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giovedì 24 dicembre 2009

Natale: oltre la fiaba

Natale con gli occhi di un bambino (Niki)
Solo alcuni spunti dalle letture bibliche di questo tempo di Natale…
Sono i testi lasciati dai profeti o dai “testimoni” più vicini e più interessati ai fatti narrati, ma anche per loro si tratta di eventi già ricevuti dai testimoni diretti e celebrati da una comunità credente ed orante che vi ha scoperto e vissuto un incontro vivificante, e l’ha tramandato fino a noi. Natività, Epifania, Risurrezione, sono dei fatti (o la condensazione simbolica di vari eventi) che sono collocati in un determinato luogo e in un tempo preciso, come momenti intensi della Rivelazione. Ma il loro senso è questo: annunciano e propongono al credente un legame indissolubile tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e non possono essere accostati se non da una mente e da un cuore che ne accolga questo loro segreto storico e metastorico, terreno e celeste, legato al tempo e allo spazio, ma insieme trascendente queste due dimensioni. La prima di queste – la banale vita quotidiana – ci è facile e naturale, ma talora pesante e insoddisfacente. L’altra, tormenta l’uomo da quando ha memoria della sua presenza sulla terra. Per fargli superare questo limite e penetrare territori che ci sembrano più sperati che sperimentati, nell’ostinata sfida all’impossibile: vedere, sentire, toccare, capire cosa c’è al di là … dei nostri limiti e delle nostre misure.
Allora la Bibbia ci appare come il racconto di tanti testimoni che hanno visto questo raccordo tra la loro storia e l’impossibile, che hanno ascoltato e intrasentito la mano di un “dio” che li accompagnava sul crinale dell’ulteriorità incredibile e inaccessibile. La creazione, la promessa nel paradiso fallito, la malvagità umana autodistruttiva e l’arcobaleno di Noè, la fecondità del vecchio Abramo, la lotta di Giacobbe con Dio, la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del Faraone, la trasformazione del cuore di pietra in cuore di carne … sono i passi impossibili a cui l’uomo è stato chiamato da colui che “
dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono” (Rom 4,17). Allora, nel Natale, così diversamente raccontato dai vari testimoni, sta comunque il cuore della storia, cui tutta la creazione anelava. Natale vuol dire che la meta e, insieme, il centro propulsore di questo inarrestabile flusso dell’amore creativo di Dio è adesso il seno, anzi prima il cuore, di Maria. E anche lei sa, come racconta il vangelo di Luca, che è impossibile ciò che le è annunciato – eppure si consegna, perché nulla è impossibile a Dio! A Natale, la Parola non è solo la metafora per indicare il legame di benevolenza gratuita del Padre con tutto ciò che lui fa esistere. Non è solo la sua sorprendente decisione, libera e amorevole (cioè non prodotta da necessità fisica o psichica o morale) di cercare il consenso e la gioia dell’umanità: rallegrati, Maria! La Parola stessa, nella sua passione di incontro con l’uomo, si fa seme e diventa bimbo d’uomo nell’inimmaginabile assunzione o impregnazione divina di un germoglio di carne umana. “Il verbo si è fatto carne!”. E la verginità è il timbro della suprema libertà di Dio da ogni legge di necessità. Nella catena dei miliardi di natali umani, un Natale impossibile, incredibile… che tacitamente sconvolge tutto. Tanto impossibile che, per non esserne accecati, i cristiani ne hanno fatto una favola, ormai così innocua, che viene anestetizzata nei tanti festeggiamenti natalizi commerciali, coloriti di simboli o fantasie le più disparate.
La fede che questi testi rivelano e domandano è tutt’altro: spinge il discepolo di Gesù a riscoprire sempre daccapo il rapporto faticoso tra libertà e necessità, invitandolo ad entrare nella dinamica assiale della storia della salvezza: possiamo svincolarci dalle catene delle necessità istintuali? liberarci dall’io, che ci fa fare quello che non vogliamo? della cultura dominante e dalla sua logica di competizione e sopraffazione? è possibile o è impossibile convertirsi all’amore, come nuovo motore potente ed insieme inerme della vita? Noi sappiamo per adesione umile all’obbedienza della fede, che è un regalo capirlo e tanto più riuscire a praticarlo. Che dunque è presunzione pensare di imporre questa fede, di esigerla e tanto meno di condannare coloro che si ritraggono … nella esperienza dolorosa dell’impossibilità! Luca premette al suo Vangelo l’esempio dei semplici e degli umili, direttamente coinvolti dalla disponibilità della loro adesione: Maria, Elisabetta e i loro due bimbi, il sacerdote ammutolito, i parenti e i vicini, i pastori… umili e ignari testimoni del mistero fondamentale della fede cristiana: il Natale! Il primo atto cristiano (continuamente primo – a cui cioè bisogna tornare per ricominciare, senza stancarsi mai!) è quest’adesione del cuore alla fede. Nell’affidamento di sé alla “parola”, il Natale ripropone la sua scansione di salvezza: non temere, il Signore è venuto e viene! in questo bimbo ti riempirà di vita, e coinvolgerà gli altri attorno a te! La nostra speranza è una Vergine gravida dell’impossibile, ultimo (o primo) anello di una successione infinita di uomini e donne, che hanno creduto e si sono affidate. E camminano nella esperienza della fatica e della gioia di seguire la luce in un mondo ottenebrato.
L’obiettivo di ogni annuncio, di ogni manifestazione della Parola è la proposta di amore e di vita che c’è dentro, certo, ma è raggiungibile solo attraverso l’obbedienza della fede: questo è il dinamismo di fuoco a cui siamo chiamati – questo è la consegna di sé … al presepio. Ogni altro aspetto di culto o di ascesi, di dottrina o di sacramento, di magistero o di sacerdozio è strumento e mezzo per riconoscere, entrare in contatto, accogliere questa “grazia”, cioè il regalo del Natale di Gesù! l’inaspettato accesso all’impossibile che ci mette allo sbaraglio, ci provoca allo sbilanciamento di fronte agli accadimenti che non sono adeguati alle forze dell’uomo. Ecco perché lo annunciano gli angeli! E annunciano che non siamo più servi, ma amici e figli di Dio. Annunciano che adesso è possibile “il divino in noi”… il perdono (nessuno può perdonare i peccati se non Dio solo); il corpo e sangue di Dio in materia cosmica per nutrire il credente (come può costui darci la sua carne da mangiare?); l’amore ai nemici (fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico), il coinvolgimento coi poveri (di essi è il Regno dei cieli – sono “in società” con Dio!); la “necessità salvifica” della chiesa, pur fatta più di peccatori che di santi (su di te fonderò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno su di essa!)…
… è questa la dinamica evangelica che dice cosa succede a noi la notte di Natale – ogni notte di Natale. In proporzione alla nostra libera trepida adesione, il mistero diventa di un’attualità assoluta nell’intimo dei noi stessi e nella chiesa, che è il segno levato tra le genti… un segno difficile a dirsi a noi stessi, cui si può solo consegnarsi. Ed immediatamente avviene che questo mistero ci spinge fuori da noi stessi per trasformarci progressivamente, per ottenere maggiore coinvolgimento delle nostre facoltà, della nostra conoscenza e delle nostre opere (con quanta resistenza e fatica e rifiuti… lo registra la segreta biografia spirituale di ognuno)
… quello che conta è il momento di fede che avremo vissuto nella nostra vita e la capacità di accumulare, di condensare atti di fede, magari piccolissimi, uno dopo l’altro, giorno per giorno, che rendono sempre più attuale e sconcertante la proposta di questo misterioso “incontro” che abbiamo in cuore … Sbilanciamenti di fede che ci fanno di nuovo ripartire come i pastori, in base a quel poco di luce nelle tenebre. Ci fanno vedere la verità del segno (un bimbo nella mangiatoia …). La luce poi non c’è più, o è intermittente, ma c’è la consapevolezza che… era vero, una consapevolezza presto sola, sostenuta soltanto dalla conferma umile che scaturisce dall’ascolto docile della Parola. Allora noi che abbiamo creduto al Natale dovremmo risplendere … anche nelle nostre opere. E invece possiamo trascorrere tutta la nostra vita in una posizione scomoda, tra la fede che illumina nella mente la venuta del Signore e la sua proposta evangelica, e le nostre opere che non splendono affatto. Non si deve per questo scoraggiarsi e consegnare le armi. L’incontro di fede che ci ha cambiati dentro rimane ed è irreversibile. La fatica di questa fedeltà incompiuta, perseguita in modo onesto e leale, per quanto poco fecondo… forse non dipende del tutto da noi. È partecipazione misteriosa alla renitenza delle tenebre ad accogliere la luce, è accompagnamento al doloroso cammino dell’umanità ad accogliere un Dio che nessuno ha mai veduto, ma del cui amore il suo figlio unico “ci ha raccontato”! E ci ha irrimediabilmente contagiato.

venerdì 18 dicembre 2009

…Dio nel corpo umano

I Lettura: Michea 5,1-4II Lettura: Ebrei 10,5-10Vangelo: Luca 1,39-48
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d'Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace.Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: "Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà"». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto»



