O. Romero

Né per caso, né per mano di Dio...

di Viviana Daloiso in Avvenire.it
Otto milioni di morti all’anno. Cinquemila bambini al giorno, uno ogni venti secondi. Nemmeno le guerre e le violenze che tormentano ogni angolo del Pianeta, messe tutte insieme, possono tanto. La mancanza d’acqua, sì. La tragedia silenziosa, che si lega a quella di risorse idriche non potabili – se non addirittura inquinate – si consuma lontano da telecamere e notiziari, ma è ormai letale quanto il più spietato dei virus.

I numeri del fenomeno, snocciolati dall’Onu in occasione della Giornata mondiale dell’acqua di ieri, fanno tremare. E non solo per i morti. Basti pensare che un abitante su due sulla Terra vive in case senza sistema fognario (circa tre miliardi di persone), uno su cinque non ha acqua potabile a sufficienza (oltre un miliardo), o che – tanto per fare un riferimento geografico – nell’Africa subsahariana fino a 250 milioni di persone rischiano di morire di sete.

Una situazione tanto insostenibile quanto l’abisso che separa il Sud del mondo dai Paesi più sviluppati. Dove, come ha ricordato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon presentando il rapporto dall’Unep, il programma sull’ambiente delle Nazioni Unite, «giorno dopo giorno si versano 2 miliardi di tonnellate di acque reflue non trattate e di rifiuti industriali agricoli nel sistema idrico mondiale, quando i poveri continuano a patire soprattutto a causa dell’inquinamento, della carenza idrica e della mancanza di igiene». Così, mentre la mancanza di acqua pulita nel Sud del mondo uccide ogni anno 1,8 milioni di bambini sotto i cinque anni d’età di tifo, colera, dissenteria e gastroenterite e la metà dei letti d’ospedale è occupata da pazienti che soffrono di malattie legate al consumo d’acqua contaminata, nei Paesi "ricchi" l’acqua abbonda e viene sprecata. Un cittadino americano ne ha a disposizione mediamente 425 litri al giorno (nemmeno uno in molti Paesi africani e asiatici), uno italiano 237.
Certo, l’emergenza "siccità", con la conseguente carenza d’acqua, negli ultimi anni si è affacciata anche in Occidente. È il caso dell’Europa dove, secondo dati diffusi da Bruxelles, tra il 1976 e il 2006 – anche a causa del surriscaldamento del Pianeta – almeno l’11% degli abitanti ha sofferto di carenza d’acqua, con un danno per l’economia di almeno 100 miliardi di euro. Tanto che l’altro allarme lanciato dall’Onu riguarda il futuro: nel 2030, stimano le Nazioni Unite, oltre 3 miliardi di persone rischiano di rimanere senz’acqua, con una pesantissima ricaduta anche sulla produzione agricola e alimentare, che nell’acqua trova il suo ingrediente essenziale.

L’Italia, pur essendo uno dei Paesi al mondo con maggiore disponibilità d’acqua, non se la cava meglio: al Sud e nelle isole il 15% della popolazione – ossia circa 8 milioni di persone – per quattro mesi all’anno (da giugno a settembre) è sotto la soglia del fabbisogno idrico minimo, fissato in 50 litri di acqua al giorno a persona. Senza contare il problema degli sprechi, della dispersione d’acqua (anche oltre il 30%, secondo il rapporto Onu, a causa delle reti idriche fatiscenti) e dei reati ambientali, sulla cui gravità non a caso ieri ha insistito anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. All’Accademia dei Lincei, in un convegno sulle frane e il dissesto idrogeologico, il capo dello Stato ha detto: «Occorre contrastare comportamenti di irresponsabile superficialità e ripetute violazioni delle norme poste a tutela del territorio, troppo spesso causa di danni irreparabili che depauperano l’ambiente e compromettono il delicato equilibrio dell’ecosistema, con effetti catastrofici, per le persone, per i loro beni, per l’intera nazione». E il pensiero va a un altro incubo legato all’acqua, stavolta tutto italiano.

martedì 23 marzo 2010

Soli!

Soli!
C’è un pensiero triste – triste come la morte – che spesso può attraversare la mente di un genitore: quello di non credere più alla possibilità di educare e di saper educare i propri figli.

Non c’è niente di peggio per un genitore, e non c’è niente di peggio per un educatore…

In quella grande istituzione anche “educativa” che è la Chiesa, questo è un cancro mortale che gli impedisce di essere Chiesa, missionaria, annunciatrice, di un volto nuovo di Dio…

Quando un genitore arriva a quel punto, o “scomunica” il figlio cacciandolo di casa, o lo denuncia ai carabinieri, per farlo “internare”. In ogni caso gli nasconde il suo volto.

