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venerdì 30 gennaio 2009

L’εξουσία di Gesù e la nostra necessità di annacquarla

Il brano di vangelo che la liturgia ci propone per questa quarta domenica del tempo ordinario è il diretto proseguimento di quello di settimana scorsa (Mc 1,14-20), di cui si diceva che era il prologo dell’intero vangelo; esso infatti, attraverso il riferimento all’annuncio del Regno e alla chiamata dell’uomo, descriveva la prospettiva generale in cui è necessario leggere l’intera storia di Gesù.
Presentata dunque questa “premessa teologica”, il vangelo di Marco inizia col versetto 21 del primo capitolo a snodare il suo racconto. Esso, a differenza di quello matteano, non è raggruppato o raggruppabile per tematiche: anzi, sembra quasi porre gli episodi uno dopo l’altro, senza ordine. In realtà questa iniziale impressione di confusione è solo apparente. Un’analisi più approfondita infatti fa scoprire come Marco proceda con una sua logica ben precisa.
Essa è presente anche nel testo odierno (Mc 1,21-28). Quest’ultimo infatti è collocato all’interno di una sezione più ampia (che va sino a Mc 3,6), in cui il fattore coagulante è quello geografico: siamo a Cafarnao. In particolare poi la prima parte di questa ampia pericope (Mc 1,21-34), che si articola nell’arco di 24 ore, sembra voler descrivere la “giornata tipo” di Gesù: una giornata di sabato.
Anche questi versetti allora, più che essere resoconti cronologici o storiografici della vita di Gesù o di episodi di essa, vanno letti nell’ottica di Marco di voler illustrare la figura di questo personaggio. L’evangelista infatti, raccontando parole e azioni di Gesù, insegnamenti e opere di salvezza, vuole presentarci la sua missione. Non gli interessa tanto dirci dunque a questo punto cosa Gesù stia insegnando, ma che egli abbia insegnato e operato. In questo modo infatti Marco riesce a portare i suoi lettori di fronte alla stessa domanda dei contemporanei di Gesù: Chi è mai costui?
Questo infatti è il problema cristiano decisivo. Da come si risponde ad esso, dipende il modo di porsi nell’esistenza.La domanda, tornando nello specifico al testo, sorge riguardo ad un aspetto precipuo della personalità di Gesù, quello della sua εξουσία (exusìa). Questo termine, la cui traduzione risulta difficile per i fraintendimenti che può provocare, è quello che compare nel versetto 22: «Egli insegnava loro come uno che ha εξουσίαν»; e nel versetto 27: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con εξουσίαν. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono». Abitualmente questo termine è reso con il vocabolo “autorità”, ma potrebbe anche essere tradotto con “autorevolezza”, “potenza”. Il rischio però è che “autorevolezza” sia troppo soft e “potenza” un po’ troppo trucido, perché – ovviamente – non è una questione di muscoli…
Ad ogni modo, delineato l’ambito semantico in cui il termine si colloca, si può affermare che esso indichi precisamente l’incomparabilità del modo con cui Gesù afferma e si afferma. Questo suscita infatti, in chi lo vede e ascolta, la domanda: Chi è mai costui? È come insegna (rispetto agli scribi) e come comanda agli spiriti maligni che sbalordisce i presenti.
L’insegnamento degli scribi infatti (i teologi, biblisti e giuristi dell’epoca) mutuava solitamente la sua autorità dal riferimento alle Scritture o dalla tradizione degli antichi, oppure si faceva accettare rimandando all’autorità di un celebre maestro: l’εξουσία non risiedeva dunque nell’insegnamento stesso. Per Gesù invece non è così: il suo è un annuncio che ha in sé la sua forza.
Stesso dicasi per l’esorcismo: questa pratica era di moda e anche la letteratura rabbinica ne parla. Essa si radicava sulla convinzione che all’origine di qualsiasi malattia vi fossero i demoni, specie se si trattava delle varie forme di malattia mentale, che inducevano a pensare che l’ammalato non fosse più padrone di sé. Anche i vangeli sembrano seguire questa convinzione e Gesù stesso sembra, almeno in parte, adattarvisi. Anche perché essa, al di là della reazione di sufficienza che genera in noi uomini post-moderni, non ha minimamente la pretesa di valere come diagnosi medica, né vuole preludere a una trattazione speculativa sulla natura dei demoni. Piuttosto essa riflette la lettura “teologica” che l’uomo del tempo – di fronte a certi casi particolarmente inquietanti – faceva, andando alla radice della situazione, là dove si scopre l’impronta del male, di ciò che è contro la volontà di Dio, che di fatti coincide con la distruzione dell’uomo [cfr. B.Maggioni, in Il racconto di Marco].
Al di là di questo excursus ciò che però a noi interessa è che la diffusione della pratica degli esorcismi al tempo di Gesù, prevedeva riti lunghi, strani e complicati, pieni di parole magiche e riti misteriosi. Gesù invece si impone sullo spirito impuro semplicemente con un comando: «Taci! Esci da lui!». È per questo che la folla si meraviglia.
Come si diceva in precedenza però, questa sorprendente εξουσία di Gesù non è contingente all’episodio appena descritto: è anzi uno dei tratti fondamentali della sua persona, tanto che sarà ciò che lo condurrà alla morte. Esso va dunque indagato con maggiore attenzione evitando di storcere il naso perché immediatamente sembra mettere in discussione il volto serafico, bonario e radioso di Gesù che ci piace tanto… Gesù è certo anche tutto questo, ma se lo si riducesse solo a quello risulterebbe un ectoplasma etereo di se stesso… è necessario dunque tentare di rendere ragione anche di altri dati che emergono con chiarezza dal testo evangelico: Gesù sa essere deciso, a tratti addirittura duro; ma soprattutto rivendica una pretesa altissima: essere Figlio di Dio!
