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giovedì 13 marzo 2008

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo

La passione, morte, risurrezione di Gesù è il “racconto primo”, il racconto originario attorno al quale è nato il Nuovo Testamento e tutto il cristianesimo fino a noi. L’Esodo era il “racconto primo” del Testamento Antico, la storia di cosa capita ad un popolo quando Dio si occupa di lui… e di cosa capita a Dio quando si occupa di un popolo. Questo è il racconto, la storia “incredibile”, di cosa capita a Dio, se si fa uomo. E, insieme, il racconto di cosa capita agli uomini e alle donne, a incontrare Dio “apparso in forma umana” nella loro vita. Ecco perché gli amici di Gesù hanno una storia da raccontare, che gli esplode in cuore, un dramma doloroso e gioioso insieme: doloroso perché è l’omicidio, preparato e programmato, del loro grande amico e maestro – e anche loro l’hanno rinnegato e abbandonato; gioioso perche ne è scaturito il perdono e la salvezza del mondo ‑ e non solo la sua ma la loro rinascita alla vita (adesso ne sono convinti… da morire!). Pietro annuncia la bella notizia ribadendo in ogni occasione: “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!
Un dramma unico nella storia, con tanti personaggi, che ruotano attorno a questo protagonista “misterioso”, il quale, di fronte alla sfida diretta di Caifa sulla sua misteriosa identità divina (dicci se sei il Cristo, il figlio di Dio?) non solo finalmente consente, ma ne afferma la coincidenza con la propria umanità crocifissa e glorificata (“fin d’ora” vedrete il figlio dell’uomo che siede alla destra della Potenza e viene sulle nubi del cielo”). Era sempre stato reticente su questo arcano segreto messianico troppo facilmente equivocabile. Adesso sta per morire, abbandonato da tutti, nessuno più equivocherà sul Messia che deve venire con potenza e forza… perché invece lascia vedere ai suoi discepoli, nell’orto, e poi a tutta la gente – nei processi, nelle torture, sulla strada del calvario ‑ il mistero imperscrutabile della sua persona umana e divina: “pur essendo di natura divina, svuotò se stesso assumendo la condizione di servo, obbediente fino alla morte e alla morte di croce…
…questa via crucis che lo sprofonda negli abissi della sventura umana, è ancor oggi il cammino nel quale ognuno di noi deve entrare, il dramma che ci coinvolge, da cui non possiamo più esimerci, consapevoli o meno. Perché lì Gesù ha svelato all’uomo la sua verità. Ha patito sulla sua pelle il senso delle grandi domande sulla vita e la morte, l’amore e l’odio, il corpo e lo spirito… sulla speranza e la disperazione - e sull’incomprensibile silenziosa assenza di Dio da questo mondo.
…d’ora in poi questo dramma rimane incancellabile nel cuore dell’uomo e la nostra storia stessa ormai si svolge all’interno di questo racconto e ne rivive (in vario modo) il percorso nelle sue tappe drammatiche: il Getsemani e la decisione angosciosa di consegnarsi totalmente al Padre; la miserabile ragion di stato degli uomini di potere che devono torturare ed eliminare (magari loro malgrado) colui che non svende la libertà di amare; la debolezza umana di chi è stato amato, ma tradisce o rinnega l’amore, per non subire la stessa sorte mortale; il calvario, ove l’innocente è crocifisso tra i delinquenti e la morte segna la sua ultima vittoria nel grido inarticolato del Giusto, abbandonato da Dio; e poi la fine di tutto, i discepoli spariti… le donne “sedute di fronte al sepolcro” impietrite – la loro speranza seppellita!
È lungo questo tragico percorso che Gesù è diventato la chiave per intendere tutta la Scrittura, adesso lo devono capire, e Gesù glielo rispiega varie volte dopo la risurrezione. Come capiscono che cosa voleva dire definendosi “via, verità e vita”. Perché è lui la chiave anche per intendere e vivere la storia di ognuno e del mondo. La sua “ora”, che incombe su di lui da tutta la vita, suona non tanto per lui, che, nonostante l’angoscia mortale e la debolezza della carne, era pronto. Ma per noi, perché ormai la croce è il segno e la misura di verità della nostra esistenza e del suo senso. Nel groviglio inestricabile del nostro cuore affamato scopriamo cos’è davvero l’amore e l’amicizia, rispetto all’improntitudine presuntuosa delle parole e l’inconsistenza della fedeltà. Siamo messi a nudo, perché chiamiamo ‘amore’ l’appropriazione dell’altro per il nostro bisogno di gratificazione, sicurezza o consenso. Crediamo ‘dedizione’ la compiacenza di appartenere al personaggio o al gruppo importante o vincente. Questo amore egocentrico è pronto a tradire e rinnegare, appena il suo “oggetto amato” diventa debole e povero, e non ha più niente da darci…
Allora non c’è che il silenzio dello scoramento, l’impressionante silenzio di Gesù! Nonostante qualche invito accorato e velato agli apostoli a vegliare con lui, accudirlo un poco… nessuno osa entrare nell’abisso che lo abita. Allora li lascia dormire… il sonno pesante che censura e anestetizza il dolore. Ma non risponde più né a Caifa, né a Pilato, né ai soldati che lo torturano, se non il minimo, e poi tace. Non ci sono parole che possano dire la solitudine interiore che lo devasta… Come può spiegare che è l’amore per l’uomo che l’ha condotto a questa solitudine, se non ha attorno nessuno che lo voglia provare?… Ha tentato qualche accenno agli amici più intimi, nella fiducia che poi si ravvedano (prima che il gallo canti… mi rinnegherai tre volte) e persino a chi lo sta tradendo, per fargli misurare che l’amicizia non ha mai pentimenti (amico, perché sei qui?).
Ha vissuto l’amore fino alla morte, perché l’amore non è difendibile, non ha armi o eserciti… (metti la spada nel fodero: chi vuol difendere l’amore con la spada o la forza degli eserciti entra nella logica della violenza e ne sarà travolto). L’amore non è neanche difendibile con le armi della ragione o del buon senso o per preservare altri beni che ci sembrano altrettanto grandi… Neanche può essere garantito dalla giustizia dei codici civili ed ecclesiastici, che non possono contenerlo e militano sempre sotto il motto unicuique suum: a ciascuno quanto gli spetta – dunque ancora la competizione! In nessun codice sarà mai ammissibile che uno si assuma le sventure e i peccati degli altri… Il crocifisso è il mistero dove scoppiano e svaniscono per insensatezza tutte le nostre facili obiezioni: ha salvato gli altri… se badava un po’ più a sé! - -se è figlio di dio (se la sua strada è quella giusta), perché dio non lo difende?
Di fronte al crocifisso tutti questi sono modi più o meno felpati di salvare la propria vita… e abbandonare il malcapitato alla sua sorte. Rinnegando così l’amore, che esiste solo crocifisso. Una inesorabile sorte incombe su chi sceglie di amare (sceglie!?… “ha in dono”!). Ma non è una minaccia dall’esterno, è la sua stessa dinamica costitutiva: essere dono di sé stesso all’altro per la salvezza di tutti! L’amore è totalmente incapace di salvare se stesso. Il senso dell’amore è far crescere la vita dell’altro con la propria vita. Di alternative ne esiste una sola: mangiare più o meno garbatamente la vita dell’altro – oppure, insieme, affrontare la stessa avventura... “cristiana” di lasciarsi mangiare!
Gesù aveva premesso l’Eucaristia alla sua passione, proprio per spiegarne il senso, perché potessimo farne memoria e nutrimento, per sempre… Fino a quando celebrerà, come ha promesso, la cena definitiva con tutti noi, nel Regno del Padre suo e nostro. L’eucaristia, in quanto compartecipazione alla sua passione, diventa la nuova alleanza per la remissione dei peccati, cioè per la salvezza del mondo. Non perché Dio abbia bisogno di un sacrificio di sangue, ma perché l’amore agli uomini e al Padre non ha misura… “Ha confidato in Dio”, come dicono i sacerdoti e i capi, sarcastici sotto la croce, che contestano (come noi!) proprio il cuore del mistero di suo Padre: che lo ama di un predilezione che non lo libera dalla croce!
La resurrezione, che è raccontata dopo la passione e la morte, in realtà è interna alla stessa crocifissione. Chi muore così, ha già vinto la morte perché non ne ha subito il ricatto, ma ha consegnato tutto il suo spirito all’amore. Per questo, ormai, il suo corpo non può rimanere nella tomba, è incontenibile in questo mondo di morte. Eccone i segni premonitori: il velo del tempio è stracciato, perché non serve più a nascondere un Dio esibito come un delinquente crocifisso; le forze invincibili che tengono legate la terra e le rocce e la morte sono sconvolte… e comincia dentro le tombe il misterioso contagio della risurrezione (molti corpi dei santi che vi giacevano risuscitarono… e dopo la risurrezione di lui, apparvero a molti…). Il centurione, infine, e quelli che erano con lui (strani “angeli” dell’ultima definitiva notizia della storia religiosa!) – anche loro sconvolti da grande spavento, annunciano: Davvero costui era il figlio di Dio!

…non sapevano di annunciare la Pasqua!