Può essere utile mettere a confronto tra loro le letture di questa domenica – ultima di preparazione al Natale – per rilevarne l’intima connessione, pur nel così diverso approccio al mistero della centralità del “corpo umano” (e di chi lo mette al mondo) – nella travagliata storia della nostra salvezza.
Michea raccoglie e rimanda fino a noi un’antica segnalazione profetica: siamo tutti in potere “altrui”, fin quando non partorirà colei che deve partorire … Allora soltanto, anche il resto dei fratelli ritornerà … ed “egli” stesso sarà la pace. Se c’è un’illuminazione nuova delle scritture antiche, a ritroso, a partire da Cristo (come Gesù stesso insegnò ai discepoli dopo la sua risurrezione), qui i simboli oscuri si illuminano… e nello stesso tempo accolgono (adempiono) e sconvolgono (convertono) le aspettative dell’uomo. È caratteristica della profezia biblica questa spada a doppio taglio. In modo umilissimo ed esplosivo, insieme, anche Luca racconta di due “partorienti”, che si incontrano e si dicono, in questa “scena madre” della nuova storia, il mistero a cui siamo chiamati. Lontano dai templi, lontano dalle regge del potere e dell’intelligenza, per la strada, sulla soglia della casa... I loro due piccoli d’uomo, ancora incompiuti nel seno delle madri, già si comunicano il passaggio del testimone della speranza, dal “più grande tra i nati di donna” (il Battezzatore, sempre chiuso però nella sua appassionata ma sterile ricerca della salvezza), al piccolo germoglio nuovo, di un’altra qualità a noi sconosciuta, che lo fa sussultare di gioia. Elisabetta, l’umanità senza futuro, graziata nel suo desiderio irraggiungibile di tramandare la vita, si domanda il motivo della grazia che l’inonda: a che debbo che il mio Signore venga da me? Ma subito intuisce il segreto del mistero che si è aperto sulla terra: beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto. La fede in Dio è fede nella salvezza della carne, perché proprio questa è la sua volontà di benevolenza sul mondo: ciò che è nato da lei (dalla sua carne e dallo Spirito) sarà santo e chiamato figlio dell’Altissimo. Questo “venire”, adesso, di Maria nella casa che l’accoglie, non è semplicemente annunciare e preparare, come farà Giovanni, ma è portare colui che viene.
Maria viene a portare una Salvezza ancora in germoglio, ma pronta, viva e personale, che, secondo la lettera agli Ebrei, esprime già con il suo “esserci” la propria identità: ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà! questa è la vocazione dell’uomo, finalmente consapevole e compiuta. La struttura religiosa profonda dello psichismo umano, la ricerca affannata e ambigua, quanto irreprimibile, di un “oltre sé” (esser come il Dio immaginario – imporsi come padroni onnipotenti) di cui racconta la pagina biblica delle origini, è radicalmente capovolta. Nella sua originaria e mai sopita passione di essere «un laboratorio unificatore del tutto» (San Massimo Confessore), l’uomo ha espresso una capacità di fabulazione religiosa che mentre doveva servirgli nella sua ricerca di Dio, ha prodotto e poi istituzionalizzato steccati, veli santi, templi, teologie e riti, sacrifici e caste sacre, che fanno da schermo e sono divenuti un ostacolo nel suo viaggio verso sé, gli altri e Dio stesso: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, … «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo.
Il “nuovo sacrificio” mina alla radice ogni altro espediente religioso, perché rovescia la religione dell’uomo, sì che non sono più i meccanismi psichici umani (paura della morte e pretesa di amore senza fine) ad esserne protagonisti, ma il corpo di Cristo offerto come luogo dell’inveramento della volontà del Padre: Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. Il dramma della libertà, il rifiuto da parte dell’uomo di essere persona, di realizzarsi ad immagine divina, ha trasformato la libertà in arbitrio cieco, sete di possesso e dominio, per consegnarsi al disordine ontologico e morale, il cui esito è la morte, la ferita finale che ammala già in anticipo ogni nostra relazione … Che ne siamo consapevoli o meno, nel nostro cammino culturale, la religione non serve più, è assorbita nel corpo di Cristo, al quale il nostro è chiamato ad assimilarsi: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. L’umanità del Cristo è testimonianza dell’amore assoluto di Dio, incarnato nella nostra polvere, alla quale dovremo ritornare, ma è più forte della morte. Senza peccato, ma capace di discendere al fondo dell’abisso della libertà umana deviata, sprigionandone ed attuandone la dimensione profonda, la corporeità gloriosa di Cristo, quella natura umana divinizzata che ha già in Lui la primizia di una nuova genesi – è il seme deposto in noi, da sviluppare in una vita di preghiera e di ascesi (cioè di vittoria evangelica sul mondo!), per imparare ed esercitare l’amore. Nella sua carne, nel suo Spirito, senza più distanze sacrali, anche a noi è dato rigenerare e dilatare la nostra umanità oltre noi stessi, per farne dono di sé all’Altro nell’amicizia (non vuole più servi!) – e a tutti gli altri nella carità, dono totale della nostra vita sino alla morte, fino a fare della morte stessa un dono. Ritroveremo custodito ed eternizzato ogni momento di offerta di sé, ogni atto creativo di bellezza e di tenerezza, di vittoria sui determinismi della vita biologica, ogni momento di comunione, custodito nell’umanità risorta del Cristo e nella nostra in Lui (cfr Massimo Bolognini in Corpo di morte e corpo di gloria)
Forse nessun esperienza o testimonianza come quelle riportate nel nuovo Testamento riguardo al “natale” di Gesù nella carne umana, indica così decisamente il “corpo” come il luogo della nascita dell’uomo a se stesso! Rivelando e illuminando così intensamente l’umile terrestre miracolo quotidiano per cui il nostro corpo fisico può nascere allo spirito e lo spirito nascere come carne riplasmata dall’amore (mistero di libertà e grazia del nostro feriale natale). Carne che imprigionata nei suoi ripetitivi e ciechi dinamismi corporei, contagiata ormai dal “natale” di Gesù, si riapre alla creatività della vita, abilitata a donare se stessa, a crescere nella dilatazione della persona in comunione, trasformando in sua memoria il nostro corpo, in offerta eucaristica che, unita al Verbo incarnato, ne rivela l’intima verità ed il compimento definitivo.Visita di Maria a Elisabetta (Giotto)Perché mai le donne, secondo il vangelo di Luca, sono protagoniste dell’incontro con il Signore – anche a Natale? Persino in queste storie antiche – quando non era pensabile che potessero neanche fare da testimoni affidabili di incontri umani? credo che la tentazione monofisita, (la tentazione più subdola e diabolica contro l’incarnazione – cioè il dubbio o il rifiuto di credere che l’umanità di Gesù sia vera) non le tocca. Cioè, il corpo, la carne, pure sporca e malata, perfino il cadavere dell’amato… per loro hanno sempre senso. Sono sempre il luogo della vita vivente o vissuta, il territorio della comunicazione vera, l’unico alveo dove si trasmette la vita – sempre amata! Sono quindi più vicine all’accudire che al razionalizzare; a comprendere invece che proporre, a servire invece che pretendere. Anche loro sono intrise della congenita debolezza umana (e biblicamente sono state la prime a volerne uscire a tutti i costi) ma il circuito culturale non le chiude mai del tutto. La vita vale sempre più dell’idea della vita!
Qui lo Spirito si trova più a suo agio, nella terrestrità che accetta la Parola-Promessa, perché è il brodo più fecondo di cultura della fede. E allora avviene che in una casa normale, in visita a parenti normali, bisognosi di accudimento, si può incontrare l’anziana cugina incinta, moglie di un prete ammutolito dal mistero, portando Dio nel ventre. E nessuno si gira a guardare, solo loro sanno … e raccontano ciò che ancora non si vede, ma illuminerà la storia.
Dunque la laicità è abitabile dallo Spirito divino, molto meglio che il sacerdozio, il tempio, la legge, l’accademia teologica, il monastero esseno… Ma non per diventare anch’essa, a sua volta, sacra, (cioè potente, separata, normativa, teocratica…), ma per rimanere terrestre, povera, fragile, radicata sempre nelle vicende difficili dell’affettività, dell’economia, del potere, che compongono l’ordito del tessuto della vita. Aperta però al natale dell’amore, al natale di Dio con noi, nel nostro corpo!

mercoledì 16 dicembre 2009

E Maria pensò: "Ma questo angelo, avrà davvero ragione?"

In questa quarta e ultima domenica di Avvento la Chiesa ci propone di riflettere sull’episodio del vangelo di Luca, tradizionalmente titolato “La visitazione”: Maria – dopo aver ricevuto, da parte dell’angelo Gabriele, l’annuncio del concepimento di Gesù – parte «in fretta» per andare da Elisabetta, sua parente.
«Per quale motivo Maria si reca da Elisabetta? Secondo un diffuso sentire popolare, e anche secondo diversi esegeti, Maria sarebbe stata spinta dalla carità e dalla volontà di servizio. “Maria poteva aiutare sua cugina nelle sue occupazioni quotidiane, offrendole quei servigi che le donne usano rendersi in tali circostanze” [scrive L. Deiss, ne Elementi fondamentali di Mariologia]. La “Serva del Signore” si fa serva degli uomini, come è nella logica del vangelo, dove l’amore di Dio si dimostra e si verifica nell’amore del prossimo. E. Bianchi annota che l’intenzione caritativa di Maria si trasforma però – nel racconto di Luca – in un viaggio missionario: “Maria va per fare il bene e finisce per portare Cristo” [E. BIANCHI, Magnificat]. In realtà da nessuna parte del testo è suggerito che il viaggio di Maria sia stato motivato dal desiderio di aiutare Elisabetta. Tanto più che, come si è visto, Maria ritorna a casa sua prima della nascita del Battista (1,56). E l’espressione “Serva del Signore” (1,38) sottolinea l’obbedienza a Dio, non di per sé il servizio al prossimo. L’unico motivo, che può trovare un appoggio nel testo, è il desiderio di Maria di osservare il segno che l’angelo le ha indicato» [B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2001, 36-37].