Tutto questo va composto perché pian piano si possa decostruire il volto di Gesù (e dunque di Dio) che abbiamo in testa noi, e si lasci rilucere quello che emerge dai vangeli. In proposito è necessario mostrare che, al di là dell’episodio di Mc 1,21-28, i punti topici in cui i vangeli mostrano l’εξουσία di Gesù sono principalmente due: l’espressione «vi fu detto (che vuol dire “nelle Scritture c’è scritto…”)… ma io vi dico…»; e quella, più di stile giovanneo, che suona «Io sono».
Per quanto riguarda la prima – legata più al modo di affermare che di affermarsi di Gesù – «vi fu detto… ma io vi dico…», è innegabile il percepire che quel “ma” è duro da sopportare. Inizialmente certo è duro per “quelli di fuori”: i fans di Gesù in questo momento esultano nel vedere “Quanto è grande il nostro”; ma poi gli passerà questo entusiasmo, perché non sarà tanto comodo neanche per loro tenerselo… Però al momento… si gongolano un po’… è successo ai primi discepoli, ai secondi, ai terzi… fino a noi…
Ma in che cosa consiste più nello specifico la fatica di digerire quel “ma” che Gesù pronuncia («vi fu detto… ma io vi dico…»)? Consiste nel fatto che abitualmente si è indotti a pensare che l’uomo religioso che pretende accreditarsi come uomo religioso, soprattutto se ha una proposta forte da fare, non contraddica il riferimento religioso più potente di coloro a cui si rivolge (non a caso la prima lettura dal libro del Deuteronomio, parlando dell’istituzione dei profeti, puntualizzava dicendo: «il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire dovrà morire»). Gesù invece tradisce questa aspettativa.
Detto più semplicemente: il protagonismo col quale Gesù parla, pretendendo di “correggere” addirittura la Scrittura, mentre si sta rivolgendo – tra l’altro – da ebreo ad ebrei, è sconvolgente. E i vangeli registrano questa scandalosità. Gesù stesso dice: «Beati quelli che non si scandalizzeranno» (Mt 11,6), quelli, cioè, che non troveranno inciampo in questo stile del suo ingresso nella rivelazione.
E noi, che veniamo dopo 2000 anni di storia cristiana, non dobbiamo cadere nell’errore di tralasciare o sminuire o non dare il giusto peso a questa scandalosità: per converso, infatti, la nostra distrazione significherebbe il non percepire la pretesa e dunque la portata dell’evento Gesù nella storia dell’uomo.
Anche perché, come già accennato, al di là dell’ εξουσία nel modo di affermare, Gesù utilizza la stessa autorità nel modo di affermarsi. È ciò che mostra in particolare la già citata espressione giovannea:«Io sono», che nella lingua di chi lo ascolta è nientemeno che il nome di Dio (Es 3,14)! Ma è ciò che si può trovare anche nell’avocazione a sé del potere di rimettere i peccati che Gesù fa (Mc 2,1-12), potere evidentemente riservato in modo esclusivo a Dio.
È dunque come se Gesù esercitasse il ruolo di Dio in proprio…
È questo che scatena le reazioni ambivalenti di chi lo incontra; da un lato infatti egli suscita ammirazione – “Nessuno ha mai parlato come quest’uomo…”; “Nessuno ha mai fatto le cose che fa quest’uomo…” – non solo per l’esibizione di un potere straordinario che promana dalle sue parole e opere, ma soprattutto per il fatto che esse dicono di una confidenza con Dio, con l’origine delle cose, della natura, con il corso degli eventi… Dall’altro la reazione omicida, che identificandolo come un bestemmiatore, lo condurrà al patibolo…
Questa radicalità nella reazione negativa contro di lui non è segno dell’ottusità dei suoi oppositori; al contrario, forse proprio loro, più di tanti discepoli di Gesù, hanno colto più chiaramente la corposità della pretesa che Gesù rivendicava! Essi cioè hanno ben capito di non trovarsi di fronte alle solite, classiche pretese degli uomini religiosi del tempo, che fossero profeti o ciarlatani: Gesù non sta proponendo un qualsiasi itinerario morale, un percorso ascetico, un cammino spirituale da manuale… E loro lo hanno capito, per questo reagiscono eliminandolo. Essi sanno che se Gesù fosse semplicemente un maestro, o un guaritore, o un pio uomo di Dio, o anche davvero un suo messaggero, in fin dei conti si riuscirebbe sempre a farlo rientrare nel “sistema”, ad annacquarne il messaggio, a placarne la novità… sarebbe pur sempre solo una novità cronologica… una delle tante novità monotone che il mondo ha visto e digerito…
Solo che Gesù è ben altro: «Egli è Dio» suona l’originaria professione di fede cristiana! E questo non è contenibile in nessun sistema, tanto meno religioso. Ecco perché come in una reazione immunitaria il sistema lo elimina… Esso, sentendosi minacciato, reagisce uccidendolo. Non a caso nella morte di Gesù sono complici il potere religioso, il potere politico e il potere finanziario… Loro sì, hanno capito l’esplosività di questo uomo-Dio: noi, suoi seguaci, invece, ancora oggi, spesso facciamo così fatica a non ridurlo a un qualsiasi fondatore di religione, a un uomo normativo tra gli altri… forse perché anche noi, inconsapevolmente, sappiamo che se non lo riducessimo a un catechismo o a un codice morale, dovremmo davvero permettergli di far esplodere il nostro “sistema” (personale, politico, economico, ecclesiale…)?