domenica 9 marzo 2008

È solo la fiducia nella Vita che colloca convincentemente la morte

Ed ecco che la liturgia della Quaresima, avendoci accompagnato, nel suo svolgersi, all’incontro con le grandi questioni della vita – quelle che la rendono appunto umana, umanizzata (il male – Mt 4,1-11; l’identità di Dio – Mt 17,1-9; la fonte-senso della Vita – Gv 4,5-42; il valore normativo dell’incontro personale con Gesù – Gv 9,1-41) – ci porta ora nel problema dei problemi, nell’ostacolo insormontabile, nell’ineluttabilità che soffoca il gemito vitale che è in noi… la morte… Il vangelo di Giovanni 11,1-45 infatti pone proprio in campo una scena chiarissima di incontro-scontro con questa realtà.
Interessante che protagonista di questo imbattersi sia proprio la libertà di Gesù; interessante soprattutto perché, mentre noi tendenzialmente parliamo del rapporto Gesù-morte come del rapporto Gesù-e-la sua propria morte, qui invece è messo in campo un imbattersi di Gesù con il mistero della morte di un altro…
E questo, da principio, ha un valore importante e confortante perchè ci rivela un Gesù, che anche in questo segue i percorsi comuni degli uomini: come tutti infatti si trova a confrontarsi con il mistero della morte, innanzitutto scontrandosi con la morte di un altro, proprio come avviene anche per noi che ci accorgiamo/ricordiamo del morire quando muore qualcun altro.
Neanche Gesù quindi nasce già capace di morire, di dare la vita, come se questo in lui avvenisse senza uno scontro con la drammatica umana. Anzi anche per lui, come per tutti, l’elaborazione della realtà del morire (del passaggio dal si muore, all’io sono destinato a morire), si dà dentro ad una drammatica storica, che nello scontro con la morte di una persona amata, mi anticipa la mia stessa morte e mi chiede un prenderne coscienza, che si evolve poi in un pensare la cosa, in un renderne ragione, in un’introdurla in un orizzonte di senso (sensato appunto).
Inoltre questo mettere in scena l’incontro della libertà stessa di Gesù con la morte dell’amico Lazzaro, ha un valore importante perché nel percorrere lo svolgersi di questa drammatica (anzi essendoci tirati dentro, come se anche noi fossimo là), emerge l’identità stessa di Gesù di fronte al male radiale, emerge chi lui sceglie di essere di fronte alla questione delle questioni, la sua singolarissima presa di posizione dinanzi alla morte: cosa, anche questa, tipicamente umana, perchè ogni uomo per vivere deve prendere posizione di fronte alla consapevolezza della sua propria morte: «chi ha paura di morire, ha anche paura di vivere», fa dire D’Alatri a Giuseppe ne “I giardini dell’Eden”. E infatti, gli fa eco Fabrizio Moro, nella sua canzone “Pensa”, che dice: «in fondo questa vita non ha significato se hai paura di una bomba o di un fucile puntato»; e chissà se sapeva di richiamarsi alla Bibbia stessa… nella lettera agli Ebrei, quando al capitolo 2,15 si dice: «per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita».
E allora, poste queste note introduttive, proviamo a percorrerla questa drammatica che Giovanni inscena…
Come dicevo siamo ancora una volta posti nel marchingegno giovanneo che ci chiede di lasciarci tirar dentro nella scena stessa. Non si può infatti leggere questo autore (e in generale nessun vangelo) come se fossimo gli spettatori di uno spettacolo da cui alla fine possiamo/dobbiamo estrarre un in segmento morale o un connotato di Gesù, dedotto appunto dal suo agire. No! Giovanni ci chiede di andare anche noi sul palco e interagire nel dramma: perché chi è uno, lo si capisce solo vivendoci assieme, interagendo con lui…
Solo per questa via scopriremo dunque qual è l’identità di Gesù; solo così ci sarà talmente prossimo da plasmarci l’anima, proprio come fanno quelli che, nel bene e nel male, vivono con noi.
Salendo dunque sul palco… vediamo che il racconto è molto lungo, compaiono diversi personaggi e ci sono anche ambientazioni diverse.
Dopo un’introduzione in cui ci viene detto che Lazzaro, fratello di Marta e Maria, è ammalato, vediamo che Gesù risponde a questa notizia riecheggiando le parole che aveva detto a proposito del cieco nato; in quella situazione infatti Gesù aveva subito svincolato la menomazione fisica del cieco dal peccato e aveva invece immediatamente messo quell’uomo in relazione a Dio «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Anche qui avviene la stessa operazione di legare intimante l’identità ferita dell’uomo (malattia) con Dio: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio». Segue poi subito la notazione che Gesù amava molto questi suoi amici e quindi in un certo senso ci aspetteremmo una certa urgenza nel raggiungerli… Invece: «rimase ancora due giorni nel luogo in cui si trovava».
Tutto questo denota una certa tranquillità di Gesù, che certo non ha fretta di arrivare da Lazzaro.
Scopriamo poi che in effetti qualche problemino nel raggiungere l’amico c’era; e glielo ricordano i discepoli stessi: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ritorni là?»; forse anch’essi un po’ preoccupati per la loro sorte, come fanno trapelare le parole di Tommaso: «Andiamo anche noi a morire con lui».
Fatto sta che Gesù sembra affrontare la questione in modo del tutto sereno, tant’è che commenta quanto sta accadendo quasi con parole di gaudio: «Lazzaro è morto e godo per voi di non essere stato là, affinché crediate».
Lo stato d’animo di Gesù però quando giunge sul posto e vede, una alla volta, le due sorelle, sue amiche, inizia a cambiare. Entrambe infatti gli propongono la stessa dolce e struggente rimostranza: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto».
Queste parole, che da un lato mostrano la grande fiducia di queste donne nel loro amico Gesù, dall’altro però introducono quest’ultimo dentro alla drammatica di quanto accaduto… Gesù respira qui la pesantezza che trasuda dalla sofferenza del cuore materno di queste donne… lo respira e gli entra come dentro…
Tant’è che già con Marta, alla quale pure dice parole di grande speranza e ancora tenendo ben saldo il riferimento della sua posizione di fronte alla morte («Io sono la risurrezione e la vita»), usa però toni che si caricano sempre più di pathos. Finché il culmine arriva quando al sopraggiungere di Maria «Gesù […] fremette interiormente, si turbò, […] pianse».
È frastornante per noi leggere queste cose di Gesù, soprattutto perché, come si vede bene scorrendo le parole che precedono questa falla che si apre nei suoi occhi, lo abbiamo visto finora molto tranquillo, sicuro, sereno. Non ci aspetteremmo certo questa cosa; verrebbe da dire anzi: ma se sapeva che la malattia di Lazzaro «non è per la morte, ma per la gloria di Dio», che «Lazzaro si è addormentato ma» lui può «risvegliarlo»; se addirittura aveva detto ai discepoli che godeva «di non essere stato là» affinché essi credessero e a Marta che suo fratello sarebbe risorto… beh… che piange a fare ora?
Beh, piange, perché sebbene egli abbia indubbiamente un riferimento saldissimo a cui fare appello nell’attraversamento della drammaticità della vita («Padre, ti ringrazio di avermi ascoltato. Sapevo bene che tu sempre mi ascolti»), tuttavia non viene mai meno alla tragicità che essa introduce nelle viscere umane… tant’è che ancora una volta di lui è detto che fu «scosso da un fremito in se stesso».
È non saltando questa drammaticità che Gesù stesso impara a costruire un orizzonte di senso in cui collocare anche la morte. Non la banalizza, non la considera semplicemente superabile con un miracoletto, ma ne vive la tragicità, se ne lascia scarnificare… e così facendo, le trova una collocazione… una collocazione che, per lui come per ogni uomo, o è persuasiva o, alla prova della vita, non tiene… La sua collocazione invece terrà… tant’è che Gesù… appunto saprà morire, dare la sua vita, rimanendo saldo al suo riferimento convincente: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». È solo la fiducia nella Vita allora che colloca convincentemente la morte.

E mi piace poter mettere qui in conclusione uno stralcio di un lavoro di Carlo Molari intitolato “Esperienza personale di fede nella maturità. La vita spirituale e la maturità della fede”. Egli parla infatti de I criteri della morte:

«Le riflessioni antropologiche non possono essere compiute senza un serio confronto con la morte. La morte, infatti, non è un incidente, bensì il traguardo ultimo di ogni impresa vitale e quindi è il criterio supremo della vita: noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. Partiamo da una metafora chiara. Il feto resta nel seno della madre finché diventa capace di venirne fuori in modo vitale. Per lui la nascita è la fine di uno stadio. Il che significa che tutto ciò che capita al feto è valutabile secondo il rapporto che ha con la fine che lo attende. Ciò che favorisce la sua uscita dal seno materno è bene per lui. Ciò che, invece, la impedisce è male. Analogamente noi siamo in una situazione che è destinata a finire. Ciò che nella vita ci consente di finire bene è giusto, ciò che ci impedisce di morire bene è male per noi. Importante perciò è sapere che cosa la morte chiederà ad ogni uomo, perché egli sappia viverla.
La morte chiederà a tutti:

1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorrere ad altri riferimenti;
2) di avere imparato il distacco da tutte le cose;
3) di avere interiorizzato così gli altri da sapere partire senza tenere nessuno per mano;
4) di avere imparato ad amare in modo così oblativo, da sapere donare se stessi senza rimpianti;
5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla».

Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto

Un Dio inaffidabile?…
Il problema dell’amore è che, perché sia vero amore, deve essere ad espansione totale. Non certo riservato a chi ha amici potenti… e può difenderlo con i miracoli! “…se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” vale per tutti i morti, tanto più per quelli che non hanno neanche uno che li piange e che prega per loro! È un lamento che si può rivolgere solo a Dio. È il lamento che fonda ogni religione e la rende indistruttibile, come la morte che lo genera. Un gemito che tiene viva la religione, ma ne è anche è la spina mortale, che la rende debole, sostanzialmente inaffidabile, perché non è nei poteri di Dio di impedire che gli uomini muoiano... E infatti continuano a morire, nonostante questa implorazione salga a Dio milioni di volte al giorno. E gli uomini ne concludono sempre più che… Dio è inaffidabile! Ancora una volta però il volto di Dio rivelato da Gesù (il volto di suo Padre, che solo lui conosce… e quelli a cui vuole rivelarlo!) non assomiglia per niente al maschera del Dio che ci hanno trasmesso e pure rimane così difficilmente sradicabile dal nostro cuore.
Guardare in faccia la morte.
“…se tu fossi stato qui!” La compagnia, la solidarietà, la compassione d’amore e d’amicizia sono il dono più grande che ci è fatto sulla terra, la spiaggia estrema della speranza. Perché hanno dentro appunto la pretesa mite e struggente della continuità (che i filosofi chiamano immortalità), altrettanto inestirpabile dentro di noi quanto la certezza della morte. Quando il lutto e il suo dolore inconsolabile ci hanno sconfitti non ci resta che aggrapparci all’amore di solidarietà per sopravvivere, sognando l’impossibile… “…se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Lazaro manca perché è mancato Gesù! Piangono le due sorelle, piangono i giudei venuti a consolarle… Gesù scoppia in pianto! Qui Gesù piange un morto di famiglia, la famiglia dei suoi amici più cari. Freme sotto il peso – l’ingiustizia ineludibile!? ‑ della tragedia di noi uomini. La vive dal di dentro, come capita a ciascuno di noi, man mano che la vita ci deruba di ciò che ci ha donato.
Ma se la solidarietà non si lascia bloccare dalla paura, se l’amore è aperto alla morte, la morte vi entra… Ognuno che ti si aggrappa (dice che “gli appartieni!”) ti chiede di lenire il suo dolore. Ma ti sta domandando di morire – un poco o tanto ‑ per lui (poi, alla fine, capirà che sarà …“con lui!”). E chi si assume davvero il dolore dell’altro, non può non assumere, attraverso il singolo, tutta la sofferenza dell’umanità… un’infinita catena di lutti (…nel suo cuore nessuna croce manca – direbbe Ungaretti – è il suo cuore il paese più straziato!). Uno strazio senza speranza!? L’amore sta di qua, da quella terribile soglia, o va di là?
La morte ci uccide prima che moriamo
Qui Gesù inserisce la novità del suo messaggio mite ed eversivo: Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato. Rispetto alla cultura corrente è la stessa “buona notizia dirompente” che apre e illumina il racconto della samaritana: come mai chiedi da bere a me?… si meravigliarono che parlasse con una donna. O del cieco nato : né lui né i suoi genitori hanno peccato, ma perche si compiano le opere di Dio! O dell’uomo malato da trent'otto anni: vuoi guarire? Sempre Gesù si oppone ad una specie di rassegnazione omertosa alle situazioni di malattia, di oppressione e schiavitù sociali o religiose o economiche… Non accetta l’acquiescenza all’insensatezza della morte, che anestetizza l’istintiva ribellione elaborando il lutto attraverso razionalizzazioni e riti, ma che di fatto corrode la fiducia nella vita, sbarrando all’amore il suo futuro. L’amore che cerca una strada per salvare a tutti i costi la vita non deve essere deviato nel mondo irreale dei sogni e delle ombre.
L’appartenenza ferita due volte: Io sono la risurrezione e la vita
Mai come adesso, mentre afferma che la morte non è una malattia mortale, ma guaribile… perché lui può ridonarci la vita, Gesù sente stringersi attorno il cerchio della morte. Solo chi accetta la sfida di un amore di appartenenza più forte della morte diventa libero dal ricatto “mortale”. Una libertà inaccettabile dal sistema che, poiché vive di questo ricatto, ne rimane sconvolto, si divide, infine espelle chi lo insidia. Proprio per questa testimonianza intollerabile i martiri, che non si lasciano vincere dal ricatto della morte, devono essere uccisi, perché sono indomabili dal potere. La voce esterna che accompagna questo racconto evangelico, ne annuncia la necessità drammatica: Questo però [Caifa] non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote in quell'anno, profetizzò che Gesù stava per morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma anche per radunare insieme nell'unità i figli dispersi di Dio. Da quel giorno dunque decisero di farlo morire (11,51ss). Il capro espiatorio è mandato a morire fuori dall’accampamento nel deserto – una dis/appartenenza desolata. Ma è solo la prima! Queste stesse donne ascolteranno l’urlo di dolore della seconda dis/appartenenza: quella dell’abbandono totale sulla croce, il grido inarticolato di Gesù nell’implorazione disperata al Padre. La dis/appartenenza, al momento estremo della vita, è il terrore di ‘non essere mai più di nessuno’: è questa la vera morte! Ma chi sfida il potere della morte per amore, tocca il mistero dell’essenza del Dio vivente, cioè il mistero della vita e della morte, come sapeva l’antico serpente. “Chi ama la sua vita la perde, dirà Gesù poco dopo, chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna… ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora. Padre glorifica il tuo nome” (12,25ss)
… chi crede in me anche se muore vivrà!
Questa pretesa sbalorditiva è il cuore della vita e del messaggio di Gesù! La resurrezione di Lazaro è solo l’occasione per la manifestazione del vero mistero di Gesù. Infatti quella di Lazzaro non è propriamente una risurrezione ma la rianimazione di un cadavere. E Lazaro non entra in un nuovo livello di vita (“eterna”, cioè non più mortale), ma morirà ancora! "La risurrezione della carne", che professiamo nel Credo, è un’altra qualità di vita. Questo è il destino che ora Cristo restituisce all'uomo: non una rivivificazione (o una reincarnazione!), ma una pienezza di vita, la vita stessa di Dio! “Chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo?” Tale rimarrà per sempre la domanda che assilla il cristiano e la chiesa, dentro la storia di questo mondo. Sulla fede in “questo!” si decide e si qualifica la nostra vita e la nostra morte. È la fede in Cristo che riscatta dalla morte, ieri come oggi. Gesù è risuscitato per essere "il primogenito dei risorti", non un caso unico. Ha fondato con la sua morte una nuova solidarietà creaturale, un’appartenenza eterna che non sarà mai più insidiata dalla morte. Nel testo greco, san Paolo ha dovuto inventare delle parole nuove: convivificati, conrisuscitati, fatti consedere alla destra di Dio! Perché "quel medesimo Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti darà vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11).
Non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio? Come a Marta e Maria anche a noi sembra impossibile … che la “gloria di Dio” (cioè, la vita umana che in lui diventa “eterna” !) si realizzi nella nostra pelle già da quaggiù, perché la nostra carne e la nostra storia “puzzano di morto” da millenni, destinate alla corruzione da catene invincibili… La professione di fede in Gesù è professione di fede nella vita: Gesù sfida Marta a questa fede. Non basta credere in una nebulosa risurrezione che avverrà alla fine dei tempi, ma si deve credere che la Risurrezione è vera ed efficace nella persona di Gesù e in quelli che credono in lui – dentro l’usura del nostro quotidiano banale, in queste nostre situazioni difficili e ambigue, che ci coinvolgono ogni giorno. Come per Marta, senza aver ancora visto il segno concreto della risurrezione di Lazzaro, la sfida umile della fede è un’attesa: "Sì, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo ". L’attesa di un esito sicuro. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”!

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[dalla lettera di un’amica, alla periferia del mondo ]
…Ivaneta è morta sabato 26 gennaio. Ha passato con noi poco più di due mesi, ma sono stati giorni molto intensi. Era già passata dalla Casa quando ha partorito la prima figlia a 11 anni. È arrivata… e dopo qualche giorno ha consegnato tutto, tutto della sua vita, senza nascondere niente a sé stessa e a noi. Ferita da una mamma che l’ha abbandonata a causa di droga e alcol, ferita dal fratello che l’ha violentata ancora bambina, ferita dal non sentirsi di nessuno e di tutti, senza più riuscire a fermarsi – diceva… ferita dalla sguardo di chi dava giudizi e ‘buoni consigli’ . Dopo un tempo passata a S. Paolo, con le sue bimbe , a servizio di una trafficante di droga, che l’ha schiavizzata, è tornata a casa per ricominciare una nuova vita e ha scoperto la malattia. Mi ha ricordato tanto la Teresina, a mani vuote, nuda davanti al Signore e a noi. Con una domanda continua sul perché di tanta sofferenza, ma con un abbandono fiducioso nella bontà del Signore. Coltivava il sogno di poter guarire e avere una casa, preparare la colazione per i suoi bimbi. Qualche giorno prima di morire (era tutta consumata, solo pelle e ossa, ma lo spirito vivo) mi dice: “sono diventata come te, una suora! Non ho più desiderio di uomini… sarà che il Signore mi accoglie? Voglio pensare solo ai miei bimbi…”
…non aggiungo altro, e ora piango dalla commozione e gratitudine di aver fatto un pezzetto di strada con lei, custodisco nel cuore questa perla preziosissima… che ci aiuti a sanare le ferite e ricostruire rapporti nuovi…
[Sr Nico]

sabato 8 marzo 2008

Giovanni 7,40-53

In quel tempo, all’udire le parole di Gesù, alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!” Altri dicevano: “Questi è il Cristo!” Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?” E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui.
Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: “Perché non lo avete condotto?” Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!” Ma i farisei replicarono loro: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi, o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”
Disse allora Nicodemo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?” Gli risposero: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea”. E tornarono ciascuno a casa sua.


C’è un certo drammatico parallelismo tra questi farisei e un certo modo oggi di porsi come Chiesa, come Carmelo.

le guardie: È una triste ironia constatare come dei soldati (pagani, dominatori, estranei alla Rivelazione) riescano a cogliere ciò che coloro che si ritengono fedeli eredi della tradizione non riescono assolutamente a comprendere. Tornarono a mani vuote, le guardie, ma col cuore pieno della Sua Parola! Non si poteva immaginare una “categoria” umana più lontana dalla tradizione giudaica, eppure sono loro che ne colgono l’essenza!
Nicodemo: Mostra la radicale malvagità di coloro che pretendono, ieri come oggi, di giudicare per sentito dire e mai incontrando… La verità su Dio e la verità sui fratelli.
La fede, non è un “sentito dire”, la fede è permettere un incontro. E come è possibile ascoltare Dio che non si vede, se non si ascolta il fratello che si vede?
La gente: Interessante il fatto che, se non si lascia influenzare dalle diatribe “magisteriali”, la gente riesce sempre a capire “chi è Gesù”. Rileggendo attentamente si scopre infatti che coloro che dubitano, dubitano perché fanno proprie, acriticamente, le parole dei capi religiosi. E come loro non si determinano a un incontro personale. Vivono subalterni, nuovi schiavi di ideologie religiose altrui. Il cristiano-laico autentico è colui che di proprio rischia l’incontro e non se lo lascia negare da nessuno!

È incredibile anche qui il disprezzo che ancor oggi continua verso il “popolino”: Popolo di Dio a parole, massa di ignoranti nei fatti. Ignoranza che noi “gerarchi”, lo dico con ironia, custodiamo con gelosa cura. L’abbandono del laicato nella vita attiva nella Chiesa, che vada al di là di un ruolo coreografico, nasce da questo profondo rifiuto dell’episcopato e del clero, di accettarne l’infallibile magistero. Perché anche il popolo “ha naso” nelle cose di fede! Anzi ogni altro magistero, si fonda su quello del “Popolo di Dio”, tutto intero. E non il contrario. È la Chiesa prima di tutto che è “infallibile” e sulla sua infallibilità che si fonda ogni altra infallibilità. E non c’è Chiesa senza laicato! Come non c’è né episcopato né “vita religiosa” senza laicato: da dove “verrebbero” altrimenti? Su questo punto siamo ancora troppo lontani dal Vangelo, nella Chiesa e nel Carmelo!
L’apostolo allora è apostolo solo se si fa discepolo. Altrimenti è solo un “divulgatore”… delle proprie idee. I non-discepoli, partono da un’idea di dio, da un’idea di cristo, da un’idea di verità, di messia, di salvatore, di bene…Idoli che non permettono di incontrare nessuno.
L’apostolo invece parla della propria esperienza di discepolato e solo di ciò che ha personalmente “conosciuto” e autenticamente condiviso con altri apostoli. Autentica Tradizione è quella che favorisce questo incontro.

venerdì 7 marzo 2008

Giovanni 7,1-2.10.25-30

In quel tempo, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo. Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne. Andati i suoi fratelli alla festa, vi andò anche lui; non apertamente però, di nascosto. Alcuni di Gerusalemme dicevano: “Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, e non gli dicono niente. Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia”. Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure io non sono venuto da me e chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato”. Allora cercarono di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora.

nessuno riuscì a mettergli le mani addosso, perché non era ancora giunta la sua ora... Secondo la prospettiva del Vangelo di Giovanni chi determina “l’ora” è sempre Gesù. Gesù è Signore della propria vita e la dona quando vuole lui. Questo si vede tra l'altro in 2,4; 4,23; 8,20; 12,23; 12,27; 13,1; 17,1 e persino sulla croce 19,29-30 è sempre Gesù che determina il momento di morire. Gesù cioè non subisce la storia, la crea.