Pochi versetti prima infatti – durante l’annuncio dell’angelo a Maria («Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine», Lc 1,30-33) – Egli aveva aggiunto, quasi a indicare una traccia di attendibilità del suo messaggio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,35-37).
Maria che «diversamente da Zaccaria [come annota ancora Maggioni], non ha chiesto un segno», individua nelle parole dell’angelo un’indicazione: un’indicazione che «nasconde un invito. Il segno e la sua verifica fanno [infatti] parte della logica delle rivelazioni. Dio mostra [N.B. “mostra” NON “dimostra”] la sua verità e non vuole che l’assenso della fede avvenga al buio»!
Precisamente in queste ultime indicazioni – purtroppo abitualmente soffocate dal continuo rilancio della lettura di questo brano che vede in Maria l’esempio di carità da seguire, accontentandosi ancora una volta di proporre semplicemente i luoghi comuni di una religiosità che troppo disinvoltamente fa “tornare i conti” della drammatica evangelica – sta la straordinarietà e – mi sia permesso – la spregiudicatezza di questo testo.
Esso infatti – precisamente mentre sta descrivendo il paradigma della fede di ogni credente: Maria, appunto – non ha paura di mostrare come la fede – cioè la relazione dell’uomo al suo Dio – non sia assolutamente da intendere come una fede cieca! Questa constatazione – che è un’evidenza che emerge da ogni interstizio evangelico – purtroppo ancora nel 2009 risuona come una prospettiva sospetta: la catechesi neoscolastica degli ultimi secoli ha infatti radicalmente fatto sedimentare nelle nostre menti l’idea che se di fede si tratta, non c’è spazio per l’esercizio della ragione… Essa è “un salto nel buio”, se no che fede è?
“Curiosamente” invece proprio Maria – da sempre cantata come l’esempio della fede di ciascun cristiano – a fronte di una rivelazione di Dio, di un “farlesi” incontro di Dio, di un imbattersi in Dio, si appiglia all’unica “traccia” che l’angelo le ha lasciato per andare a constatare se effettivamente l’esperienza che ha vissuto ha una sua attendibilità. Il problema di Maria è infatti quello di ciascuno: “Questa rivelazione, questa lieta notizia, questo vangelo, – in ultima analisi –, questo Dio, è un Dio affidabile, è un Dio credibile, è un Dio degno di fede, della mia fede? Vale la pena dedicargli la vita, instaurare con Lui una relazione che diventi l’orizzonte di senso in cui comprendere il reale, incarnare la sua logica che conduce al dono della mia vita per amore dei fratelli?
L’angelo aveva parlato di Elisabetta… E Maria, «in fretta», va da lei!
Altro che fede cieca (che tra l’altro il Concilio Vaticano I ha stigmatizzato – con la Costituzione dogmatica Dei Filius – come inaccettabile)! La relazione che il Signore propone all’uomo onora fino in fondo la caratura pienamente umana (e dunque anche razionale) dell’uomo! Nessun salto nel buio, ma il paziente riconoscimento del farsi prossimo di Dio, l’intercettazione, nel nostro ordine degli affetti, di una promessa di senso lì contenuta, il credito dato a questa intuizione e il conseguente sbilanciamento verso un approfondimento della conoscenza di questo suo rivelarsi (fatto anche – non solo, ovviamente – di faticosa indagine sui testi, che invece molti cristiani non solo non hanno mai studiato, ma nemmeno mai letto…), la verifica di ciò che attraverso lo studio (Parola di Dio), il dialogo personale (preghiera), la vita ecclesiale (sacramenti), il volto dei fratelli (storia) emerge come volto del Dio di Gesù Cristo… per giungere ad un assenso consapevole… che riapre la circolarità appena descritta, dove infatti il consenso raggiunto, diventa occasione di nuove illuminazioni nell’ordine degli affetti, credito concessogli, ecc…
Ecco perché questo testo è coraggioso, perché non ha paura di mostrare come – per entrare in relazione con Dio – non ci sia affatto bisogno di uscire dalla carne, di censurare i nostri dubbi, di spegnere la nostra razionalità, di rispettare la nostra umana natura che prevede che per “farci” uomini, diventare uomini, ci si immerga nella storicità…
Maria – donna a tutti gli effetti, fatta di carne e sangue, sudore e fatica, gambe per andare in fretta da Elisabetta, “voce forte” per salutarla, entusiasmo e trepidazione per l’annuncio dell’angelo in cui le è capitato di imbattersi, tenerezza per il figlio che porta in grembo, desiderio di dirlo a qualcuno (a qualcuna…) –, l’esempio di fede dei cristiani di ogni generazione, non risulta affatto l’eterea semi-dea a cui spesso purtroppo ancora oggi è spesso ridotta dalla devozione popolare, colpevolmente alimentata da chi mente sapendo di mentire, ma ci appare – aprendoci ad un sorriso compiaciuto e tenerissimo – la ragazza a cui è capitato di tenere in pancia Dio, colma di paura e trepidazione, sospetti e incomprensioni, che non ha avuto paura di andare a vedere se davvero quell’angelo diceva il vero su Elisabetta! Perché forse – se diceva il vero su Elisabetta – diceva il vero anche a lei…
E così Luca ci regala l’indimenticabile pagina della rivelazione del Signore (Elisabetta è la prima che chiama Gesù con questo titolo nel vangelo di Luca), chiusa fra le quattro mura di una casa normalissima, con protagoniste due donne – una ragazza madre e una donna sfiorita – e le loro pance (con i rispettivi abitanti) che si parlano di una gioia incontenibile: è il Signore che viene, nel mondo laico delle donne, nella quotidianità di quelli che non contano, nel cuore dell’umanità.

martedì 15 dicembre 2009

Lo sfregio

Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana

Che cosa suggerisce la visione del viso insanguinato del Presidente del Consiglio? Quello di un uomo che ha subito un incidente, che si è rotto il labbro, che si è fratturato il naso, che sanguina copiosamente. Un accidente casalingo, un incidente d’auto, un’effrazione improvvisa e inattesa. Qualcosa di fortuito e casuale. In realtà, come sappiamo tutti per averlo visto nei telegiornali, o su You Tube, Silvio Berlusconi è stato colpito da un oggetto scagliato con forza da un uomo.
Un attentato dissennato, dato l’oggetto usato per ferirlo – un souvenir, un simbolo della città di Milano in miniatura –, e vista la situazione. Un gesto folle, eclatante, assurdo. Un attentato in miniatura, si dovrebbe dire, perché non mortale, nonostante la situazione e il contesto, simile a quello di mille altri attentati a uomini politici negli ultimi due secoli: all’aperto, tra la folla, all’inizio o alla fine di un comizio. Qualcuno si sporge tra la massa dei sostenitori e compie l’atto fatale. Ma qui non accade.

La follia ha sempre metodo, e più di una ragione. Chi ha scagliato l’oggetto contro il Presidente del Consiglio, Massimo Tartaglia, voleva violare il corpo del Re, un corpo sacro, che diventa tale attraverso l’investitura del potere, i rituali della vestizione, le cerimonie della proclamazione, il culto che lo circonda. In queste settimane Silvio Berlusconi ha spesso parlato dell’investitura che avrebbe ricevuto dal Popolo; ha parlato, seppure con metodi mediatici da telegiornale e tele-spot, del proprio potere in termini sacrali, simili a quelli dei sovrani medievali e rinascimentali. Ha caricato di segni e simboli la sua stessa persona.

Si tratta di un processo che va avanti da tempo, in modo postmoderno, e non più medievale, attraverso tecniche che tendono a rendere giovane e quasi eterno il suo corpo: fitness, lifting, liposuzioni, trapianti dei capelli, cure di vario tipo e grado. L’eternità del corpo di Berlusconi sfida la mortalità stessa del corpo tradizionale del Re, destinato, alla pari di tutti i corpi, a invecchiare e morire. Nella tradizione medievale e moderna la regalità, il corpo immortale del Re, è trasmessa ai discendenti: “Il Re è morto, viva il Re”, si proclama quando muore il vecchio re e gli succede il nuovo.
Nel caso di Berlusconi il corpo vivo coincide con la regalità. Il corpo del Capo è diventato il corpo politico stesso, la sua regalità riposa sul suo stesso corpo che egli cerca di sottrarre al passare del tempo, al suo naturale logoramento, per renderlo, e qui sta il paradosso, eterno nel tempo: “una giovinezza eterna senza passato”.
È una mescolanza di aspetti antichi e moderni, medievali e postmoderni. L’aver posto tutta l’attenzione sul proprio corpo, in sintonia con quello che accade all’intera società occidentale, fondata sul “narcisismo di massa” e sulla cura ossessiva del corpo, è l’elemento centrale della sua politica. Abbiamo un solo corpo, ci dice continuamente la pubblicità, bisogna curarlo. Si tratta dell’unico bene di cui disponiamo, per questo va conservato, modellato, ringiovanito. Berlusconi si trova al culmine di questo processo, lo incarna e lo orienta con i suoi stessi comportamenti.
Ma la sacralizzazione del corpo mortale del Capo ha sempre messo in moto meccanismi opposti di desacralizzazione, come è accaduto molte volte nella storia. Nel 1990 a Sofia, la folla inferocita assaltò il mausoleo del Capo, Gheorghi Dimitrov, fondatore del Partito comunista bulgaro, e cercò di bruciare la sua mummia. Nel 1945 il corpo morto di Benito Mussolini fu gettato sul selciato di Piazzale Loreto, e dissacrato mediante una sconcia impiccagione a testa in giù. La folla l’aveva acclamato, ora la folla l’ha deturpato. Sono tanti i gesti del genere che traggono la loro motivazione nel rovesciamento della sacralità stessa del leader.
Il messaggio sacrale della ritualità moderna, ci spiegano gli antropologi, fa a meno della sfera religiosa tradizionale, e non ha più bisogno di ricorrere alle magie e alle superstizioni del medioevo, quando ai Re di Francia veniva attribuito il potere taumaturgico del tocco che guariva dalle malattie perniciose della pelle. Tuttavia il sacro non è scomparso, si è solo trasformato. Meglio: si è travestito, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana attraverso gli schermi televisivi, le riviste patinate, i messaggi pubblicitari, i personal computer. Che lo sappia o no, che sia studiato o meno, Silvio Berlusconi mette in moto meccanismi che funzionano per gli attori come per i santi, per Marylin Monroe e per Padre Pio. Il corpo è sacro nella sua stessa materialità, in quanto corpo che muore, per questo viene investito di una significato totale e totalizzante.
Due gesti compiuti da Silvio Berlusconi ferito dall’atto del folle di ieri colpiscono. Col primo egli si china, si copre il viso con un pezzo di stoffa. Qui c’è il gesto umano, della persona ferita, che cerca riparo, che è stordita, che non capisce cosa gli è accaduto, e vacilla. Col secondo il Capo ritorna tale: dopo essere entrato nell’auto, spinto dai suoi guardiaspalle, esce di nuovo. Si mostra alla folla. Vuole far vedere che è vivo, certo, rassicurare i suoi sostenitori, ma vuole anche compiere un gesto di ostensione. Una sorta di Sacra Sindone al vivo: viva e sanguinolenta.
Si mostra perché è nell’ostensione che il suo potere corporale esiste e prospera. Ha compiuto tutto questo in modo istintivo, senza ripensamenti. Fossimo stati negli Stati Uniti, la sicurezza lo avrebbe caricato in auto e sarebbe partita a tutta velocità. Poteva esserci ancora pericolo. No, Silvio Berlusconi sfida il pericolo, si espone di nuovo, seppur dolorante, col sangue sul viso, atterrito ma vivo, allo sguardo dei fedeli, perché questo è la natura stessa del patto che ha stretto con loro.
La politica dell’immagine di Silvio Berlusconi, che passa attraverso sempre più attraverso la politica del proprio corpo, mostra qui qualcosa d’inquietante: il suo legame con la vita e insieme con la morte.
Il folle gesto simbolico di Tartaglia rivela quel lato in ombra che la sacralizzazione quotidiana delle immagini televisive e fotografiche nasconde, e che al tempo stesso ne è il rovescio: l’inconscio desiderio di desacralizzazione. Lo sfregio, l’abrasione, il colpo al viso sono antropologicamente – sacralmente, si dovrebbe dire – parte stessa di quella politica d’incentivazione del corpo. L’ostensione chiama implacabilmente la violazione. Il gesto di ieri a Milano è stato compiuto da un folle, che nella sua follia ci manifesta qualcosa di terribile. Il potere del sacro non perdona. Di Marco Belpoliti dal sito Nazione Indiana



Nota: "Il corpo ferito del Capo" è il titolo originale del post (citato anche da Filippo Ceccarelli in un suo articolo su Repubblica.it).