Per alcuni può essere una extrema ratio… Dovrebbero chiamarla però extrema irratio in quanto figlia della disperazione. Sintomo che il dialogo tra educatore e educando si è interrotto da tempo e rivela l’incapacità dell’educatore di perderci di persona per ricomporlo. Di perderci la faccia!

Più che la scacciata del figlio, è la morte del padre, che il padre mette in atto! Perché uccide la speranza, l’unica “cosa” che ci tiene in vita: padri e figli. E uccidendola in sé, il padre la distrugge anche nel figlio!

Una non-paternità, la negazione stessa della propria maternità! Sottraendo il proprio sguardo, al figlio.

Qualcosa del genere accade da tempo in una “pastorale” della Chiesa italiana, in cui la “madre” delega al braccio potente della politica il suo compito di “custodire”, con-vertire, accogliere, dialogare, annunciare… Una Chiesa che chiede al potere secolare di aiutarla o almeno non ostacolarla è diversa da una Chiesa che chiede al potere secolare di sostituirsi alla sua missione educativa.

Chiedi a tutti di aiutarti ad esercitare al massimo il tuo ruolo di educatore, padre, madre, fratello, sorella, ma non delegare a nessuno il tuo essere padre, madre, fratello, sorella!

La legge contro l’aborto che lo limita a casi ben specifici è stata approvata nel lontano 22 maggio 1978 e confermata anche dai cattolici italiani che hanno respinto il doppio referendum che ne chiedeva in parte l’abrogazione (sia in senso permissivo, sia in senso restrittivo) il 17 maggio 1981.

E siamo ancora a quel punto? Ma non è questo il punto…

Affermare, anche indirettamente, come fa Bagnasco nella sua prolusione, che ci vuole un politico pro-life per impedire l’aborto, è un’aberrazione di una madre che ha paura di farsi madre. Che non crede più nelle proprie capacità di convinzione, di annuncio, di formazione delle coscienze… È una Chiesa che rinuncia a farsi missionaria parlando al “cuore” delle persone, prendendone veramente a “cuore” i destini. In tutti questi anni la Chiesa non ha convinto perché non ha parlato al cuore, e non ha parlato al cuore, perché per parlare al cuore, occorre veramente farsi carico delle angosce dell’altro e morirci, come ci muore una madre.

E allora si delega al rappresentante politico, al potere forte della legge e della giustizia il compito che le spetta come Madre.

Quando poi si parla di giustizialismo si sa che cosa si sta dicendo? Il vero giustizialismo non è forse la rinuncia ad essere fratello, sorella e madre? Le relazioni affettive sono sostituite da quelle “contrattuali” della legge! All’astrazione di una legge, che mai può tener conto della “fatica” nell’osservarla!

L’astrazione… si vede anche nel modo in cui si argomenta: dai principi primi ai i principi secondi… Prima viene la vita, dice Bagnasco, in ogni sua dimensione, soprattutto estrema, poi viene la l’oikonomos, la fatica di viverla…
Niente di più falso, niente di più astratto, niente di più antievangelico! Non a caso Gesù mette il rapporto col denaro a fondamento del rapporto con Dio e con gli uomini (e le donne!).

Nel Vangelo Mammona non è il potere, Mammona è il denaro con il quale si raggiunge e si conserva il potere di ogni Faraone, di ogni Erode, che si divorano i nostri feti e i nostri nonni non più “efficienti”.

C’è un vuoto di riflessione nella Chiesa sul denaro e sul suo potere ammaliante sulle coscienze. Che consegna la Chiesa tra le braccia di Mammona.

Anche la pedofilia, per fare una parentesi che parentesi non è: è possibile esercitarla solo da una posizione di “potere”, al quale credo non sia del tutto estranea la dimensione del potere economico che prende la forma del turismo sessuale e della corruzione con regali del minore… Forse sarebbe interessante approfondire anche questo aspetto: «Il potere dei soldi nella corruzione di tutta la morale (non solo sessuale) dell’Occidente e Oltre». Un buon tema, per la prossima prolusione del nostro caro monsignor Bagnasco. Che ci provi almeno, ne scoprirà delle belle!

E la “precisazione ligure” arrivata nelle ore in cui riflettevo su questo scritto, non sposta di una virgola la prospettiva. Anzi, spostando le pedine del gioco, ne conferma il gioco.
Al politico chiedo che faccia bene il suo mestiere di amministratore della polis senza appropriarsi di beni che son di tutti… ma è a mia madre che, senza giudicarmi, domando di tenermi la mano che mi aiuti a sentirmi meno solo.