Stiamo vivendo un momento di svolta epocale e per questo di crisi culturale, che ci obbliga a ripensare culturalmente ciò che fino a ieri era ritenuto ancora “immutabile”. Ripensare la fede è compito della fede che vuole essere se stessa. E non c’è ambito che non ne debba essere coinvolto: l’idea e il vissuto di Chiesa, di laico, di famiglia, di movimento ecclesiale (laicale e non), di “ordine religioso”, di sacerdozio, di Magistero…
Perché stiamo vivendo una svolta multiculturale che la globalizzazione e il cammino della “riflessione” umana stanno accelerando. Capire adeguatamente questo è capire la posta in gioco oggi, nel vissuto concreto che ciascuno di noi sta vivendo. In comunità come in “Provincia”.

Questa è "storia sacra", perché in questa storia lo Spirito di Cristo è all’opera per condurci tutti al Padre. In quanto persona e in quanto membri di una comunità, piccola o grande che sia, dobbiamo essere coscienti del “progetto” del Padre.

In tutta la prospettiva che va da Giovanni a Paolo, il cristiano non è più colui che vive la "propria" vita, ma vive la vita di Cristo. Noi siamo veramente un “altro Cristo in Terra”: per grazia, dal battesimo-cresima-eucaristia, “un altro Lui”...
Questo deve comportare per ciascuno di noi di prendere in mano la propria storia accogliendone le “sfide” con la stessa modalità con cui l'ha fatto il Cristo: impegnati a non subirla ma a "ri-crearla" continuamente orientandola decisamente verso il suo compimento. Non è un’“imitazione”, né una semplice “conformazione” esteriore, ma una “comunione” profonda: Lui è in noi, e noi siamo in Lui, una cosa sola col Padre e con lo Spirito. L’agente di questa modalità è il suo Spirito Santo che vive in noi, proprio come lo è per Lui: una comunione che si estende ad ogni umanità…

Una certa corrente spiritualista ha spesso visto nella "rassegnazione", nell'umile sottomissione agli eventi storici, il vertice della "consegna" alla volontà del Padre... Vertice di questa prospettiva fatalista e determinista della storia, è una certa “iconografia” dell'Agnello pasquale, che passivamente docile e umile va al sacrificio del dono di sé.
Questo è solo parzialmente vero, e spesso ne abbiamo fatto un'immagine caricaturale deresponsabilizzante, scusante “ideologica” delle nostre paure alla lotta che il cambiamento esige… È più facile morire “martiri” che morire testimoni della modalità nuova di essere presenti nella storia.
Questa prospettiva infatti è completamente estranea alla tradizione apostolica che ne smaschera tutta la sua diabolica seduzione, in quanto non è altro che manifestazione di sé e non della misericordia del Padre, come si può intuire ad esempio in 1Cor 13,3. Questa prospettiva “pagana”, riduce l’uomo a mero esecutore, a “comparsa” di una storia già scritta da altri e quindi ultimamente non più storia!
Nel cristianesimo invece la storia è un film la cui sceneggiatura è scritta a più mani e molti cuori: l’umanità e Dio. E la storia è storia vera perché ogni volta è messa radicalmente in gioco nelle sue dinamiche più profonde di relazione uomo/donna-Dio-uomini/donne nella forma nuova di figlio/a-Padre-fratelli/sorelle. Per questo è ogni volta storia nuova, perché nulla è stato scritto che non debba essere riscritto! Per questo essa è ogni volta storia “sacra”, nel suo “sì” come nel suo “no”.

Il Vangelo di Giovanni dal canto suo ci indica il modo per essere “spirituali”, il modo di essere veri Agnelli sacrificali: non il lasciarsi prendere, ma il consegnarsi; non il lasciarsi rubare ma il donarsi; non “perché non se ne può fare a meno”, ma pur conoscendo le vie di fuga, restare! Questo, come Maria, è l’agire del discepolo: re/stare, re/agire. Sempre! Solo che le modalità cambiano dall’ora! Se ci si sottrae a quest’ora è per consegnarsi a quell’ora! e solo fino a che quell’ora non sia giunta…

L’unica domanda che resta è “come conoscere l’ora?”, la risposta non può che venire dalla relazione personale col Padre. Solo il Padre conosce l’ora, quella di Gesù e quella degli “altri Gesù”, i suoi discepoli. Non l’ora della morte, come se il Padre avesse deciso la nostra morte e il momento del nostro morire, perché il Padre è tale perché è colui che dà la vita, sempre! Ma l’ora in cui la morte diventa vivibile e vivificante, libera e liberante, salvifica per sé e per l’umanità. Solo così diventa manifestazione della Sua Gloria e non autoglorificazione. E questo può accadere solo quando tutto è “compiuto”!
Solo nel dilatarsi di questo rapporto col Padre, matura l’autocoscienza, personale e comunitaria, di quando tutto è compiuto e l’ora è giunta. E di come orientare la storia (particolare e universale) verso l’ora del compimento! Ed è il Padre stesso che nello Spirito lo “rivela” a ciascuno di noi. Non a chiunque però ma solo a coloro che vivono fino in fondo la dimensione dell’essere figli nel Figlio!

Se ci è cara la “storia” carica di umanità che viviamo, solo questa è la Via, perché essa sia “attualmente” recuperata.

domenica 2 marzo 2008

Godere la pace con riconoscente eucaristia

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!». Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». (Gv 9,1-41)


· Vorrei cercare di leggere il Vangelo di oggi in una prospettiva capovolta: Non tanto “leggere” quanto piuttosto cercare di “farci leggere”. Questo per far emergere quello che il testo dice e non ciò che la nostra precomprensione teologica e/o dogmatica e/o “spirituale” vuole fargli dire: perché solo la verità della Parola è salvifica.
Penso che “diventare bambini” per entrare nel “Regno del Padre” significhi anche questo: bambini nel cuore e nella testa, bambini che si reputano “ignoranti”, bisognosi di apprendere; “ciechi”, bisognosi di guida. Tornare bambini vuol dire qui anche saper mettere tra parentesi le nostre conoscenze acquisite negli anni di studio e di esperienza, provare a fare in qualche modo “tabula rasa”, per quanto possibile, per lasciarci istruire solo dal Vangelo di oggi, solo dalla prospettiva di Giovanni.
Quindi se anche noi fossimo imbevuti di verità foss’anche “angelica”, proviamo ora a lasciarci scioccare, sbigottire, da quella di Giovanni che, meno interessata a problematiche puntuali (a cui spesso le lettere di Paolo fanno riferimento) dilata lo sguardo su orizzonti nuovi della realtà umana. Neanche vogliamo qui preoccuparci ora di come “armonizzare” le varie prospettive teologiche, vogliamo soltanto ascoltare e lasciarci cambiare la mentalità da Giovanni e oggi questo ci basta. E questo è un buon metodo anche nel dialogo interpersonale.

· Il Vangelo di oggi si riferisce a un episodio concreto della vita di Gesù ma lo ri-costruisce in modo tale da fare emergere il significato profondo di ciò che il Signore Gesù Cristo compie, sta compiendo e continuamente compie, nella storia del vivere quotidiano della comunità cristiana. Ecco allora che tutto l’episodio è come ri-scritto con l’intento di mostrare il senso autentico della vita nuova a cui il cristiano è chiamato attraverso l’appartenenza alla vita di Cristo che inizia col battesimo.
Numerosi “fatti” nell’episodio in esame lo richiamano, e tutti andrebbero colti, nella loro infinita ricchezza e interconnessione tra di loro, qui ne ricordiamo solo qualcuno:
Il fango: simbolo del limite e del “peccato”, acceca il cieco rendendolo se possibile ancor più cieco; Il fango e la saliva (che come il soffio, spirito, viene dall’intimo di Cristo, e simboleggia la sua vita “interiore”): che rimanda all’atto creativo di Dio in Genesi e porta alla identificazione del cieco-battezzato col Cristo stesso. Infatti il Signore “distende” la propria “sostanza” (saliva infangata, simbolo dell’Incarnazione) ricoprendo di sé il volto del cieco (maschera: persona).
L’acqua della fontana di Siloe che rappresenta il Cristo in cui siamo immersi…
L’acqua, della cui simbologia è pervasa tutta la Bibbia, come rimando a: Esodo, purificazione, l’episodio della Samaritana, Crocifissione, qui la “saliva”, ecc.
Il cieco “reso” dal Cristo “alter Christus”. Nell’“essere” (cioè nel suo essere figlio, nella sua relazione col Padre, nel suo essere oramai definitivamente risorto). Infatti a una domanda su di sé risponde con le stesse parole, di forte rilevanza cristologica e teologica, che altrove Gesù stesso usa per se stesso: “sei tu il cieco?” parallela a “sei tu il Cristo?” e la risposta teofanica identica “sono io” (“ego eimi”: Io-Sono). A questo si aggiunga la “maschera di fango” di cui abbiamo già parlato… Nella missione, la fontana stessa il cui nome significa ‘inviato’ simboleggia il Cristo (inviato dal Padre), l’Apostolo e il cieco-cristiano-battezzato (inviati entrambi da Cristo): il battesimo ci rendi “missionari” del Padre “come” lo è il Cristo. Nel “donare la vita”: anche il cieco, come Gesù e poi i suoi discepoli, è “cacciato fuori”.

Interessante sarebbe poi far “giocare” tra di loro i vari significati a cui la stessa parola-simbolo rimanda. Portando la comprensione della profondità della elaborazione letteraria e teologica del Vangelo di Giovanni a livelli tali da “far venir le vertigini”: non stupisce che l’Apostolo sia rappresentato nell’iconografia cristiana da un’aquila.
Ad esempio, in questo modo il “fango” apparirebbe, contrariamente al nostro senso comune, in qualche modo parte costitutiva dell’essere umano, anzi di Cristo stesso, tale che chi volesse santificarci purificandoci dal fango, non farebbe di noi degli “angeli” o dei santi ma, come l’esperienza spesso dimostra, degli esseri abominevoli, aberrazioni mostruose in umanità contraddicendo la "logica" profonda della stessa Incarnazione del Figlio di Dio…

· La prospettiva che emerge da questo Vangelo quindi è quella che vede nel battesimo, come era chiamato nell’antichità cristiana, il “rito della illuminazione”: passaggio dalla cecità alla visione… Si veniva immersi nell’acqua per simboleggiare l’abisso tenebroso della nostra vita prima dell’incontro col Cristo e si veniva fatti riemergere alla superficie, alla luce, alla visione. Questo passaggio dalle tenebre (morte, peccato, uomo vecchio, cecità…) alla luce (vita, grazia, uomo nuovo, visione…) era ed è il battesimo: è la Risurrezione di Cristo che diventa “ora” anche la mia risurrezione. Il battesimo ci fa risorgere ora, non dopo la morte: infatti è considerato anche il rito della rinascita (risurrezione) dalla morte (immersione) alla vita (emersione) senza fine e di Dio (eterna) e per questo detta “nuova” (come “nuovo” è il vissuto che ne sgorga: la giustizia, pace, gioia… ).