L'immagine con cui io l'ho accompagnato, spero non venga ritenuta "offensiva" o "fuori luogo". Essa cerca soltanto, nello stabilire un parallelo, di sottolineare la pertinenza delle argomentazioni e ricordare come "l'oggetto sacrale", artistico e non, religioso o profano, è "corporalmente" esposto , "radicalmente indifeso", allo "sfregio" dissacrante e desacralizzante...
La "morte" di Dio (o il suo tentativo), passa sempre per la morte del "corpo" (o il suo "ferimento"): tentativo che spesso coincide con la loro "riduzione idolatrica".
Il senso cristiano della "resurrezioni dei corpi", sta indicare anche questo: il ristabilimento, in Cristo, della regalità di Dio e della dignità dell'uomo nella loro "relazionabilità permanente", che nemmeno il ferimento o la morte possono oramai diminuire. Ed è anche questo il senso del Natale!

lunedì 14 dicembre 2009

«Ciascuno faccia la sua parte»... prima che sia troppo tardi!

Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.

Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.

Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.

Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.

Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.

Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.

E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.

Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui - l’aggredito - ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira. Di MARIO CALABRESI in LaStampa.it


Scarica qui il testo (in formato PDF) dell'Intervista rilasciata dal Presidente Napolitano a Mario Orfeo, direttore del Tg2. Per il video dell'intervista vai qui (dal sito della Presidenza della Repubblica).

venerdì 11 dicembre 2009

Tra menzogna vera e verità bugiarda

Una cosa non capisco, perché le parole di un bos come Filippo Graziano devono essere vere? e quelle di un bos come Spatuzza devono essere false? (Il fratello di Filippo, Giuseppe si è avvalso del diritto di non rispondere: mica scemo intanto già parla per lui il fratello e così lui non rischia, nel confronto, di contraddirlo).

Se qualcuno mi sa dire a partire da quale logica si traggono certe conclusioni... Notare che non ho sottolineato che uno figura pentito e gli altri no... Anche immaginandoli tutti pentiti o tutti non pentiti (non credendo cioè al loro pentimento) con quale logica uno può affermare che gli uni dicono il vero e l'altro lancia solo calunnie? Dal pedigree?

E allora con che diritto si afferma che "Graziano smentisce Spatuzza" e non invece che "è Spatuzza che aveva smentito" con le sue precedenti dichiarazioni Graziano? Chi parla per ultimo ha ragione?

Con quale logica si decide chi ha ragione? A rigor di logica? nessuna! Fatti ci vogliono, fatti e non parole... e perché i fatti si trovino è necessario che la Magistratura sia lasciata in pace di cercare le prove...

Perché altrimenti, il sospetto, verso chi tira l'acqua al proprio mulino, è che si voglia nascondere una verità scomoda...

Fino a questo punto infatti, una persona logica, prendendo carta e penna per aiutarsi nel ragionamento, riconosce almeno cinque ipotesi:
  1. Spatuzza dice il vero, Graziano altrettanto...
  2. Spatuzza mente, Graziano mente...
  3. Spatuzza mente, Graziano dice il vero...
  4. Spatuzza dice il vero, Graziano mente...
  5. Spatuzza in parte mente e in parte dice la verità; Graziano idem...
La prima è da scartare perché le versioni sono contradditorie: non è possibile che entrambi dicano la verità!

Restano le altre quattro. Esse aprono a diverse possibilità o "scenari" e tutti rispondono alla seguente domanda: Perché ciascuno dice quel che dice? (e non dice quel che non dice?). Vediamoli.

Primo scenario: Spatuzza e i Graziano agiscono ciascuno per proprio conto. Uno vuole solo salvare la pelle, gli altri l'onore: in questo caso, entrambi potrebbero mentire! Questa ipotesi però mette Spatuzza in una situazione delicata, come diremo sotto (Terzo scenario).

Secondo scenario: Spatuzza finge di essere pentito e d'accordo con i Graziano dice cose che lanciano un avvertimento "a chi loro sanno"... Una volta il messaggio passato e avutone indiretta conferma (attraverso le dichiarazioni - pubbliche o private - dei destinatari) i Graziano rimettono le cose a posto (per ora) in attesa che le conferme a parole, diventino fatti... In questo caso Spatuzza pur mentendo (di essere pentito) dice il vero e ovviamente Graziano mente confermando la verità di non essere pentito.

Terzo scenario: Spatuzza è veramente pentito e mente, Graziano non è pentito ma dice il vero. Per valutare questa ipotesi bisognerebbe sapere perché un pentito mente rischiando ancor di più sulla propria pelle: non solo si rende odioso nei confronti dei Graziano, ma anche verso quello Stato a cui chiede protezione. Come minimo oltre a perdere lo status di pentito, si becca qualche anno in più per diffamazione e si espone (ancor più facilmente senza la protezione dello Stato) alla vendetta dei Graziano. Resta da chiarire la posizione dei Graziano: da quando in qua un mafioso che si ostina ad esserlo, diventa così "collaboriativo" verso lo Stato dicendogli la verità?

Insomma in ogni caso, lo scenario non è tra i più rosei...

Al lettore di scegliere la soluzione più logica che comunque va confermata da riscontri oggettivi.

Appare evidente però che le dichiarazioni di coloro che affermano che Spatuzza mente sono un'altrettanta menzogna, che non solo non ha riscontri nella realtà, ma non regge a un minimo ragionamento logico...

Solo i diretti interessati, che evidentemente conoscono la verità, hanno il diritto di affermare che Spatuzza mente, ma devono farlo con argomenti che vadano al di là della semplice (legittima) presa di posizione e sappiano farlo in modo argomentato e fondato.
Anche a questo serve la Magistratura, altrimenti tutto resta sull'opinabile e il minimo che si può fare è sostituire la forza della verità con la forza del potere (che si traduce in potere della forza)... che guarda caso è propria della "logica" mafiosa!

Che cosa dobbiamo fare?

Le letture che la Chiesa ci propone per questa terza domenica di Avvento, sembrano in qualche modo ricalcare la prospettiva che si voleva delineare già una settimana fa: lettura profetica di esultanza per la salvezza imminente (là Baruc 5,1-9 qua Sofonìa 3,14-18), scritto paolino che incoraggia la crescita nell’amore della comunità a cui si rivolge (in entrambi i casi, i cristiani di Filippi – là Fil 1,4-6.8-11, qua Fil 4,4-7), figura del Battista tratta in entrambi i casi dal capitolo III del Vangelo di Luca (là i versetti 1-6, qua i versetti 10-18).
La ripetizione di questa matrice dell’annuncio della Parola, che la Chiesa decide di proporre in questo tempo di Avvento (anno C), seppur crea qualche difficoltà di commento – perché il rischio di ripetersi diventa reale… –, in realtà è molto significativa: ancora una volta è ribadita (addirittura in maniera ridondante) l’impossibilità di avvicinarsi al Natale – e dunque di parlare dell’inizio dell’avventura storica di Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, la sua piena Rivelazione – senza “passare” da Giovanni Battista.
I versetti del cap. 3 di Luca che la liturgia non ci fa leggere (quelli dal 7 al 9), indicano infatti questo necessario affluire delle folle (allora) e nostro (oggi) a Giovanni, nel deserto: «Le folle andavano a farsi battezzare da lui».
Perché questo bisogno di “passare” dal Battista? Cosa muoveva le folle di allora? E in che senso anche oggi, per noi, è imprescindibile il passaggio da Giovanni?
Un’intuizione si può avere dalla domanda che più volte gli viene rivolta: «Che cosa dobbiamo fare?», «Maestro, che cosa dobbiamo fare?», «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Questa domanda infatti rimanda al problema dei problemi, al risveglio della coscienza (dovuto ad un annuncio – in questo caso –, o ad un evento tragico o bellissimo, o alla noia di vivere, ecc…), per cui ci si rende conto che quotidianamente – anzi istante per istante – si ha a che fare con un abisso, con l’assoluto, con la scelta radicale di chi essere e chi diventare, col pericolo mortale di non risvegliarsi la mattina dopo e con la domanda inevitabile sul senso, che questa coscienza pone. Giovanni dice: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», perché sta per arrivare l’atteso dai secoli, sta per succedere qualcosa di travolgente e che porta con sé una definitività; e la gente è immediatamente rimandata a se stessa. Di fronte ad un evento che sembra sconvolgere la storia, il problema di ciascuno diventa: “E io? Che cosa devo fare?”. Di fronte al Signore che viene, di fronte ad un mondo che finisce, di fronte alla mia vita che finisce, di fronte ad un figlio che mi nasce, di fronte ad un fratello che mi tradisce, che mi abbandona, che mi muore, che suda lacrime e sangue ogni giorno per i mille e mille motivi per cui nel mondo oggi si sudano lacrime e sangue, io che cosa devo fare? Come mi devo porre? Chi devo/voglio scegliere di essere?

