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giovedì 1 agosto 2013

XVIII Domenica del tempo ordinario (C)


Dal libro del Qoèlet (Qo 1,2;2,21-23)

Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!

 

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 3,1-5.9-11)

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

 

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,13-21)

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

Le letture che la Chiesa ci propone per questa Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario mostrano con evidenza quella che è una prerogativa di tutto il vangelo, e cioè la sua perenne attualità, la sua capacità di interpellare ogni generazione, di parlare all’uomo di ogni tempo, anche al nostro. Anzi, in questi testi, sembra addirittura intercettata laproblematica vera dell’uomo del nostro tempo (ma forse solo perché – anche se in contenitori culturali diversi – è la problematica dell’uomo di tutti i tempi): e cioè il senso della vita, a fronte della morte… il “cosa siamo qui a fare?”, se poi dobbiamo morire… il “come dunque spendere questo breve tempo che ci è dato?”, “come impegnarlo?”, “in cosa impegnarci?”, “a cosa attaccare il cuore, dare le nostre energie, affidare il nostro tempo?”, “quale senso sposare, per cosa vivere, a cosa credere?”, “a chi dar retta, da chi imparare, chi seguire per non buttar via questa vita e noi stessi con essa?”…

Con il ritornante e sempre mai sopito ritornello amaro del libro del Qoelet: «tutto è vanità. […] Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!». Cioè, con la tentazione/consapevolezza (paura) agnostico atea, per cui, quelle, rimarranno domande senza risposta; tanto che non val neanche la pena affannarsi per pensarci… ma piuttosto smagarsi dall’illusorio incontro/ricerca di una sensatezza, per vivere da uomini/donne maturi, che sanno fronteggiare l’abissalità della morte, che ci riserva il niente («Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”»).

Solo che poi la morte sopraggiunge davvero – e non solo nel nostro immaginario, più o meno esorcizzato con ironia, sarcasmo, acidità o presunta maturità e superiorità quasi indifferente – e ci porta via chi amavamo di più, chi non era giusto che morisse (perché troppo giovane, troppo bello o troppo importante), chi non ha fatto in tempo nemmeno ad affacciarsi in questo nostro tempo (perché troppo fragile, troppo scomodo, troppo piccolo), chi non aveva ancora trovato il “lieto fine” delle sue vicende (perché troppo solo, o troppo ingarbugliato, o troppo poco amato)… chi – semplicemente – avremmo voluto fosse stato ancora un po’ a farci compagnia… e allora si fa esperienza di come tutte le risposte (o rispostine) che ci siamo dati con la testa, che abbiamo messo lì per placare/sfidare l’angoscia, non tengono, non sos-tengono la realtà di una vita inconsistente, in cui «Tutto ciò che esiste, ma, ancor peggio, tutto ciò che è umano e ci è caro, è destinato a morire. Non ha in sé capacità di tenere insieme i pezzi fisici o vitali di cui è composto. Questo vuol dire in/consistenza!»… e allora davvero «Non possiamo reprimere quella parte di noi che si commuove e si ribella. Le bestemmie di Giobbe, come gli incubi dei santi e dei dannati sono sacre, sono quelle di ogni uomo pensoso, per l’ingiustizia del dono di una vita “da morire”»! [Giuliano]

È dentro qui – dentro a questa condizione in-consistente dell’uomo (addirittura “da dentro” questa condizione) – che si innesta la vicenda storica di Gesù e in particolare questo brano del vangelo di Luca che la liturgia oggi ci propone. E che parla di vita e di morte, appunto…

Innanzitutto l’incipit – sempre sorprendente: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?»… Come “Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”? Non era mica Dio, il Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo?! Insomma il Messia? Dunque il giudice e mediatore sopra di noi? No! No, almeno nel senso che quest’uomo intendeva/pretendeva, che noi uomini intendiamo/pretendiamo… quando «vorremmo trascinare il vangelo nelle nostre questioni e non ci accorgiamo che esso invece va alla radice e le sconvolge tutte» [Maggioni, il racconto di Luca]: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede»!

Ecco la “radice” della questione: non chi ha ragione o torto, quanto spetta a questo e quanto a quello… ma “da cosa dipende la vita?”, il suo senso?… Che – come dicevamo – è il problema dell’uomo.

Gesù, all’uomo disperso nelle ragioni per aver ragione, nella misurazione di sé e degli altri per aver un po’ di più (di eredità, di soldi, di amore, di lucidità, di cultura, di simpatia, di attenzioni, ecc…) degli altri e “sentirsi sicuro” (e a ben guardare tutta la nostra vita la misuriamo così!), dice: la vita non dipende da ciò che si possiede… c’è da cambiare sguardo, pena il rimanere «consumati nel farsi dar retta» [De Andrè, Verranno a chiederti del nostro amore], cioè nel «primo più ingenuo tentativo di sfuggire alla morte, come privazione di ogni bene, che è la bramosia di accantonare più beni possibile… come sicurezza per sé!» [Giuliano]. C’è da fare un passo indietro – come guardare dal di fuori – tutte queste dialettiche sulle cose, che ci rendono più simili a un pollaio che ad una famiglia… e intravvedere in esse – e nella passione che ci mettiamo (per aver ragione appunto – dunque per sentirci giustificati, sicuri, “apposto”) – quanto siano intrise della logica dell’affermazione di sé, per niente libere – come credevamo e pretendevamo di imporre – ma sempre inserite nel meccanismo: paura della morte – bisogno di affermazione di sé (a scapito degli altri)… come a dire… in un regime di “si salvi chi può”… mors tua, vita mea

A guardarle così… le nostre “ragioni” (religiose, politiche, economiche, affettive, relazionali, ecc…) si sgonfiano proprio, perché ci appaiono non così nobili come volevamo farle apparire, ma meschine tanto quanto quelle degli altri… perché votate non a rispondere al problema del senso, ma a fintarne uno di cui convincersi e convincere, con lo scopo non di Vivere, ma di sopravvivere (più degli altri)…

È da qui che Gesù si tira fuori e vuole tirarci fuori, per fissare lo sguardo altrove: «“Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». Dove il nodo centrale è quel “per sé” – così evidente anche dal monologo che il ricco della parabola si fa tra sé e sé («Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!») – contrapposto al “per chi?” di Gesù («Quello che hai preparato, di chi sarà?”») e al suo “presso Dio” («Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»).

Un po’ scostati allora (è la preghiera!) dal pollaio delle pretese di possedere le giuste ragioni, orientati dallo sguardo stesso con cui Gesù – anch’egli scostato («stava in preghiera») – ha guardato la nostra storia, si può intravvedere che forse c’è differenza tra morire – perché non si è vinta l’ennesima battaglia della lotta per la sopravvivenza e si è stati sopraffatti da qualcuno/qualcosa più forte di noi – e morire – perché ci si è consegnati alla Vita, che è poi l’A/altro… già durante la vita!

Per arrivare – in pace – alla consegna finale…

Come Gesù… e tanti dietro a Lui…

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