· In effetti a ben pensarci, credere che Gesù sia Figlio di Dio, credere nella sua presenza eucaristica, io personalmente non lo trovo così “difficile” o “incredibile” o “impossibile” da credere: in fondo se Dio è Dio… Non trovo così difficile nemmeno crede che il Figlio di Dio possa risuscitare, se Dio è Dio e Gesù è Dio… “Cose” del genere, anche se ovviamente di significato ogni volta diverso, si trovano anche in altre religioni…
Quello che io invece trovo veramente inaudito, incredibile, impossibile per un uomo, persino da credere e non solo da farsi, perché al di là di ogni possibile logica e speranza umana, è che questo sia dato a me come dono nella storia. Ora! e non come semplice possibilità, “post mortem”… Questa però è la novità che il Vangelo di oggi cerca di fare emergere alla nostra consapevolezza, con il racconto del “cieco nato”: che uno come me, uno come te, possa già essere “risorto” da vivo. E non tanto che possa risorgere dopo la morte come anche il “Credo” ci dice: non stupisce che pochi oggi ci credano ancora, infatti se non si vive la risurrezione da vivi come si può credere che sia possibile da morti? Da questo punto di vista il battesimo così inteso è veramente qualcosa di inaudito: il battezzato è già ora un “illuminato”, un risorto a vita nuova, e se risorto, è già uno che vive della “visione” (la distinzione tra le varie forme di visione è estranea alla mentalità giovannea, visto che la res è la stessa: cfr beata Elisabetta della Trinità)!
Non a caso era ed è celebrato sempre in riferimento alla Pasqua e di per sé è durante la Veglia Pasquale che trova la sua collocazione liturgica naturale: cioè in stretta connessione con la Risurrezione di Cristo. E ci sarà pure un perché… e il vangelo di Giovanni di oggi ce lo dice, anche se per capirlo bisogna “scavare” un po’…

Questa dunque è la prospettiva inaudita che ci propone il Vangelo di Giovanni oggi! È certamente la prospettiva di un “mistico”, ma non certo di un sognatore, e in ogni caso, Dio attraverso Giovanni, ci chiede di farla nostra!

E infatti è così “diversa” da quanto una certa tradizione teologica e catechistica “smemorata”, ci ha trasmesso, che ce ne dimentichiamo spesso, se non come riferimento al passato e a qualcosa che il nostro presente “fangoso” ha di fatto cancellato e che il nostro futuro vede solo come ipoteticamente probabile.
E allora ecco che ci sono degli zombie che si aggirano oggi nella nostra comunità cattolica: gente che sebbene “moralmente ineccepibile” (sic!) vive nelle tenebre, e che vuole che tutti vivano nelle tenebre, perché è gente che sembra ancora in attesa di essere battezzata, illuminata, risuscitata, guarita, salvata. Gente che ci vuole “distrarre” dalla visione giovannea del dono ricevuto perché gelosa della nostra gioia. Gente che di fatto, al di là della fede professata a parole, attende ancora il Messia-Liberatore, perché dice che è venuto, ma in fondo in fondo non ci crede, perché nella loro prospettiva non è cambiato granché nella nostra vita: al massimo l’ontologia, ma non ancora la vita concreta… È gente più esperta delle cose di Satana che delle cose di Dio. Vivono della paura dell’inferno e del peccato e dell’eresia… Questi sepolcri imbiancati, buffi fuori e morti dentro, come vampiri si aggirano cercando la vita da succhiare, trasformando le loro vittime in altrettanti vampiri. Mercanti di tristezza, aspettano angosciati il “non ancora”, negandosi il godimento del “già” ricevuto… E temono di non averlo affatto questo dono. E così non l’avranno mai! Gente che vive a partire dal problema, e fa dei problemi un orientamento di vita, cercando di uccidere l’anima rinata nella gioia di una vita rinnovata, dove il problema non fa più problema perché è stato trasformato in grazia.

“I fumi di Satana sono entrati nella Chiesa” disse un giorno Paolo VI, anche in questo ha avuto ragione: lo troviamo dappertutto questo fumo: nei gangli profondi del nostro io quando cede alla paura; nelle nostre comunità religiose e cristiane, nei movimenti cristiani laicali. Alcuni hanno una radio e hanno il loro maestro che predica più sul diavolo e l’inferno che su Dio e il paradiso (evidentemente ciascuno parla di ciò che vive). Altri come appestati infestano il “web” con le loro deliranti scomuniche illudendosi di una fedeltà alla Chiesa e al Papa che invece tradiscono in radice, facendoli apparire “annunciatori di tristezza” piuttosto che “annunciatori di gioia”… Ma resta su di loro il giudizio definitivo di Cristo: non praevalebunt.

Il cristiano invece sa che “le porte degli inferi non prevalgono” perché egli è colui che ha creduto e sperimentato che nel battesimo, la luce, la risurrezione, la salvezza, la visione (e quindi l’evidenza del dono donato) e tutto ciò che è di Dio, gli è già stato dato. Definitivamente! Certo anche per lui c’è il “non ancora”, ma ha orientato la propria esistenza non sull’angoscia avida del “non-ancora” ma verso la gratitudine povera del “già”: è la speranza giovannea, parola che nel suo Vangelo è assente, perché non è attesa di qualcosa che ancora non si possiede, ma molto di più, certezza che ciò che già gli è dato, e quindi che già possiede, non potrà che accrescere e non gli verrà mai più tolto. E ne gode la pace con ri-conoscente eucaristia.

giovedì 28 febbraio 2008

Ciò che è gradito al Signore è che l'uomo sia

Il Vangelo (Gv 9,1-41) che la Chiesa ci propone per questa quarta domenica di Quaresima si presenta immediatamente, anche solo ad un primo colpo d’occhio, davvero imponente: esso percorre infatti ben 41 versetti! Ma non è solo, o non è tanto, per la sua mole che questo brano è così pregnante, quanto piuttosto per la sua densità.
È su di esso, perciò, che vorrei puntare l’attenzione, non senza però, tentare di introdurlo con le altre due letture, che ne danno in qualche modo una chiave interpretativa. Mi riferisco in particolare all’affermazione di 1Sam 16,7 «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» e a quella di Ef 5,10 «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore».
Dico questo perché in effetti mi pare che i molti temi trattati nel racconto evangelico in fin dei conti confluiscano nella logica dello svelamento dei cuori e di ciò che è gradito al Signore.
Inizio col dire qualcosa sullo svelamento dei cuori…
Quanto a questo primo aspetto mi pare interessante seguire il racconto evangelico soprattutto nella presentazione dei tre personaggi/gruppi principali che lo compongono: il cieco, i farisei, Gesù.
L’immediata connotazione che ci viene data del cieco è quella peccaminosa. Sono i discepoli stessi a presentare questa antica credenza in un legame tra male fisico e colpa: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».
Ma Gesù rifiuta immediatamente questa interpretazione operando un vero e proprio ribaltamento della considerazione di colui che ha davanti: lo toglie infatti dallo scontato riferimento al peccato e lo mette invece direttamente in relazione a Dio: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Tant’è che la sua connotazione di cieco cambia: «Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva».
Nonostante questo però il seguito del brano sembra fare nuovamente un passo indietro: ci ripresenta infatti ancora l’identità di quest’uomo soggiogata dai soliti pregiudizi culturali: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina, […] è uno che gli assomiglia». Finché arriva la svolta decisiva: lui stesso si riconosce e pone una parola di svelamento: «Sono io!».
Ma nemmeno questo sembra bastare: «i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista». Tanto che inizia tutto un processo di rimozione dell’evidenza, portato avanti con il discredito sistematico dell’interlocutore e culminante nell’affermazione (che è una regressione alla I cosa detta a riguardo del cieco): «Sei nato tutto nei peccati».
Questo ritorno all’indietro nel riconoscimento dell’identità del “nostro cieco” però ormai non è più convincente. Mentre all’inizio era assodata per tutti, e per il cieco stesso, la sua considerazione come di uno “punito a causa del peccato, suo o dei suoi genitori”, ora, dopo la novità inseritasi nell’incontro con Gesù, egli non è più lo stesso: nessuno più potrà convincerlo del contrario; lui infatti ha sperimentato sulla sua pelle che quell’«uomo che si chiama Gesù» gli ha cambiato la vita. Non serve la minaccia dei farisei, che pure riescono a intimorirgli i genitori; non basta l’incertezza di coloro che lo ricordavano mentre elemosinava; non ottiene risultati l’espulsione dalla sinagoga («lo cacciarono fuori»): egli ormai è libero, di una libertà diversa, fondata sull’incontro personale, su una promessa creduta, sulla carne trasformata… su un ordine degli affetti nuovo, che va dall’apparenza al cuore: «Credo, Signore!».
È la libertà a cui invece non riescono ad aprirsi i farisei: «Siamo ciechi anche noi?». Tutto il percorso di svelamento dei loro cuori che il brano ci fa percorrere infatti è come segnato da una spada di Damocle da cui essi non riescono a svincolarsi: «era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi». Ecco tutto il loro problema, la causa del loro irrigidirsi su posizioni insostenibili, che (come ogni volta che mancano argomentazioni convincenti) impongono con la violenza («lo cacciarono fuori»). Il loro schema religioso, politico, di salvaguardia del potere è messo in scacco dal gesto di Gesù, perché da un lato non potevano negare che Gesù non venisse da Dio: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?»; ma dall’altro neanche ammetterlo: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». E messi alle corde, nella scelta stringente tra il loro schema e l’evidente bontà di qualcosa che glielo fa scoppiare, scelgono lo schema: preferiscono la salvaguardia della regola al bene di un uomo; prediligono l’ordine costituito, l’universale, alla faccia del singolo… è questo il loro cuore, al di là dell’apparenza iper-osservante del loro stile di vita (cfr Mt 23,27: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume»): la conservazione dello status quo a scapito della gente, che è proprio il contrario del cuore di Gesù, che metterà in discussione lo status quo più status quo di tutti, che è la considerazione di Dio, (morendo) a favore degli uomini!
A proposito di Gesù… forse, fra tutti i disvelamenti, il suo è quello più intrigante. Lo si vede con chiarezza nell’evolversi delle parole del cieco, che ogni volta che è interrogato a suo proposito fa un passettino in avanti fino alla professione di fede finale in Gesù, Figlio dell’uomo. Scorrendo infatti le sue parole, vediamo come la partenza sia proprio legata ad un’immediatezza accessibile a chiunque: di Gesù infatti parla come di un uomo («L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista»). Ma poi c’è una prima progressione: «Allora dissero di nuovo al cieco: “Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?”. Egli rispose: “È un profeta!”». E poi di nuovo: «Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Ma la cosa più interessante è che quest’uomo passa dal dire di Gesù che è un uomo, poi un profeta, poi un uomo di Dio e infine Figlio dell’uomo, proprio e solo perché lo ha esperito: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Questo non è un teologo, un sacerdote, un erudito… è uno che guarda ai fatti: «Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». È l’incontro che l’ha convinto, al di là di ogni possibile postuma dissuasione. Come la Samaritana di domenica scorsa: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?» (Gv 4,29).
Eccoli allora i cuori a cui guarda il Signore a scapito delle apparenze a cui guarda l’uomo: il cieco-peccatore-escluso capace di incontrare Dio in Gesù, che gli ridà Vita; i farisei-simbolo della religiosità (che sarebbe poi la mediazione universalmente riconosciuta per l’accesso al divino) cieca di fronte al Figlio dell’uomo, perché cieca su qualsiasi uomo (a cui preferisce la legge); e infine Gesù, nel cui cuore sta proprio l’altra cosa che cercavamo all’inizio: ciò che è gradito al Signore! E in Gesù… ciò che è gradito al Signore è che l’uomo sia. E questo viene prima di qualsiasi legge.