È la domanda delle domande… ecco perché vanno da Giovanni: da uno che in quel momento sembrava poter dare delle risposte, sembrava poter indicare una via, dire qualcosa… Ecco perché anche la Chiesa, continuamente, ci invita a “passare” da Giovanni. Perché “Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda che deve salire in petto a tutti: il problema – anche solo sul fronte umano – del senso non può essere eluso: Cosa dobbiamo fare? Cosa dobbiamo fare per vivere una vita buona? E come facciamo a capire cosa è una vita buona? E poi, “buona” per chi? Verso cosa corriamo? Verso dove andiamo? Verso chi? E perché? Qualcuno lungo la storia ha parlato di premi, di aldilà, di vita dopo la morte… Era vero? E come si fa per guadagnarseli? Quali prove, quali sforzi, quali sacrifici? E se non è vero, cosa sono qui a fare? Ha senso ciò che faccio, se è destinato al niente? E se decido di sfruttare comunque questa cosa – che è la vita – che mi sono ritrovato a vivere, cosa devo fare perché non sia un’occasione sciupata?
Giovanni – dicevamo già la scorsa volta – è – a detta di Gesù stesso – il più grande frutto della religiosità umana, che – nel suo senso autentico – è precisamente questo inevitabile imbattersi nella domanda del senso… Giovanni è come l’emblema di quella tensione umana per cui non ci si sente mai “risolti”, “finiti”, “arrivati”; per cui è sempre in atto (anzi: deve essere sempre in atto) un necessario migliorarsi, un cercare altrove, oltre; un con-vertirsi, per dirla con le sue parole…
In sostanza Giovanni rappresenta tutto lo sforzo dell’umanità e del singolo a trovare e a perseguire una risposta alla domanda “Cosa siamo qui a fare?”.
Ecco Giovanni! Ecco la necessità di “passare” da lui: perché senza questa tensione per la ricerca di un senso (del senso!), semplicemente essa non si dà. Non c’è vita senza senso, senza tensione – almeno – per un senso. E non c’è possibilità di trovarlo – o meglio di farsi trovare dal senso – se esso non è contemplato come possibile. Ecco perché – forse più che mai – per la nostra generazione contemporanea è indispensabile “passare” da Giovanni…
Anche perché poi – a ben guardare – Giovanni qualche risposta la dà… «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto», «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato», «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe»… Giovanni cioè sembra indicare, come possibile risposta al “Cosa dobbiamo fare?”, la via della solidarietà, intesa in senso forte, non in quello della carità “a distanza” della nostra società occidentale, per cui il povero – se lo si aiuta – lo si fa da lontano, lo si fa “lasciandolo a casa sua”: l’importante è che non venga da noi… No, qua Giovanni parla piuttosto di quella disposizione interiore – fondata, perché scavata nell’“anima” – che guarda all’altro – sempre e comunque – come ad un fratello, ad “uno dei nostri”, “uno dei miei”, per questo mi diventa caro e me ne prendo cura…
Precisamente in questa scia si porrà Gesù!
Eppure…
Gesù non è Giovanni! Anzi, a detta di Giovanni stesso, «viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali».
Infatti – a ben guardare – se è vero che Gesù si inserisce sulla scia della risposta giovannea alla domanda “Che cosa dobbiamo fare?”, proseguendo e radicalizzando l’amore al prossimo come criterio per “pesare”, “misurare”, giudicare la propria vita, è anche vero che Gesù non sarà esattamente come Giovanni se lo aspettava: «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Giovanni infatti sembra ancora dell’idea (in questo ancora molto seguito da tanti cristiani) che il “bene” vada fatto (agli altri), per evitare di avere conseguenze negative (noi): evitare di “bruciare come paglia con un fuoco inestinguibile”, detto con le sue parole; “di andare all’inferno”, detto con le nostre… Dove l’oggetto vero di interesse, ancora una volta, siamo noi e la nostra salvezza: gli altri contano e “servono” solo come mezzi per i miei fini, per il mio bene, per i miei interessi (per quanto di interessi “spirituali” si tratti…).
La logica di Gesù è invece tutt’altra! Tant’è che Giovanni – racconta Matteo – all’inizio non era molto persuaso del modo di essere Messia di Gesù, tant’è che – dal carcere – gli manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Perché Gesù stravolge la logica umana (e giovannea) della necessità di salvarsi, del fare il massimo per migliorarsi, dell’essere il “più buoni possibile” per meritarsi il paradiso… La proposta di Gesù infatti non è un itinerario di autosalvezza, non è un percorso ascetico, in cui l’uomo sforzandosi raggiunge la perfezione morale o spirituale o mistica… Questo è ancora Giovanni – il massimo che la ricerca religiosa ex parte hominis può raggiungere…
Ma, come dicevamo anche domenica scorsa… uno sforzo destinato a farci sempre ritrovare seduti per terra: perché tutto parte da noi e arriva a noi; senza possibilità di (con)vincere davvero la nostra radicale consapevolezza di non poterci salvare da soli. Esattamente come non siamo potuti nascere da soli o farci uomini e donne da soli…
Precisamente qui sta il discrimine tra Giovanni e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra un itinerario di autosalvezza e il Vangelo. A differenza di Giovanni, infatti, Gesù non risponde (se non solo in seconda battuta) al “Cosa dobbiamo fare?”, ma al “Chi siamo?” e solo a partire da lì propone anche un “fare” – o meglio un “essere” che si media inevitabilmente in un “fare”.
Gesù infatti ricolloca l’uomo nella giusta posizione che da sempre egli agli occhi di Dio ha tenuto – ma della quale si era scordato (l’uomo, non Dio!) strada facendo: e cioè quella per cui l’uomo è figlio amato, sempre e comunque! Figlio, la cui vita è già sempre tenuta in mano dal Padre, salvata ex parte Dei. Vita – dunque – per la cui salvezza egli non deve dannarsi l’anima, sputare sangue, mortificare il corpo, primeggiare sugli altri… Essa infatti è già “al sicuro”. E se non lo fosse – per opera d’Altri – l’autosalvezza raggiunta sarebbe comunque sempre e solo illusoria, destinata inevitabilmente alla tomba!
Lo scardinamento di Gesù allora sta esattamente a questo livello: proprio perché rivela all’uomo la sua autentica identità filiale (umana in senso pieno), Egli gli consegna anche il “compito/dono” di incarnarla fino in fondo; un “da farsi” dunque, ma che trova senso solo in questa prospettiva, solo in seconda battuta, come risposta (accogliente) ad un regalo arrivato solo per l’incondizionata e inequivoca dedizione dell’Abbà-Dio. Ecco perché il “da farsi” non ha più i contorni dello sforzo, della rinuncia ascetica, del volontarismo, dell’apparire – ultimamente – contrario all’umanizzazione dell’uomo: perché esso diventa circolo d’amore in cui proprio perché inondato di bene, io irraggio sugli altri il bene; proprio perché figlio, divento fratello; proprio perché oggetto di dedizione, divento capace di dare la vita. Ecco in che senso allora Gesù – come concludevamo la scorsa volta – non va cercato, ma semplicemente accolto nell’intimità più intima della nostra interiorità.

Ti rinnoverà con il suo amore (il peccato, dalla parte di Dio!)

…i nostri vecchi chiamavano “gaudete” (rallegratevi)” questa domenica, a metà Avvento, perché nell’antico rito latino la liturgia eucaristica cominciava così. Nella storia della salvezza biblica, il motivo della gioia è uguale, da Sofonia fino a Paolo. “Grida di gioia, Israele! … Non lasciarti cadere le braccia!” E questo, perché : “In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti che hai commessi contro di me” (Sof 3,11) –le cose fatte male, quelli che pesano dentro di noi e ci intristiscono il cuore, da millenni. “Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla”… Questa è la buona notizia che fa rifiorire la speranza per ricominciare il cammino. “il Signore è in mezzo a te, un salvatore potente …” Un Salvatore che toglie la vergogna del male che ci rovina la vita. Dunque,come abbiamo ascoltato domenica scorsa, “Preparate la via del Signore!” Questo è l’invito pressante della voce che risuona dagli antichi profeti fino al Battista , per noi, persi tra i dirupi e le tortuosità della fame di senso. Anzitutto è necessario accogliere con cuore umile l’imperfezione e la precarietà di tutto ciò che viviamo e cerchiamo, riconoscere e soffrire l’incorreggibile miscela di tenerezza e aggressività dei nostri rapporti più cari, accettare l’inconsistenza delle cose che facciamo, la volatilità degli obiettivi per cui ci spendiamo, vedere con stupore e rammarico la processione dei volti che ci stanno vicino e si sperdono, senza che il nostro affetto li possa trattenere o consolare – come sarà per noi. Non è solo lo scoramento desolato dei nostri errori o insufficienze o peccati, che hanno fatto male dove volevamo portare il bene, dentro di noi e attorno a noi. C’è un supplemento di tristezza delusa che proviene dalla convinzione sincera, quanto illusoria, che ci entusiasmava nei momenti di fervore creativo, per la presuntuosa sicurezza d’essere senz’altro dalla parte giusta, di poter esigere consenso e adesione … senza accorgerci che progetti e sentimenti, ideologie e speranze hanno sempre una ferita alle radici che ne blocca o ammala i frutti. Anche se ortodosse e oneste, sono cose più nostre che evangeliche! Ci sembravano eterne, esenti dalla precarietà che invece presto ne corrode la pertinenza, rendendole oppressive e ostiche alla gente che ci sta intorno- e anche a noi. Alle folle che andavano a farsi battezzare da lui, Giovanni diceva: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente. Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Anzi, già la scure è posta alla radice degli alberi …» (3,7ss). Allora“Preparare la via del Signore” è anzitutto lasciare che la Parola illumini, giudichi e disinquini tutte le nostre visioni umane dei sentieri di Dio e questo deve passare dalla nostra personale sofferta esperienza. Non ci salva l’appartenenza istituzionale né le radici cristiane. Per questo, di fronte a Giovanni, le folle che ascoltano l’invito penitenziale assumono poi volti di persone concrete con un lavoro, una professione, una configurazione precisa di vita, uomini e donne di casa con le loro piccole realistiche possibilità di decidere … Nasce la voglia di coinvolgersi di nuovo – una ennesima volta!
Il Signore, tuo Dio, gioirà per te … ti rinnoverà con il suo amore!
Il “rinnovamento” è una scossa interiore, una consapevolezza nuova, che nasce, nei modi più diversi, dall’ascolto della voce che annuncia anzitutto la cancellazione dei peccati del suo popolo: Il Signore ha revocato la tua condanna, … tu non temerai più alcuna sventura! Non si tratta semplicemente del perdono, sempre promesso e sempre concesso al cuore contrito. Si tratta di un evento nuovo, un cambiamento interno del cuore, non mai visto fino a quel momento … Fu predetto con parole appassionate dai profeti dell’esilio, ma adesso Giovanni ne vede il compimento, addirittura sente il calore del fuoco che brucerà ogni male dell’uomo, abolendo ogni senso di colpa e di condanna, chiamandolo alla sua vera vocazione originaria, sorprendente: la partecipazione alla gioia ardente e rigenerante di Dio, come aveva intuito Sofonia: il Signore Dio … gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia». Ben più che perdono! “Incredibile” partecipazione alla esperienza di gioia di Dio! L’unica dinamica capace di far sussultare e purificare alle radici il cuore dell’uomo … Pare una voce flebile, a non farci caso, ma quanto potente è la gioia che è nato nel cuore qualcosa di nuovo, impensabile! Questa metamorfosi del cuore si prepara con piccole cose (piccoli passi di risposta alla voce), che Giovanni suggerisce alla gente che gli chiede: che cosa dobbiamo fare? Minuscole risposte alla domanda importante, lo spartiacque della conversione. La stessa di Pentecoste (At 2,37). La domanda è già il primo frutto dello Spirito in arrivo! Che smuove il cuore da ciò che si sta facendo, per farci desiderare ciò che ancora non è si è capaci di fare. Il cuore è entrato in tensione, in attesa di qualcosa di “oltre”. L’autenticità è garantita dal cambio del baricentro interiore, che spalanca il cuore al fratello o sorella che è nel bisogno, per intessere rapporti nuovi, con un piatto di minestra in più, o la tunica non usata, con la bolletta dei pubblicani non alterata, con la violenza dei soldati, che diventa rispettosa benevolenza …
… tutti, si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo
Per i generosi che vogliono darsi da fare, è una tentazione inevitabile quanto micidiale, questa, nella lunga scarnificante sofferenza della fame, del bisogno, dell’attesa – di scambiare l’aiuto, la guida, il gruppo, l’amico, o il progetto affettivo, politico, economico … con lo “sposo” – il senso finale della vita. Giovanni si preoccupa di smentire questa illusione, questa specie di strisciante adulterio della fede, perché lui è il prototipo dell’amico fedele fino alla morte, l’uomo più vicino allo sposo, al Messia che viene! Eppure conferma: “io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali di Gesù”. Giovanni, l’evangelista, gli darà spazio per spiegare più lucidamente questa sua totale indegnità (inadeguatezza) riportando le parole preziose con cui il Battezzatore ci radica alla inconvertibile durezza della nostra terra (il cuore di carne), che vorrebbe accogliere i semi per divenire feconda, ma è capace soltanto di spine e triboli: Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui … Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. (Gv 3,28ss)
Che strana distanza e contiguità tra cielo e terra ci viene continuamente ribadita, lungo tutta la Bibbia! … da Adamo, fatto di terra, animata da alito di cielo, (e i pasticci che sono venuti da questa contraddizione congenita!), fino al “Padre nostro” che è sempre lì, nel suo compiersi mai esaudito: “così in cielo come in terra”… per arrivare alla nostra fede di oggi, in tormentata tensione tra queste due polarità: “cosa fare, in terra?”, (i piccoli passi dalla durezza di cuore, verso la conversione, cioè il cambiamento dei rapporti) e come continuare “a stare nel Regno”- nella situazione di tutti, senza fuggire o ritagliarsi nicchie spirituali, che lasciano intatti la sofferenza e il dolore della gente. Il Vangelo non è un progetto storico di giustizia politica, anche se annuncia instancabilmente le esigenze della giustizia. Con la confessione appassionata di Giovanni, di non essere il Messia, è tolto ad ogni uomo e ad ogni suo progetto la presunzione messianica: “Io vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni, e il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”. E il Regno di Dio non è, appunto, un progetto umano – è seminato nella storia e la fermenta, ma non è di questo mondo. Giovanni ha denunciato come nessun altro la necessità di immergerci nell’acqua della propria totale incapacità di essere giusti di fronte a Dio. Non potrà più esistere progetto storica o dottrina morale o tantomeno personaggio storico col timbro del messia. Eccetto Colui che Giovanni ha indicato.
Costui vi battezzerà in Spirito santo e fuoco! Gesù si ricorda e ribadisce questa profezia di Giovanni su di lui: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” (Lc 12,49s). L’angoscia gli viene dalla consapevolezza che finirà come Giovanni. Egli porta davvero il giudizio escatologico (definitivo, senza più altra possibilità dopo di lui) ma assumendo il male e la sofferenza su di sé, per amore. Dunque il fuoco dello Spirito lo brucerà, lui e il nostro male che si è caricato sulle spalle, interrompendo la catena di contagio reciproco che lega ogni uomo all’altro, ma invece riconciliando tutti nel suo sangue. Questo fuoco dello Spirito, che, mentre si compiva, gli ha bruciato il cuore tra desiderio e angoscia, è quello che a Pentecoste, conquistata la pace del cuore, donerà ai suoi : “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo”(At 2,3s). Paurosi rianimati, peccatori perdonati, singoli e gruppo … avvolti nella passione ri/creatrice di Dio.