E allora… A che serve dire, senza dirlo, di non votare Emma Bonino o Mercedes Bresso, ma di votare “gli altri”, se poi la donna quando deve fare la scelta sulla “vita della sua vita” è lasciata sola, illudendosi colpevolmente che le basti un “consultorio” per toglierle il dramma della solitudine?…

A che serve… al disoccupato, forse anche con famiglia a carico, che non ritrova il lavoro, se poi concretamente, i “fratelli e sorelle nella fede”, chiusi nella loro attività parrocchiale lo lasciano solo con i suoi problemi di sopravvivenza, delegando quasi tutto all’istituzione della Cassa Integrazione o all’Ufficio di Collocamento o alla Caritas?…

A che serve… al morente solo col suo dolore, attorniato da extraterrestri in camice bianco che gli fanno capire quanto è di peso, a loro, alla società e ai familiari?…

Servisse a niente! sarebbe già qualcosa. Ma a qualcosa purtroppo serve… a sentirsi ancora più abbandonati, ancora più “usati”, ancor più soli…

lunedì 22 marzo 2010

La lezione di Stefano


La spoglia di Stefano Cucchi, tumulata nel cimitero di San Gregorio, ha finalmente pace. La nostra coscienza no. Ci resta negli occhi, non meno che l’immagine del suo corpo larvale nelle foto d’autopsia, lo stupore e l’angoscia di quella sequenza di vita e di morte, ora che la Commissione parlamentare d’inchiesta ha depositato la sua relazione. Un arresto, una notte in caserma, la consegna in carcere, il sotterraneo del tribunale, l’aula giudiziaria, la convalida dell’arresto, l’ospedale, di nuovo il carcere, ancora l’ospedale, e il volto tumefatto e la schiena lesionata in due vertebre, e i giorni senz’acqua e senza cibo, rifiutati, e la morte. L’hanno votata tutti, quella relazione che chiude l’indagine sul versante sanitario: Stefano aveva lesioni quando entrò in ospedale, ma non è morto di botte, è morto per disidratazione.

Questa fine, tremenda nel suo svolgimento, non chiude certo il conto dei quesiti che questa morte ci rovescia addosso, ma ne apre di nuovi, semmai taluno ci dicesse che una fine così è una "morte naturale". Certo è naturale che senza cibo e senz’acqua si muore. Ma il come si muore non è la stessa cosa del perché. Non ci basta il racconto di un rifiuto, ci preme la ragione del rifiuto, è questo che spiega o nega il senso dell’accaduto. Di che il ragazzo voleva «richiamare su di sé l’attenzione del mondo esterno e dei suoi legali». Allora quel rifiuto è l’estremo grido di una disperazione traboccata, e tragicamente inascoltata.

Il lavoro della Commissione ci rassicura che quando lo scandalo avviene nessun uomo è ritenuto così miserabile da patire ingiustizia "come se nulla fosse" (si direbbe in corpore vili), e che si devono fare i conti e colpire le responsabilità; ma non ci basta. Ci preme di ripercorrere l’intera via dolorosa e i momenti in cui Stefano ha incontrato volti e mani protese sulla scandalosa "insignificanza" della sua sventura. Il peggio dell’esser corpo vile non sono le lesioni che gonfiano gli occhi o incrinano le vertebre, sono le orecchie sorde all’invocazione di un contatto con la famiglia, con il legale, con l’amico della comunità di recupero; sono le braccia inerti di fronte ai giorni dello sconforto, sfida o invocazione in faccia alla morte, alla tremenda agonia della disidratazione.

C’è un processo penale in corso. Non mi intrometto nelle tecniche giuridiche, e poi niente di quanto accadrà ridarà la vita a Stefano. Ma sul piano di una civiltà minima sul senso della vita e della relazione umana, mi parrebbe massima ipocrisia dire che si è lasciato morire da sé, è lui che l’ha deciso, era un suo diritto, la nutrizione e l’idratazione non si fanno senza il consenso informato. E il grido che invoca il soccorso di un ascolto e di un incontro dell’anima giocando sul tavolo del rischio del disfacimento del corpo, non val nulla per un medico? Sei medici hanno girato via gli occhi? Noi non gireremo via i nostri.

Dopo l’indignazione incanalata contro il "sistema" (quale scacco per tutti gli apparati dello Stato coinvolti, questa morte ingiusta) dovremo interrogare la deriva culturale che va sfigurando il senso umano del soccorso, proprio a partire dal cuore della professione medica. Fra l’uomo sofferente e l’uomo che lo cura c’è un’alleanza, o una grigia negoziazione indifferente? Lo stesso gesto può chiamarsi aiuto oppure intrusione, la stessa omissione può chiamarsi rispetto oppure abbandono. A tenere in salvo l’umanesimo di un minimo amore il criterio è la verità del "prendersi cura" dell’uomo, rispetto alle mille falsificazioni della nostra indifferenza. Alla fine, è l’indifferenza che dà la morte.

Piazza montata

Ps: Verdini? eravate solo tra i 120.000 e 140.000... Bastava chiederlo a Maroni!
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