Colui che parla con te... è proprio lui!

io sono la luce del mondo!
difficile dire se questo brioso racconto della guarigione del cieco nato sia stato, nelle prime comunità cristiane, una delle ispirazioni determinanti per capire il sacramento del battesimo e disegnarne il rito, o sia stata la comprensione sempre più profonda del mistero battesimale che ha fatto riscoprire la forza educativa di questo “segno” di Gesù, come un eccezionale percorso paradigmatico di scoperta e maturazione della fede in lui! Il resoconto di questa vicenda, come è adesso nel vangelo, è comunque una delle descrizioni più appassionate di come Gesù compie l’ “opera” di colui che lo ha mandato per salvare il mondo ‑ come “luce” del mondo! Dunque, per l’uomo sembrerebbe una questione di vista, difettosa dalla nascita, per cui non riesce a vedere bene le cose, né se stesso, né Dio. Ma di fatto, l’intervento di Gesù è descritto come una “creazione nuova”, dai simboli forti e sorprendenti. La vista è ricreata dalla polvere della terra, impastata come fango con lo sputo (l’ “alito” umido della bocca di Gesù). Con questo sembra imbrattare e oscurare ancor più gli occhi. Ma il cieco si fida e va alla fonte dove Gesù l’aveva inviato, e di fatto, una volta lavati gli occhi, “ tornò che ci vedeva”! Se fosse stata solo una questione di vista, il miracolo è finito qui – un generoso gesto di misericordia.
... ma c’è una premessa: il primato dell’amore sul peccato.
una premessa discriminante, che va chiarita fin dall’inizio, per non trascinare un’ambiguità di fondo che avvelena poi tutta la vita ( e la nostra teologia!). Alla domanda antica quanto l’uomo: chi ha peccato? Gesù risponde decisamente: la causa del male radicale dell’uomo (la cecità dalla nascita!) non è colpa dell’uomo, né come singolo, né come famiglia umana... Anche se la voglia di accusare (è colpa tua!) resta invincibilmente radicata nel cuore dell’uomo, al punto che ha poi bisogno di un capro espiatorio e tutta la storia delle religioni è insanguinata dai sacrifici delle vittime su cui si è tragicamente proiettato questo inspiegabile male che ci soffoca la vita, prima ancora che ne siamo colpevoli. Tanto più che l’accusa viene contemporaneamente tanto introiettata dentro di noi, soprattutto nei più deboli (è colpa mia!) – fino da uccidere in loro il gusto della vita e la possibilità di ritrovare speranza (che è la luce della vita!). Gesù non da spiegazioni ulteriori, ma annuncia e rende vera una notizia lieta (un vangelo): le situazioni più dolorose ed oppressive nelle quali l’uomo si trova invischiato, qualunque ne sia la causa, non sono mai un castigo di Dio, sono piuttosto il luogo della manifestazione delle “opere di Dio” ‑ prima c’è sempre l’amore - la salvezza dell’uomo! ... Di qui comincia il cammino di speranza di chi accoglie la luce.
la costruzione della nuova identità
Infatti vedere la luce è solo l’inizio – perché da qui in avanti “credere” diventa soprattutto una questione di cuore, al quale la Parola di Gesù, che ha guarito la vista, apre orizzonti impensati – addirittura di rovesciamento e ricostruzione totale della “identità umana”, trasformandola progressivamente in identità “cristiana”, propria del discepolo di Gesù. La Parola, infatti, manifesta al discepolo verità nuove, che i sapienti e gli intelligenti di questo mondo non capiscono o ritengono follia o stoltezza: le beatitudini, il perdono, anzi l’amore dei nemici, la misericordia come essenza di Dio e chiave per capirlo... e infine seguire Cristo nel portare il male del mondo fino a consegnare la propria vita per testimoniare che solo l’amore è efficace a costruire di qua l’al di là!
Ecco i tratti vivacissimo di questo cammino esemplare di maturazione della fede:
1. il discepolo neofita non sembra più lui. L’identità è un processo complesso, un intreccio di relazioni che costituiscono l’io, intessendo la sua autobiografia vivente. Ma i nuovi occhi, spalmati dal contatto così “terrestre” con l’umanità di Gesù, riplasmati dalla sua Parola (vai, lavati!) vedono irrompere nella nuova consapevolezza di sé orizzonti, criteri, schieramenti completamente nuovi e disomogenei. Attorno a lui, i più vicini, stupiti, se ne accorgono subito, proprio a lui, pongono il dubbio sulla sua identità. E lui, che davvero è cambiato, ribadisce con una decisione che non vuole dare spazio a ripensamenti: sono proprio io! Ma cosa ti è successo? Come mai ci vedi?... Nasce la sua prima vera testimonianza “cristiana”: è stato quell’uomo, chiamato Gesù! Infatti, Gesù, riconosciuto Signore, l’ha fatto signore... e re, cioè libero dalla pressione sviante della gente, ma dipendente solo dalla Parola, che l’ha unificato e identificato!
2. l’impatto incombente con l’ordine costituito! un prodigio così impressionante come risanare dalla cecità, vuol dire trasformare un uomo. Non può non avere un impatto sociale eversivo. I maestri e detentori del potere, colti quanto interessati, si dividono sull’interpretazione del fatto, sbalorditi dall’evento, ma ancor più preoccupati dalla violazione della legge del sabato... I Farisei di ogni tempo sanno la teologia e la morale ma non sono più appassionati alla vita, puri esecutori d’ogni piccola regola che impongo indiscriminatamente, perché non si commuovono mai. Scrutano i codici e non vedono più la faccia della gente! Il credente vede la differenza con l’esperienza di luce, di vita e di libertà che ha ricevuto. La provocazione gli fa fare un passo importante: capisce che chi gli ha aperto questi orizzonti non può che essere un profeta, qualunque cosa si dica di lui!
3. il distacco dalla tribù del sangue. Ma nessuno è profeta in patria sua. Vedere le cose dal punto di vista della Parola di Dio, vuol dire partecipare della sorte del profeta ... Chi ti era vicino fino a ieri, adesso ha paura. I vincoli di prossimità del sangue non tengono, se non sono convertiti in quelli della fede e della speranza. I ricatti del potere, il terrore di perderne la protezione e il consenso, genera distacchi, misconoscimenti e perfino tradimenti... La solitudine mette a dura prova la fede nella Parola... Ma bisogna insieme rimanere fedeli ed insieme aver compassione di questi poveri spaventati e smarriti.
4. la reazione immunitaria. Il problema dell’autorità non è il prodigio che un cieco adesso ci veda, che un ignorante gioisca della verità che lo rende uomo, che il deserto di solitudine del suo cuore fiorisca di speranza... Costoro si preoccupano soltanto se tutto è fatto secondo le loro tradizioni e sotto il loro controllo... Hanno una sapienza mortifera che si basa sul passato. Non vedono più i germogli che premono alla vita. Sanno già tutto. Il nuovo non è previsto, dunque non esiste – o comunque va soppresso. Il loro potere cresce solo sulla paralisi dell’amore e della compassione. E se vogliono mantenere questo monopolio del potere, hanno ragione, perché un briciolo di verità della più mite e semplice dialettica lo fa crollare: questo è strano, che voi non sapete da dov’è, ...ma se non fosse da Dio non avrebbe potuto far nulla! E lo espulsero fuori, anticipando in lui il sacrificio sacerdotale del suo maestro (Eb 13,12s). Infatti, rimasti senza argomenti efficaci, non rimane che tornare al primato del peccato sull’amore liberante, per mettere zitta la verità dei fatti (sei tutto concepito nel peccato, e tu insegni a noi?)
5. solitudine e compagnia del cristiano. Ormai senza famiglia, senza sinagoga, senza elemosina (perché ormai ci vede)... è un emarginato totale! Allora Gesù lo cerca e lo incontra: credi tu nel figlio dell’uomo? Non è un incontro “spirituale” autoprodotto dalla tensione interiore... Sono maturate le condizioni storiche, interiori ed esteriori, di uno sradicamento doloroso e violento da ogni acquiescenza alla logica pervasiva della competizione del sapere e del potere – e così avviene uno sbilanciamento totale, interiore ed esteriore, verso la Parola ascoltata e perseguita. Ma chi è Signore, perché io creda in lui? Gesù risponde: lo vedi! colui che parla con te, è lui stesso! Configurato a lui attraverso le tappe sconcertanti e quasi trascinato sulla strada stretta ... dietro la Parola che lo ha risanato – la Parola stessa si manifesta come “persona”, come amore, compagnia e accudimento ... sperimentato (lo vedi!). E gli avvenimenti e le Scritture non trasmettono più soltanto la Sua voce, ma lui stesso “fa” l’identità del cristiano (...colui che parla con te, è lui stesso!).