giovedì 10 dicembre 2009

No non è Repubblica e nemmeno l'Unità

Un assegno di oltre 17 milioni di euro per chiudere una vicenda vecchia di vent’anni. La vicenda è quella di Imi-Sir e a pagare, qualche giorno fa, è stato Cesare Previti. Avvocato, ex ministro della difesa, ex parlamentare della Repubblica fino al 2008, condannato in via definitiva tre anni fa per corruzione in atti giudiziari per quella vicenda. A incassare è Intesa Sanpaolo, prima banca del Paese, subentrata negli anni all’Imi, l’Istituto mobiliare italiano, dopo la fusione con il Sanpaolo di Torino.

Previti esce così definitivamente, con un assegno arrivato nelle casse di Intesa Sanpaolo dopo un piccolo giro del mondo iniziato nei conti correnti di una banca delle Bahamas e transitato per una finanziaria del Liechtenstein, una vicenda che ha segnato profondamente le cronache politiche e giudiziarie del paese. E evita il rischio di un nuovo processo, questa volta per riciclaggio, in relazione ai 34 miliardi di lire che secondo le ricostruzioni dei magistrati sarebbero finiti nelle sue disponibilità quale «ricompensa» per la sentenza che impose ad Imi il pagamento ai Rovelli di quasi mille miliardi di lire. Un accordo standard proposto dai legali di Previti guidati da Romano Vaccarella nei mesi scorsi e accettato dalla banca. Con il quale, in sintesi, Previti si impegna a pagare senza dover riconoscere né l’origine né la titolarità del denaro e l’istituto si impegna a non andare avanti con le sue pretese nelle aule di tribunale, corredato da un accordo di riservatezza tra le parti.

Con il pagamento, il gruppo bancario viene risarcito per una vicenda iniziata nel lontano 1993, quando l’allora Imi venne condannato in via definitiva a pagare 678 miliardi di lire, più le tasse, agli eredi del finanziere Nino Rovelli. Una sentenza «comprata», stabilirà in via definitiva la Cassazione nel maggio del 2006, dopo dieci anni di indagini e processi, condannando Cesare Previti a sei anni, con il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Giovanni Acampora e Attilio Pacifico.

Dopo quella sentenza, l’allora presidente del Sanpaolo (che nel frattempo aveva comprato l’Imi), Enrico Salza, prende carta e penna e scrive un esposto alla procura di Monza per riportare nelle casse della banca la somma pagata nel 1994. Da quell’esposto parte una caccia al Tesoro senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, con la guardia di finanza di Seregno, coordinata dal pm Walter Mapelli, che rintraccia complessivamente circa 250 milioni di euro sparpargliati ai quattro angoli del globo. Quattro trust anonimi, una sfilza di società-schermo e di conti correnti per occultare il denaro frutto della corruzione tra Montecarlo, le Cayman, Singapore, il Costarica, i Caraibi, il Liechtenstein.

Compare allora nelle cronache l’isolotto di Labuan, scelto da Salgari per ambientarci le avventure di Sandokan e dai Rovelli per nasconderci una piccola parte, qualche milione, del loro tesoro. È successo che nel frattempo l’isolotto della Perla anelata dal pirata è diventato un paradiso fiscale dei più riservati e sicuri, luogo ideale per piazzare un conto corrente con uno spicchio dei famosi mille miliardi. Nel dicembre di due anni fa gli eredi di Nino Rovelli - la moglie Primarosa Battistella e i figli - proporranno un accordo a Intesa Sanpaolo, che è subentrata al vecchio Sanpaolo Imi dopo la fusione con Banca Intesa. Paghiamo 200 milioni di dollari, dicono i Rovelli alla banca, e chiudiamo questa storia che ha il suo primo inizio nel 1982, quando Rovelli cita per la prima volta in giudizio l’Imi. La banca accetta, i Rovelli iniziano a pagare: una prima tranche arriva nel primo semestre del 2008, 67 milioni di euro. Una parte manca ancora all’appello.

Non è finita, dice la banca. Ad incassare i soldi dell’allora Imi non furono solo i Rovelli ma anche i corruttori, Previti e Acampora. Parte da lì il «confronto» con i legali di Previti. Il rischio per il loro assisitito è quello di un nuovo processo, questa volta per riciclaggio. Un tira e molla che arriva fino a qualche giorno fa quando viene staccato l’assegno e Previti esce definitivamente, con una condanna a sei anni in più e 17 milioni in meno, dalla lunga storia di Imi-Sir.
di GIANLUCA PAOLUCCI in LaStampa.it

martedì 8 dicembre 2009

Per la prima volta un uomo – anzi una donna! – non ha paura di Dio!