approfondimenti sul percorso...
“...per avvicinarsi al tema dell’esperienza di Gesù dobbiamo distinguere tra identificazione e identità. Molti cristiani si appagano dell’identificazione di Gesù: un uomo, figlio di Maria, che è vissuto a Nazaret, è morto su una croce sotto Ponzio Pilato, è risorto... e tutti gli altri dati che la tradizione ci ha tramandato per identificarlo. In questo modo sappiamo di cosa parliamo – ma non necessariamente conosciamo chi sia. L’identificazione di Gesù di Nazaret, che ci dà la possibilità di non confonderlo con nessun altro personaggio, non è la stessa cosa che la sua identità, che ci dà la possibilità di conoscerlo.
Per conoscere l’identità di una persona ci vuole amore, ci vuole fede, occorre che uno la scopra personalmente, si apra ad essa. È in questo incontro faccia a faccia, da persona a persona, da tu a tu, da amante ad amante, che l’altro viene conosciuto nella sua personalità e che il conosciuto trasforma il conoscente e il conoscitore il conosciuto. Questo è il mistero dell’identità della persona. La madre conosce l’identità del figlio, mentre i dati anagrafici servono solo per la sua identificazione.
Per conoscere l’identità di Gesù di Nazaret è necessario incontrare la sua persona. La storia ci descrive solo i personaggi. Ma non possiamo incontrare una persona nel passato. Del passato si può avere un ricordo, un’anamnesis, una credenza ‑ e una credenza fragile, certamente, perché fragili sono i suoi paradigmi storici. Possiamo credere negli avvenimenti di Betlemme o credere in altri fatti della vita di Gesù, ma non possiamo dire che abbiamo l’esperienza di Betlemme, dell’Incarnazione e della tomba vuota, perché non eravamo là e non abbiamo veduto. L’esperienza non è un ricordo, l’esperienza è un fatto che ci accade e ci trasforma, anche se può trovare il suo fondamento in una memoria attualizzata, nel qual caso è una memoria ritrasmessa dalle generazioni precedenti.
Se Cristo è solamente un personaggio storico, l’esperienza del cristiano si riduce all’esperienza esistenziale prodotta dal ricordo della sua vita, ritrasmessa mediante la memoria che di lui si è conservata. In questo caso gli esperti hanno la massima autorità e il cristianesimo si riduce ad una religione del Libro!
Ma per il cristiano, l’esperienza di Gesù è l’esperienza di Gesù Risorto, vale a dire del Cristo vivente, hic et nunc, oggi e sempre, per dirla con S. Paolo. Non è un’esperienza storica ma metastorica, personale e intrasferibile. Avviene nel tempo, ma non è storica, questo è ciò che rende tale esperienza così potente e allo stesso tempo così difficile da comunicare. È l’atto di fede che attualizza questa esperienza dell’ineffabile, che per i cristiani si realizza “in e attraverso Cristo”. Chi non ha avuto l’esperienza di essere risuscitato da Cristo ‑ anche se si definisce cristiano e si ritiene ortodosso (identificando doxa con dottrina) ‑ non potrà dire come i samaritani. “...non è più sulla tua parola che noi crediamo ...noi stessi abbiamo udito e sappiamo...” Non potrà capire l’incipit ‘sensuale’ della prima lettera di Giovanni, né la maggior parte dei testi delle Scritture – e anche della tradizione ‑ cristiane. Il Cristianesimo non è una religione del Libro, ma una religione della Parola – della Parola viva udita e colta nella sua forza trasformante, da coloro che hanno orecchie per udire...”
[R. Panikkar, L’esperienza di Dio, Queriniana 1998, p. 71]

Luca 11,14-23

In quel tempo, Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: “È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni”. Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni in nome di Beelzebul. Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio. Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino. Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde”.

Quando emettiamo un giudizio sull'altro, giudichiamo in realtà sempre e soltanto noi stessi, rivelando il nostro di cuore...

Accade nelle nostre comunità di non saper riconoscere il "dito di Dio" nel volto dell'altro perché siamo troppo intenti a succhiarci il nostro pollice... ma le "mammelle di Dio" sono un'altra cosa!

martedì 26 febbraio 2008

Matteo 18,21-35

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

Appena uscito... lo prende alla gola e lo soffocava.
Non è facile dire grazie: all'Io è insopportabile di essere "debitore", di essere "figlio", di dovere ad un altro ciò che di meglio c'è in noi.

Il ragionamento è più o meno questo: Se tu mi avessi restituito i trenta grammi d'oro, io non avrei dovuto essere riconoscente di addirittura centosessantaquattro tonnellate d'oro, ma "solo" di centosessantatremilioninovecentonovantonovemilanovecentosettanta grammi...

Non esiste possibilità alcuna, di costruire qualunque cosa nella vita, senza la gratitudine. Il Vangelo stesso è la possibilità di accedervi.

La riconoscente gratitudine è luce dell'anima, pace del cuore, gioia infinita, anima della preghiera. È l'esultanza nello Spirito, è beatitudine anticipata... È il colore nella vita...

Certe vite tristi, virtuosamente tristi, che come zombie affamati girano nelle nostre comunità, nascono proprio dall'incapacità di dire-fare grazie.

Eppure "fare grazie" (eucaristia) è il cuore del cristianesimo, dell'annuncio evangelico. Il vangelo è bella notizia perché finalmente c'è qualcuno che ci rimette ogni debito! Dobbiamo solo accogliere questo dono... Non a caso è il cuore del Padre nostro: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori... in attesa di scoprire che siamo in debito persino verso i debitori... Solo così se ne santifica il nome... Solo così si può essere beati, anche se si hanno le lacrime agli occhi...

Se vivessimo questa dimensione, la vita rifiorirebbe, le vocazioni riprenderebbero e una nuova primavera sboccerebbe nell'inverno delle nostre comunità e del nostro cuore inacidito... e, ogni allusione non è assolutamente casuale, smetteremmo di isolare, esiliare, accusare, condannare, senza possibilità di appello... semplicemente perché l'altro non è "fedele" come noi ci illudiamo di esserlo...

E scopriremmo una verità più grande delle nostre coerenze: che l'altro, proprio nella sua diversità, persino nel suo eventuale peccato, ci rende possibile un cammino esistenziale che ci conforma al Figlio. Che fa che il Padre sia finalmente mio Padre!

Ma l'Io trova insopportabile essere debitore, soprattutto verso il "nemico"...
Ma io vi dico grazie lo stesso!

venerdì 22 febbraio 2008

Il Signore è in mezzo a noi sì o no?

Le letture che la Chiesa ci propone in questa terza domenica di Quaresima, mi pare siano talmente ricche, da rendere impossibile un’indagine approfondita di tutto ciò che mettono in campo. Per questo mi limito a delineare quello che per me può essere un filo conduttore che le unisce e guida, e cioè: è soltanto facendo esperienza (e facendo poi memoria) del Signore che mi incontra nel più intimo di me (Gv 4,5-42), che Egli può essere tolto dal banco degli imputati (Es 17,3-7), dov’è guardato con sospetto come un lui qualunque, e diventare un Tu con cui Vivere la vita (Rm 5,1-2.5-8).
Cerco di spiegarmi…
E lo faccio a partire dall’esperienza del popolo di Israele nel deserto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Ecco la domanda inquisitoria nei confronti di Dio, il ribaltamento delle posizioni in campo: da terra di prova per la fede dell’uomo, il deserto diventa luogo dove in discussione vi è Dio in persona.
Non è questa certo una domanda che noi possiamo permetterci di guardare con aria di sufficienza, o superiorità da benpensanti: quante volte infatti è salita in gola anche a noi? Soprattutto proprio in quei momenti in cui come si dice del popolo si «soffriva la sete per mancanza di acqua»?
Per ognuno certamente l’esperienza del deserto e della sete assume contorni e sfumature personalissime, l’acqua che manca è per ciascuno connotata in modo singolarissimo, ma – mantenendo il paragone – non si può negare che quello della mancanza di acqua sia proprio un tratto caratteristico di questa nostra vita umana, di tutti e di ciascuno dunque.
Ma non solo: comune a tutti e a ciascuno pare anche, almeno tendenzialmente, la reazione a questa carenza di acqua, di vita. Essa si connota infatti umanamente con l’inquisire Dio: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». È lui il primo imputato del nostro male di vivere, dei nostri stenti, delle nostre infelicità e solitudini, delle nostre povertà e miserie… della nostra sete di Vita: Dov’era Dio?
Interessante a questo proposito è che la domanda «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» è come urlata ad un cielo vuoto: non è rivolta a Mosè, né a nessun altro membro del popolo; e non è rivolta nemmeno a Dio stesso; Egli vi è infatti citato alla III persona…
Quanto è diverso questo modo di interrogare il cielo rispetto ad un’altra domanda che verrà urlata da una croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Essa è sempre la domanda di uno che ha sete (sete di vita), di uno che dispera, di uno che muore… eppure, anche nel grido dello strazio, è la domanda di uno che tiene aperto il dialogo con il Padre suo, dandogli comunque del Tu, interpellandolo in prima persona.
È proprio questa la novità cristica (di Cristo), la sua risposta all’umanissimo istinto di messa in discussione di Dio che l’uomo ha dentro di sé: o Dio lo incontri nel dramma della libertà storica di Gesù, o, se rimane un’impalcatura religiosa, un insieme di pratiche e devozioni, non ti disseta, non ti salva, non ti dà Vita.
E in questo senso è significativo che il liturgista abbia posto in connessione alla sete di Israele nel deserto, il dialogo che Gesù intrattiene con la Samaritana sull’acqua viva che zampilla per la vita eterna: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna».
Questo incontro tra la libertà storica di questo uomo – che possiede in sé la fonte della Vita – e questa donna – che invece ha in sé la fonte della sete – è così coinvolgente perché non rappresenta un esempio edificante, un modello stereotipo di un rivolgersi al Signore. No: esso è raccontato nel suo snodarsi, nel suo svolgersi reale; e in questo senso noi lettori siamo come catturati dentro alla scena. Ancora una volta abbiamo la possibilità di accedere al mistero dell’identità di Gesù vedendolo in azione, dal di dentro della sua vita.
E dentro a questo suo relazionarsi concretissimo a questa persona rivela di sé (e del Padre suo) un tratto strepitoso: Egli è accessibile anche alle donne! Egli è accessibile anche ai peccatori!
Perché in effetti, mentre prima cercavo di dire che Dio lo si può tirar via dal banco degli imputati solo accettando la sfida di averlo come un interlocutore affidabile nella nostra vita (attimo per attimo), mi veniva anche in mente una possibile facile obiezione: io posso anche dare del Tu a Dio... posso pure vincere le mie paure, le mie resistenze, le mie recriminazioni nei suoi confronti... ma Lui che ha a spartire con una come me?
Dio è sempre stato il Dio dei buoni, dei santi, dei giusti, dei bravi, dei forti, dei maschi, dei grandi... Non è mai stato accessibile alle donne, ai bambini, ai poveri, ai peccatori, agli stranieri (tutta gente che infatti stava fuori dal Tempio – o comunque in zone riservate e “lontane” dal Santo dei Santi).
In queste pagine invece si rivela qualcosa di eccezionale: Dio è quel Gesù che camminando per le strade della Samaria si incontra (e qui il verbo va preso nel senso forte di “si mischia l’anima”) con una donna («Giunge una donna»), una donna considerata eretica («una donna samaritana»), un’eretica peccatrice («Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero») e proprio a lei si rende accessibile come fonte della Vita: «Sono io, che parlo con te».
Ecco perché è possibile anche per noi metterci nella nuova prospettiva (convertirci) che «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità».
Non è più questione di appartenenza etnica, religiosa, di genere, di casta, di santità... L’incontro col Signore è questione di spirito e di verità, o, se volete, di verità di spirito: cioè è questione di lasciarsi incontrare nella trasparenza del proprio essere, di quel centro vitale in cui noi siamo proprio noi...
O Dio lo si incontra lì nel nucleo vitale della nostra singolarità, o non è Dio, di certo non è il Signore della mia vita, non può essere la fonte che mi dà Vita.
È questa la nuova via aperta da Gesù nell’incontro col Padre: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo [...] perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato».
E non tengono più neanche le remore etiche che ci facciamo o che ci mettono addosso: «Infatti, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Non c’è scusa per non avventurar la vita sulle strade di questa amicizia... neanche il male commesso fa più da ostacolo... nel poter lasciarsi zampillare l’anima.