ho avuto paura!
…man mano che si avanza negli anni, e in più, se capita la grazia che ci sono meno cose da conquistare e da difendere … ecco, si vede più chiaro cha al fondo di tanti (tutti!?) i problemi e angosce e conflitti che ci dilaniano ci sta proprio quanto diceva, nel suo timido tentativo di difesa, Adamo: ho avuto paura! Non degli altri. Di me stesso. Con tutti i tipi di turbamento o di panico o di sottostima o di rabbia o di autocorrosione… che questa dolorosa sensazione comporta … Di essere scoperti. Scoperti, anzitutto di fronte a me stesso, atrocemente insufficiente e inadeguato, e perpetuamente e inutilmente indaffarato a coprirmi.
“Ma chi ti ha detto che eri nudo? … Sono nato così! e poi dopo è sempre stato così. Io, non c’ero prima, quando (dicono) è avvenuto il male che ho dentro, con sempre qualche vergogna da nascondere, di cui arrossire, e cercare affannosamente di superare, maldestramente aggiustare, amaramente piangere…
E così, il regalo bello e sorprendente della nostra umanità, il mondo e tutte le cose che contiene e l’universo in cui è contenuto, che mi è dato da esplorare, godere, lavorare, farne la casa – e la donna (o l’uomo) per cui sono fatto… con cui imparare ad amare – e gli altri (fratelli e sorelle!?), con cui crescere e progettare e condividere la vita e inventare sempre nuove cose … sono diventati interlocutori difficili, estranei o nemici, perché anche con loro mi devo nascondere, un poco o tanto. Per paura! Come loro con me! Il cuore non è mai libero d’essere umilmente e nudamente tutto se stesso. E l’amore, se va bene – e non muore – è rattrappito! Non innesca la sua capacità (che lui solo ha!) di scaldare e purificare e aumentare sempre più… per ‘umanizzarci’, togliendoci di dentro la tristezza del destino di regressione: essere fatti di terra e dover tornare terra inconsistente. Polvere! cioè niente!
… avvenga a me secondo la tua parola
La parola… è quella che aveva fatto il mondo, perché era prima del mondo. La parola di Colui che è tutto quello che può essere. E perciò non ha mai paura ed è contento di sé! E allora dice parole di amore e di bene. La sua parola è l’unica cosa che non è una cosa, come le altre … un dato scientifico, cioè un rapporto di necessità, di causa/effetto in campo fisico, o chimico o biologico o psicologico. La parola è libertà e amore: è l’intimo, l’anima di una persona che si rivolge… a chi la può ascoltare. Il meglio è un’altra persona, unica capace non tanto di ubbidire, ma di accoglierti. Uno che non abbia paura di te.
Chissà per quale mistero è nata, e come si è fatta, questa ragazza, che non aveva paura, perché era piena di grazia, cioè sicura d’essere amata. Come fosse attaccata alla sorgente, l’amore prima della paura, quella che poi ha avvelenato dentro ogni uomo. Anche lei è turbata… ma non ha paura per sé, ha paura per l’altro, cosa vuol dire, che senso ha ciò che dice… cioè come accoglierlo. Quando capisce, è così aperta la sua accoglienza (‘capacità’) di libertà e di amore, che si affida totalmente ad un mistero inspiegato… sicura solo che nulla è impossibile al Dio che la ama.
… la storia fa un sussulto, come registreranno gli scrittori sacri, attenti ai sismografi profetici che segnano per noi le cose più importanti della storia, anche se apparentemente insignificanti per le leggi e le logiche del mondo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
… ecco dov’era la sorgente, prima che il male la inquinasse! ‘Il progetto era bello, incontaminato, turgido di amore e benevolenza. Forse la ‘benedizione’ (la parola creativa di bene e di amore) in qualche passaggio si era inceppata? Forse invece il mistero ci diviene ancor più incomprensibile perché lo vediamo a rovescio? Cioè, dal nostro punto di vista, già immersi nella situazione di paura. Come un torrente di lava ormai sceso a valle si raffredda, intorpidisce e muore, diventa pietra fredda… non si immagina neanche quant’è ancora incandescente il cuore del vulcano, a monte, da dove è partito…
Paolo, in qualche lampo di visione, ha intuito la storia dall’altra parte. Un caleidoscopio dove tutti i frammenti sconnessi e dolorosi della storia erano mirabilmente ricomposti in un “disegno del Padre, cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”. Non è stato un incidente di percorso. Tutto era misteriosamente previsto fin dall’inizio, quando ci aveva scelti (individuati e amati) prima della creazione del mondo, per ricondurci, lungo i sentieri chiaroscuri della storia, ad essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore. Cioè, anche noi trasparenti, senza paura! Il segreto è ancora la Parola, dove stanno scritte le tracce dell’azione amorevole di Dio, che si è chinato su noi e continua a proporci la sua “sfida” forte e amorevole alla nostra libertà, che chiamiamo grazia!. Per questo Maria, che nella pienezza del tempo l’ha accolta e fatta carne, una volta per sempre, per tutti noi, ci è madre e sorella.

sabato 5 dicembre 2009

Oltre Giovanni Battista, ma mai senza Giovanni Battista

In questa seconda domenica di Avvento, la Chiesa ci introduce – con le sue letture – in un clima di attesa decisamente più luminoso di quello presentato la settimana scorsa da Lc 21: «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre» – proclama il profeta Baruc; «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» – gli fa eco Isaia, citato da Luca… E Paolo, nella sua lettera ai Filippesi, non è da meno: «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù».
Tutta questa effervescenza ovviamente è legata al mistero del Natale di Gesù che – con l’Avvento – ci prepariamo ad accogliere; eppure l’attenzione non è ancora posta precisamente su di Lui: la Chiesa infatti ci invita a concentrarci (e lo farà per due domeniche di seguito) sul Precursore, su Giovanni.
Questo dato è molto interessante: la Chiesa infatti – per parlare della venuta di Gesù – invita sempre a farlo passando da Giovanni Battista. E questo da sempre, tant’è che tutti e quattro i vangeli attribuiscono grande importanza a questo personaggio e sottolineano come si possa iniziare a parlare di Gesù solo attraverso suo cugino…
Diventa indispensabile dunque anche per noi oggi, ripercorrere l’esperienza storica di quest’uomo (storica al 100%, data la puntigliosità di Luca nel collocarla nel quadro dei grandi avvenimenti storico-politici dell’epoca: «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto»). Lo facciamo lasciandoci guidare dalle preziose indicazioni contenute nel capitolo 1 del libro Con Marco in cammino verso il Regno del Monastero delle Carmelitane scalze di Legnano.


L’autore – p. G. Bettati – scrive infatti come «Anche oggi è necessario, per avvicinare Gesù e riscoprire la possibilità e – se volete – l’approfondimento di una nuova autenticità del nostro personale incontro con Gesù, incontrare prima Giovanni Battista». Egli è infatti la sintesi più riuscita del tentativo umano – prima di Gesù – di arrivare a Dio; Gesù stesso infatti di lui, dirà: «In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista», Mt 11,11.
Ma questo non è vero solo storicamente – per cui per tutti quelli che sono venuti cronologicamente prima di Gesù, la massima aspirazione religiosa è rappresentata da Giovanni –, ma è vero soprattutto esistenzialmente: anche per chi è nato dopo Gesù e anche per chi già l’ha conosciuto nella sua storia personale, l’esperienza del Battista rimane paradigmatica; dal punto di vista dell’uomo la sua rimane infatti l’esperienza emblematica della nostra ricerca religiosa. Giovanni Battista infatti è il «profeta penitente».
Nella Bibbia questo termine ha un significato un po’ diverso rispetto a quello con cui lo utilizziamo noi oggi, come sinonimo di “mortificazione”, che risulta infatti un senso un po’ parziale. «Penitenza invece è il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto convertirsi, girarsi cioè, verso un altro obiettivo che sia alieno da noi e che abbiamo scoperto. Per questo la prima reazione è – e in Giovanni si vede benissimo – far violenza su di sé e sugli altri e dire: “No. Stiamo sbagliando: adesso basta! Bisogna girarsi verso un’altra realtà e quindi mettere in crisi, strappare un po’ di involucro, un po’ di strutture per prendere coscienza che bisogna andare da un’altra parte”. […] Pensate a tutti i Giovanni Battista della storia e a quello che è necessario per ognuno di noi: le leggi, le pene, i castighi, le minacce, i ricatti a livello istituzionale e personale, a livello di comunità. Sono tutti Giovanni Battista: il tentativo, dall’esterno, di convincere noi stessi e la gente con questi grandi strumenti antropologici che l’uomo si è inventato lungo la storia [penitenza, digiuno, silenzio, celibato, ecc…] per scuotere uno e dirgli: “Guarda che sei lontano da Dio, bisogna cercare di arrivarci”».
Eppure…
«La coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile», «non converte il cuore. Potete fare tutto quello che volete: digiuni, penitenze ecc.; ma […] il cuore rimane tale e quale». Di questo «Giovanni Battista aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Da un lato dunque il fatto che «le penitenze non mettono in contatto la nostra storia di oggi con la salvezza del Signore», dall’altro il fatto che «la necessità di conversione, di senso della propria lontananza da Dio, di coscienza della propria inadeguatezza sono contemporanee». Oltre Giovanni Battista dunque, ma mai senza Giovanni Battista…
Infatti: certo che «un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» dice qualcosa dell’esperienza umana, anzi forse addirittura, come si diceva prima, è il massimo che l’uomo di per sé può fare (accorgersi del male che fa o del bene che non fa e cambiare strada), ma Gesù è un’altra cosa.
Infatti «il dolore, la sofferenza del mondo, quindi la penitenza, vanno tenuti in conto; però non sono la chiave interpretativa della storia, come invece per Giovanni Battista. Tutta questa realtà non è più la chiave d’interpretazione del mondo. È a motivo di ciò che il Battista è valido, è contemporaneo, è profeta, è precursore; ma è prima di Gesù Cristo e “Non è degno di sciogliergli i legacci dei sandali” (Mc 1,7). Perché? Perché il Signore ha portato un’altra parola che riavvolge tutta questa difficile, contraddittoria realtà della storia, nella paternità di Dio».
«C’è [infatti] come un crinale che divide, attraversa i popoli, la storia, la Chiesa, i gruppi, le famiglie e il cuore dell’uomo e che separa e unisce – il crinale fa questo – il mondo della necessità e il mondo della grazia, il Vecchio e il Nuovo Testamento. […] Gesù si è inserito nel tessuto di tutta l’umanità nel paesino di Nazareth, vivendo storicamente, accettando i ritmi biologici, l’economia, la religione, la politica del suo paese; in questa realtà necessaria, dove le cose vanno avanti perché sono sempre andate avanti così o poco diversamente, con la possibilità nuova che noi chiamiamo grazia. Si chiama grazia perché è gratis. Non è la conseguenza del meccanismo delle cose, non è la conseguenza dell’economia, né della santità di sua madre, né della bravura del maestro che gli ha insegnato la Bibbia; non è la conseguenza del Tempio, dove si prega Dio nell’ombra, nel cuore, ecc… Non è la conseguenza di tutte queste cose, neanche le più alte. Neanche di Giovanni Battista. È un puro regalo».
«Se uno non capisce il salto di qualità, allora ritiene che Gesù Cristo sia un grande profeta, un grande fondatore di religione, sia quello che mette l’uomo nella situazione di poter qualche volta incontrare Dio. No, non è niente di tutto questo! Altrimenti lo si confonde con un Giovanni Battista, con un Budda, con un Confucio, con un grande uomo, con Marx, con Freud, con chi ognuno ritiene sia stato un grosso sconvolgimento, un grosso orizzonte nella propria vita», un “uomo normativo” lo chiamano le scienze umane…
«Gesù [invece] è un’altra cosa! È quello che dà la possibilità all’uomo di vivere veramente da uomo; con una grazia di cui l’uomo non è capace (grazia vuol dire questo!) e viene dal di fuori. Ecco: questa è appunto l’esperienza ricevuta in regalo [gratis] dopo che l’uomo ha riscontrato che anche con tutta la dedizione possibile [Giovanni Battista] si ritrova seduto per terra. Allora è possibile la venuta di Gesù», che infatti non è da cercare, ma da accogliere!