giovedì 21 febbraio 2008

Il Signore è in mezzo a noi, sì o no? - Sono io! che ti parlo

il prototipo della fede... la donna di tanti mariti! ...presso un antico pozzo biblico, a mezzogiorno, fuori orario per andare ad un pozzo, arriva una donna mai vista prima, razza e religione diverse e conflittuali... Gesù, seduto lì, spossato dal viaggio, inizia un approccio sorprendente per lei (e anche per i discepoli, dopo). Un dialogo, ...come si impara una lingua ignota in terra straniera. Partendo dall’esperienza comune delle cose semplici e concrete, evidenti a tutte due, provoca l’intuizione di un significato nuovo, per successive ambiguità e spiegazioni, equivoci e chiarimenti. Smonta dolcemente un’impalcatura interiore di paure e pregiudizi, bisogni e desideri, legami e rimorsi... e le fa intravedere e le induce nel cuore una costellazione di orizzonti nuovi... e infine un totale sconvolgimento della vita.
il sentiero difficile dei fraintendimenti: l’acqua e la sete, l’amore e i mariti, Dio e la sua casa, il messia e il suo vangelo, il pane e la fame, il missionario e il salvatore... sono i passi di questa privilegiata catecumena, alla quale un catechista d’eccezione insegna il cammino per diventare... discepola e apostola, come lui la sogna. Un arduo viaggio interiore, per portarla a disseppellire una sorgente d’acqua viva per la sua sete, non chissà dove, ma nel proprio intimo, scavando nei sedimenti induriti che le impediscono la conoscenza di sé e quindi la conoscenza di Dio. Le due immagini infatti sono speculari dentro di noi, e solo nella purificazione e ricostruzione della propria immagine di sé s’illumina l’immagine di Dio, e viceversa. Il racconto vivace dei desideri e delle resistenze, dello stupore e delle riluttanze di questa donna, segna in filigrana i passi critici della fede.
l’umiltà di Dio e la sua voglia di amore...: dammi da bere! dice lui - Io a te?! domanda incredulo il credente. Ma da questo rovesciamento dell’istanza religiosa, nella scoperta di un Dio che umilmente ci domanda udienza, comincia il risveglio. Se tu conoscessi il dono di Dio. Le nostre domande sviano il dialogo con lui! Prima di essere risposta, Dio è proposta. Prima di parlare bisogna ascoltarlo, se no sta zitto, e aspetta. È timido e umile. È Dio che ha sete di noi! è il dono che ci rovescia in cuore non è la risposta immediata ai nostri bisogni. L’uomo dialoga con lui affermandosi, Dio offrendosi! Infatti lo cerca, non per esserne servito, ma per fargli scoprire l’amore! Se il credente non lascia perdere ogni schema passato (sei tu più grande del nostro padre Giacobbe?...) per accoglierne invece la sfida di provare adesso a “bere l’acqua che io gli darò”, rimarrà sempre impigliato in un oppressivo ingabbiamento culturale, che non farà mai sgorgare dentro di lui lo zampillo che disseta e porta gioia.
il narcisismo egocentrico. È un circolo vizioso. L’amore non funziona perché non si apre all’altro, ma cerca se stesso, cioè la propria immagine e il proprio soddisfacimento. Non incontrando nessuno che lo ami, la sete insaziata moltiplica i tentativi di dissetarsi e la conseguente frustrazione... Anziché patire una grande sete , sembra più comodo inseguirne molte, piccoli e inappaganti. Gesù non rimprovera la donna per i cinque mariti, le fa osservare la sua situazione senza aggressione moralistica... Sa che non ha imparato ad amare, perché nessuno l’ha mai amata gratuitamente, in perdita – per amore! È l’apprendimento più difficile e più importante della vita. Si impara ad amare per contagio, per esser venuti in contatto con chi ti fa sperimentare che amare vuol dire consegnarsi alla sete dell’altro. Questo amore accende una nuova dinamica interiore, che ha il suo senso e la sua garanzia in se stessa. Lo sappia o no, si è incendiata ad un Amore che genera e nutre ogni amore, senza fine.
necessità e rischio della religione, la religione può diventare una gabbia per la fede. Ci sono valori e priorità, insegnamenti e sacramenti, di cui bisogna tenere conto (la salvezza viene dai giudei!). Ma sono genuini e autentici se e indicano la strada e accompagnano e aiutano per arrivare allo scopo...ma non sono lo scopo. Lo scopo è credere e accogliere in Spirito e verità che “Dio è Padre”. Dio non abita sui monti o nei templi, nei catechismi o nei dogmi, e nessuno può sostituirti nel tuo cuore per ascoltarlo e parlare con colui. La garanzia di questa scoperta, che Dio ci sta cercando da ogni parte e in ogni modo - proprio ora! ‑ è lo Spirito di amore che ci è donato nel figlio, quello che insegna al nostro cuore il gemito dell’attesa, che invoca: abbà, Padre! questa è la verità che salva!
“Io sono, che ti parlo!”... Attaccato acriticamente ai Padri antichi, alle tradizioni del passato, non più vitali per lui, il credente fa fatica a scoprire il presente di Dio. E quindi va in crisi ad ogni sofferenza e si ribella: il Signore è in mezzo a noi o no? Rischia di regredire nella religione come schiavitù o di fuggir nel futuro apocalittico. Ma il Signore non vuole servi. Si offre come amico, che è presente adesso: io ci sono! è sempre la sua risposta. Ma poiché non sembra soddisfare i nostri bisogni, assecondare i nostri pensieri, percorrere le nostre strade, Dio non c’è! Mentre il Signore indica chiaramente i luoghi dove dice: “sono io!” la Parola, l’eucaristia, i poveri, il prossimo della vita quotidiana... È qui, in loro, che Gesù ci prega: dammi da bere, da mangiare, consolazione, perdono...
il pane, Gesù non ha soltanto un’altra acqua per la nostra sete, ha anche un altro pane per la nostra fame. Come la samaritana si domandava di che acqua mai parlasse per avere questo potere di dissetare per l’eternità, così i discepoli domandano di che pane parli... Gesù lo indica nella volontà del Padre, che lo ha mandato perché semini nel mondo il seme della salvezza – che poi i discepoli mieteranno – come frutto per la vita eterna! La semina sta compiendosi con la predicazione del Vangelo... fino nei campi lontani, pronti per la mietitura – quando la salvezza sarà offerta a tutto il mondo, perché questa è la volontà del Padre, che tutti siano salvi!
la prima missionaria... La donna ha capito bene che la salvezza è questo nesso tra il presente (l’acqua e il pane) ... e la vita eterna! e questo segreto gli esplode in cuore. Tutto il paese ne è contagiato... e accorre a Gesù, per conoscerlo personalmente. Con la diffusione dell’amore si compie in lei la parabola salvifica della fede cristiana.

“la fede contiene una speranza che appaga – non un vago presentimento del futuro – perché essa al di là di tutti gi stadi intermedi, afferra il proprio compimento, non è semplicemente afferrata da esso... non ha alcuna ragione di fuggir un presente che si pretende incompiuto per un futuro più perfetto. Essa perderebbe in tal caso insieme al presente, lasciato perdere come di poco valore, anche l’eternità che vi dimora. La fede si riempie di questa eternità, soltanto adempiendo la missione, che da questa eternità viene per ogni tempo: solo nell’oggi coincidono tempo ed eternità: Ma la missione che si sta adempiendo è una cosa sola con la preghiera: Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra! Con l’adempimento della missione, l’eternità viene nel tempo, sulla via del futuro. Quindi anche il tempo cammino sulla via dell’eterno; e nell’eterno sta già, come risorto, il tempo passato. ... Questo cammino, ricco di tensione, del credente attraverso il tempo, verso il Risorto, è il vero progresso del mondo!” [ H.Urs von Balthassar, Il tutto nel frammento, Jaka Book,1990, p.289]).

Luca 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: “C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi”.

Il ricco! Ciascuno si fa una propria idea sul "quando si è ricchi" e di cosa è la ricchezza...
Ci sono anche tante ricchezze (qualunque cosa intendiamo con questo termine) che non vogliamo distribuire... In primis quelle "interiori", perché fare il generoso coi soldi poi non è tanto difficile: se ne ricevono anche tante gratificazioni e riconoscenze. Magnate, benefattore!
Se si prova invece a condividere semplicemente la propria vita...
Forse è per questo che rileggendo la parabola mi veniva in mente un certo tipo di concepire la "vita religiosa", la santità: chiusa in una torre d'avorio, incurante del grido di povertà interiore di una umanità che domanda condivisione di vita!
Eppure Gesù ha scelto di non salvarsi! Per salvare noi: poveri dentro!

Faremo la fine del ricco! Noi che ci siamo così preoccupati della nostra fedeltà formale per acquisire il benessere interiore, da non renderci conto di coloro che bussano alla porta dei nostri cuori (e delle nostre comondità) domandando un poco di amicizia condivisa!

Ci sono religiosi che si sono fermati alla tomba del loro fondatore e non sanno staccarsene... Essere fedeli al carisma del proprio fondatore, vuol dire saper andar oltre: avventurarsi nella storia, "prendere il largo", con lo stesso Spirito che li ha animati! Altrimenti non si chiama fedeltà, si chiama necrofilia!
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