venerdì 4 dicembre 2009

La Parola di Dio venne su Giovanni, nel deserto

Le seconda domenica di avvento, nei vari cicli liturgici, è sempre dedicata a Giovanni il precursore, perché nessuno come lui ha atteso e indicato da vicino il Messia salvatore. In questo, nessun “nato di donna è più grande di lui”. Giovanni è nella Bibbia il segno e il simbolo dell’insuperabile distanza e insieme dell’indicibile vicinanza tra Dio e noi. La Parola di Dio che “fu su Giovanni” nel deserto, indicata da Luca con precisione storica inconsueta, è la stessa che ha chiamato i patriarchi e i profeti fin dai tempi antichi. È la Voce che sveglia Abramo, è la fiamma che brucia il roveto ardente senza consumarlo, la colonna di fuoco o la nube luminosa che indica e nasconde la strada nel deserto, la luce o l’ombra che guida le vicende tristi o liete della conquista della terra promessa, che sostiene la missione e perdona i peccati della casata di Davide, custodisce la gloria e la fragilità della legge e del tempio e, infine, rigenera la fede incrinata dei deportati dall’esilio, quando tutte le promesse di Dio sembrano fallite … E allora Baruch, assieme a tutti i profeti della speranza che non demorde, ci annunzia: deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio, per sempre … perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Nella conversione s’incontrano la disponibilità dell’uomo e l’intervento di Dio. La Voce di Isaia che risuona in cuore a Giovanni (… preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri … ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato …), è ciò che Baruch attribuisce alla iniziativa di giustizia e misericordia di Dio (Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna, colmare le valli …).
Credere nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … implica la costante consapevolezza che tutto è tenuto in movimento dall’incolmabile assenza di Dio, che noi soffriamo e piangiamo nei momenti di dolore e di crisi, attribuendone la causa alle cose che ci vanno male. Mentre, dentro queste, è la desolante sua lontananza che scava nella nostra precarietà e nella nostra sordità, il vuoto del deserto. E rimette l’uomo di fronte alla sua nuda verità! Allora soltanto si riscopre che il principio di discernimento e di orientamento che ci dona il deserto è la Parola di Dio. Ci vuole il coraggio dei profeti per accogliere questa Voce severa, consolante e scarnificante, poiché mette in crisi e mina alle radici le impalcature psicologiche create in noi dalla necessità di sopravvivere nella nostra piccola storia, con gli strumenti psicologici o gli stratagemmi affettivi offerti dal tessuto di relazioni, acculturazioni, tradizioni e proiezioni del passato, nel quale siamo impaniati. La Voce denuncia continuamente che la nostra vita è insidiata da questo verme inarrestabile che corrode dall’interno i tesori auto costruiti dall’uomo, gli fa il vuoto dentro, avvisandolo che Dio (l’Amore) è l’ultimo futuro di quanto ha esistenza. Tutto quello che l’uomo pensa o costruisce o accumula, senza amore, non ha senso, diventerà polvere. L’inquietudine non pacificabile che nasce da questa voce è … il lucignolo che non si consuma, anche in noi. Rimette in tensione vitale la coscienza, la spinge ad andare “oltre”, a non lasciarsi imprigionare nei limiti del presente, ma aprirsi alla faticosa esperienza della libertà. Giovanni compie in sé il cammino dei profeti e conduce il millenario pellegrinaggio dell’Alleanza antica al Messia definitivo, quello che vive in sé, nella sua carne, fatta come la nostra, il mistero paradossale della presenza “corporale” di Dio, che viene ad abitare proprio nella “lontananza umana”. Dove Dio,”il santo dei santi” – il separato da tutto – non può assolutamente stare. Adesso – qui! – dopo le instancabili speranze dei profeti e dei poeti e le lacrime desolate dei poveri senza consolazione, è diventato umanamente visibile l’invisibile, è apparso lo splendore velato che ogni creatura attendeva, gemendo come nelle doglie del parto. Adesso “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”

Il messaggio centrale di Giovanni, non è apocalittico, ma storico
Alla coscienza del credente, risvegliata dalla Voce, la terra si rivela come il mondo dell’amore affidato alle nostre mani: rimane la nostra casa – l’unico luogo ove è possibile ritrovare la libertà per imparare ad amare. La terra ci affratella tutti (“ogni uomo”) nel dolore e nel peccato. Pur continuando a vivere in un mondo di sperequazioni ed ingiustizie, di odio ed abbandono, all’uomo che ascolta la voce (il credente) è indicata “la salvezza di Dio” (il cuore dell’Essere). E ricomincia a combattere la sua lotta, perché tutti si aprano all’amore, tutti possano conquistare e essere conquistati dallo Spirito. È Giovanni che annuncia un battesimo non di acqua, come il suo, ma di fuoco, che Gesù porta sulla terra a chi crede in lui. Perché sulla terra l’amore non è un dato istintivo, ma è conversione dal proprio egocentrismo che paralizza l’uomo nella paura di morire. Una quotidiana conquista che ci riconduce alle radici della nostra convivenza collettiva, ci porta dentro le contraddizioni affettive, politiche ed economiche del nostro vivere. Ci obbliga non a rifugiarci in qualche nicchia ecologico / religiosa, ma a farci carico delle contraddizioni del mondo
Il principio fondamentale di funzionamento della città (il consorzio umano) è il potere, il “necessario” dominio dell’uomo sull’uomo, l’imposizione della sua parola umana, che tenta maldestramente di spacciasi per parola assoluta (divina), per necessità o per convinzione, per ricatto o per violenza. Il peccato originario è di questa natura: usare come criterio di vita la propria parola, trascurando o rifiutando quella di Dio. Ed il giardino primordiale diviene la terra inospitale, e le relazioni con Dio, con la donna e con il mondo intrise di sofferenza, delusioni e conflitti. La “civiltà” è l’elaborazione “ordinata” (dal potere!) dell’immenso cantiere antropologico, dove l’uomo tenta l’organizzazione del convivere civile, modellando il suo mondo, la sua casa e la concatenazione delle relazioni in essa: famiglia e società, piazza e strade, mercato e fabbriche, scuole e caserme, banche e templi… La storia della civiltà è la storia della prometeica e ambigua umanizzazione dell’uomo, il luogo ove oppressione e liberazione, costruzione e distruzione, convivenza e divisione, guerra e pace, si intrecciano in modo indistricabile.
Il principio di discernimento e di giudizio che viene dal deserto è invece la Parola di Dio, che denuncia i dirupi e gli abissi, i sentieri tortuosi e senza meta, per insegnarci a liberarcene e cominciare a percorrere vie diritte e piane. Nel «deserto» il cuore si apre all’esperienza amara dell’impermanenza di tutte queste figure (Vannucci), pur necessarie, costruite da noi lungo una vita, ferite dall’angoscia del febbrile nostro sbattersi esistenziale. Si spalancano allora spazi nuovi, verso i quali incamminarci per divenire quello che nel cuore siamo chiamati ad essere – la Voce ci chiama ad essere. Allora l’assenza che ci morde dentro ci apre ad un «oltre», un più vasto cammino umano, un diverso modo di essere, desiderato più che formulato, intuito più che definito. E le immagini bibliche suggeriscono la ricerca di ciò che c’è da demolire o da raddrizzare: Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate
La “conversione” o il battesimo di “conversione” (cambiate mentalità) a cui chiama il Battista, nelle traduzioni correnti rende insufficientemente l’idea del termine semitico «teshubah», il ritorno a Dio, cuore dell’Essere (Vannucci). Giovanni annuncia una novità assoluta: una volta rimesso in comunione al suo vero centro divino, attraverso un battesimo di fuoco, il credente riesce ad accettare la vita di tutti i giorni come un sicuro pellegrinaggio ove rimane integro il suo compito di spianare e coltivare, costruire e raddrizzare … Accetta la vita concreta con le sue scintille e il suo vasto contorno di nebbia, con i successi e gli insuccessi, con la stima e il discredito, le risorse della giovinezza e la trepidazione dell’invecchiamento, con le delusioni e le speranze che l’accompagnano. Ma ormai è chiara la sua grazia e il suo destino, in Cristo, – quello per cui anche Paolo prega per i suoi amici! – ed è questo: che il vostro amore ( la vostra agàpe!) cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento – perché questa è la maturità cristiana dell’ “uomo compiuto”.
… con la certezza che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù!

mercoledì 2 dicembre 2009

Ciò che sta in cielo e in terra

Centrale di Tavazzano: notare la limpidezza dell'aria
Simpatico il nostro "supercattolicone" Formigoni... Lui sì che se ne intende delle cose di dio (il minuscolo è voluto... provate a immaginare perché): Finalmente dopo anni di battaglie (CODACONS: leggi il documento denuncia in formato pdf), qualcuno (santa magistratura!) ascolta il grido di dolore (polmonare) dei milanesi e lui se ne esce con questa frase di elevata profondità teologica: «...ma questa è una cosa ridicola, non sta né in cielo né in terra».

Forse bisognerbbe cercarla nell'aria?!...

Ed ecco allora la staffilata in perfetto berlusconese del nostro "bel Roberto": "Uno si fa la domanda e vuoi vedere che c'entra con il fatto che siamo in campagna elettorale? Che il pm oggi decida, come è sempre stato, di accompagnare la mia campagna elettorale con avvisi di garanzia?".
Bella domanda (con esplicita risposta)... alla faccia dell'Imitazione di Cristo (a meno che l'Unto non si chiami Silvio). Il ché mi fa sorgere una domanda e un dubbio: "E con questa permanente campagna elettorale, quando la magistratura potrebbe trovare un 'buco' per fare le sue inchieste?". Ed ecco il dubbio: "Vuoi vedere che questa permanente campagna elettorale con cagnarra connessa sia finalizzata (tra l'altro) a stigmatizzare e quindi stoppare ogni azione della magistratura?".

Un avviso di garanzia non è una condanna... e allora un politico che si prende cura del "bene comune" non dovrebbe aver a cuore la salute dei suoi cittadini e favorire ogni ricerca di responsabilità? Già! perché qualcuno sarà pur responsabile del numero crescente di tumori e malattie polmonari dei milanesi... Stupisce semmai che la denuncia parta dal CODACONS e non dalle amministrazioni locali (I leghisti che si vantano di essere nel territorio e di occuparsi della purezza "culturale", a Milano respirano con che aria?)...

Vabbé che lo smog "cade dal cielo" ma non necessariamente "arriva dal Cielo!"

Che gli amministratori locali "si tirino fuori" da ogni responsabilità, questo sì «...non sta né in cielo né in terra»... ma solo (?) in Lombardia!

A meno che non sia colpa della "Madonna nera di Czestochowa" di cui i ciellini erano particolarmente devoti... almeno fino a quando lo era Giovanni Paolo II... Che lo siano ancora (devoti) non lo so... quello che adesso è da chiarire è se la "Madonna nera di Czestochowa" sia nera di rabbia o di smog... e forse una cosa non esclude l'altra!

Ah! dimenticavo... sapere che «Il presidente della Regione Lombardia è limpido come acqua di fonte» non rende più pura l'aria... a parte il fatto che se ti facessi una visitina ai polmoni... ne saresti meno convinto anche tu... Buona tosse!
PS.: Posso permettermi di chiedere qualche controllo anche nel lodigiano, alle falde (sic!) della Centrale di Tavazzano?
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