Lo spirito immondo uscì dall'uomo, straziandolo e gridando forte!

La prima giornata da Messia!

… è ormai arrivato il tempo della manifestazione pubblica del Messia! Dopo che Gesù è stato battezzato da Giovanni, è tornato in Galilea, dove era cresciuto, e qui annuncia il tema generale della sua predicazione: Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e affidatevi al Vangelo! Adesso, Marco ci racconta una giornata "tipo" del Messia. Gesù ha chiamato i suoi primi discepoli per farne pescatori di uomini ed inizia a predicare nella sinagoga del paese, dove si scontra subito con lo spirito del male - in un indemoniato… Poi va (a mangiare, immagino!) in casa di Pietro. Ne guarisce la suocera, la quale infatti, liberata dalla febbre, subito si alza "per servirlo". La giornata finisce alla sera tardi, dopo il tramonto, con l'arrivo pressante di tanta gente, e Gesù guarisce ancora numerosi malati, scaccia e zittisce i demoni… Infine, dopo poco sonno, si alza prestissimo e si ritira in luogo deserto per pregare! Ecco la sintesi delle attività significative del messia, simbolicamente raccolte in un sol giorno.

Erano stupiti… perché insegnava loro come uno che ha autorità

Questa impressione di un altro stile di insegnamento, è la prima novità sbalorditiva, che risalta nel suo modo di esprimersi e spiegare la Parola di Dio. Marco non menziona di preciso cosa Gesù dicesse in quel momento: era troppo emozionante e straordinaria l'autorevolezza con la quale parlava. Si vede chiaro dai commenti della gente il frutto di tale stile di insegnamento, che sarà la causa vera della sua rovina! Il primo risultato è questo: Gesù provoca negli ascoltatori una coscienza critica nuova, come se li liberasse dalla soggezione agli insegnamenti ripetitivi e anestetizzanti dei loro scribi e maestri. La gente fa il paragone, ovviamente, e la predicazione di costoro risulta screditata ed esautorata. La Parola di Gesù, invece, tocca corde interiori così vere e sensibili che la verità di ciò che dice diventa evidente e affidabile, e in più, affascinante e coinvolgente, perché ciò che lui dice… si vede subito che viene dal profondo della sua esperienza di un intenso rapporto con Dio e con la gente. È dunque la gente semplice e senza istruzione, con meno pregiudizi in testa, che intuisce per prima chi ha davanti. Sono costoro che in qualche modo rispondono e danno seguito alla proclamazione del Padre al Battesimo, di pochi giorni prima: tu sei il figlio mio, l'amato, in te ho posto il mio compiacimento. Nessuno infatti ha mai parlato così… e ciò che diceva avveniva!

Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!

La gente, già sbalordita per lo stile e l'autorevolezza della sua parola, assiste immediatamente ad un fatto sconcertante. La parola di Gesù (che sarà poi esposta compiutamente nel seguito del vangelo) suscita la reazione violenta di un uomo, che era lì nella sinagoga, in mezzo ai fedeli. La gente sente e vede esplodere in lui lo "spirito immondo" che lo possiede… Allora sembrava normale interpretare come intervento di forze sovrumane una così incontenibile pulsione. Gesù coglie l'occasione per il suo primo "esorcismo", che qui assume dunque un valore programmatico, perché questa sua forza interiore che provoca e scardina le "possessioni diaboliche" dal cuore dell'uomo, lo accompagnerà sempre. Gesù dà per scontato, dunque, che un uomo possa essere interiormente dominato da forze più potenti di lui che lo schiavizzano, da uno "spirito" che può paralizzarne l'autonomia e farlo parlare e agire al suo posto! Un male che imprigiona e violenta l'uomo dal di dentro, costringendolo a fare ciò che non vorrebbe, a vivere una condizione oppressa, che lo riduce a rovinarsi da solo, a regredire lentamente, nei modi più svariati, dalla vita alla morte, facendo male a sé e agli altri… Gesù si rivela subito il "Signore", con forza sicura e determinata: Taci ed esci da costui!" Marco racconterà altri tre esorcismi di persone singole: il geraseno posseduto da uno spirito immondo "plurale": 5,1ss – la figlioletta della donna siro-fenicia: 7,24 - e il ragazzo epilettico che i discepoli non riuscivano a guarire: 9, 14ss. Lo spirito che possiede queste persone è sempre definito "immondo". Per la cultura ebraica è immondo ciò che ha a che fare con la putredine, o comunque il disfacimento della vita, ciò che ha attinenza con la morte… e quindi separa dalla comunione con Dio (il culto) e dalla comunione con gli altri (le relazioni personali e sociali). La loro liberazione avviene tra reazioni violente di urla e convulsioni, a significare la tenacia del male e la fatica a liberarsene. Ma sempre il Signore si impone e libera i possessi dal soffocamento che ne deturpa l'umanità, e tutti tornano capaci di relazioni umane.

Un insegnamento nuovo dato con autorità

Ancora oggi, persino nel nostro modo occidentale tanto secolarizzato, quando la gente non sa spiegare un fenomeno, un problema o un dolore, ricorre a spiegazione magiche, che segnano il riemergere di paure e rimedi che vengono da culture ancestrali, da cui non è facile liberarsi, o da paure inconsce radicate nelle nostre caverne interiori, sulle quali è arduo far luce. Quindi cerchiamo di spiegarle con il malocchio, il destino, il castigo di Dio, gli spiriti malvagi o persino gli oroscopi. Ora, uno degli obiettivi primari del vangelo di Gesù è aiutare la gente a liberarsi da queste paure, che possono diventare incubi paralizzanti. L'arrivo del Regno di Dio significava appunto l'irruzione di un potere più forte, come dirà il Vangelo più avanti: «Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose, se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa» (Mc 3,27). L'uomo 'forte' è la metafora del male più forte dell'uomo, che mantiene la gente imprigionata nella paura. Gesù è 'l'uomo più forte ancora', che giunge per legare Satana, il principe del male, e rapirgli l'umanità prigioniera della paura. Ecco perché è così coinvolgente e commovente l'impatto sulla gente di questo nuovo modo di "insegnare". Non dice soltanto che bisogna liberarsi dal male che è dentro di noi (convertitevi e credete nel vangelo!) ma fa ciò che annuncia. E alla sua parola il male esce dall'uomo! «Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!» (Mc 1,27). Uno degli scontri più duri con gli scribi è proprio il suo evidente potere sui demoni. Non potendo negarlo, si arrampicano sui vetri dell'assurdo: «È posseduto da Belzebù! E scaccia i demoni per mezzo del principe dei demoni!» (Mc 3,22). Ma il suo vero obiettivo è liberare l'uomo dalla paura. Sarà infatti proprio questo il primo "potere" affidato da Gesù gli apostoli mandati in missione: «Dette loro potere sugli spiriti immondi» (Mc 6,7). Come è anche il primo segno messianico che caratterizza l'annuncio del Vangelo: «I segnali che accompagneranno coloro che credono sono questi: nel mio nome scacceranno i demoni…(Mc 16,17). Nel vangelo di Marco è un ritornello che torna innumerevoli volte, come segno immediato della comparsa di Gesù: scacciava i demoni! I quali lo individuano come loro rovina! Con la sua parola, i suoi gesti, la sua presenza… dovunque arriva, l'uomo oppresso respira, si libera! Ovviamente in quella società era culturalmente più evidente che la paura e l'oppressione delle potenze diaboliche opprimeva la gente come un incubo e gli avvelenava la vita togliendo la pace e la serenità! Ma è una situazione dolorosa che perdura, purtroppo anche oggi, presso tanti cristiani, che predicano la paura del demonio e del suo retaggio che è l'inferno, come fosse ancora tanto potente da ricattarci e dominarci! Così rendono inutile la venuta di Gesù a liberarcene. Come se le cause della schiavitù dell'uomo non fossero invece l'avvelenamento di falsi miraggi che questa società inocula subdolamente in tutti. Come se Gesù non ci avesse "annunciato" dove stanno realmente le cause della disperazione dell'uomo – e non ci avesse "liberato dalla paura" di queste potenze malefiche. Diceva Teresa d'Avila:

Sapete quando i demoni ci fanno spavento? Quando ci angustiamo con le sollecitudini per gli onori, per i piaceri e per le ricchezze del mondo. Allora noi, amando e cercando quello che dovremmo aborrire, mettiamo nelle loro mani le armi con cui potremmo difenderci e li induciamo a combatterci con nostro immenso pregiudizio. Fa compassione pensarlo, perché basterebbe stringerci alla croce e disprezzare ogni cosa per amor di Dio, giacché il demonio fugge da queste pratiche, più che noi dalla peste. Amico della menzogna, e menzogna lui stesso, il demonio non va mai d'accordo con chi cammina nella verità. … Per conto mio, ho più paura di chi ha tanta paura del demonio che non del demonio stesso, perché lui non mi può far nulla, mentre costoro, specialmente se confessori, gettano l'anima nell'inquietudine: per causa loro ho passato diversi anni in così gravi travagli che ancora mi meraviglio d'esser riuscita a sopportarli. - Sia benedetto il Signore che mi ha prestato il suo valido aiuto! (V 25,21s)

Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!

Il "santo di Dio" è il contrario dello' "spirito immondo". È colui che mette in comunione, rimette in comunicazione con la vita, anzitutto, cioè reintegra il tessuto vitale della dinamica del corpo, del cuore, dell'intelligenza e delle relazioni fondamentali di una persona. L'uomo, liberato dall'incubo che lo paralizza, ridiventa capace di libertà e di amore. Perché è arrivata una presenza di Dio radicata nella carne della storia, ma insieme non distruttiva della umanità, che anzi è assunta come espressione storica autentica del progetto di Dio, nel suo stesso figlio!. Nasce la possibilità della laicità, cioè di una intensa coscienza della propria "umiltà" (terrestrità precaria e contingente). Laicità, che domanda una distanza dal Dio onnivoro dell'onnipotenza: «Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia» Dio in Gesù è visibile e usufruibile, ma "serve", non uccide l'uomo e la sua libertà. Anzi lascia spazio ai profeti e ai mistici, se vogliamo ascoltarli, perché continuino a ricordare agli uomini e alle loro istituzioni la loro inadeguatezza a risolvere i problemi di senso dell'uomo e della sua avventura sulla terra. A prevenirli dal pericolo di imprigionarsi ancora nella paura. Gesù è la fine di ogni pretesa teocratica e di ogni presunzione di monopolio magico della verità o di dio stesso. La verità d'ora in poi ha diritto di ascolto solo se è legata alla radicale disponibilità di donare la propria vita. Perché solo a questa condizione non è un'ideologia, ma annuncio efficace e liberante.

Omologazione...


Si può dire quel che si vuole su Di Pietro, può piacere o non piacere... ma dire che ha dato del mafioso al Presidente della Repubblica è a dir poco frutto di ignoranza della lingua italiana: del mafioso Di Pietro lo dava a se stesso nel caso fosse stato zitto, non certo a Napolitano...

La campagna di disinformazione (da destra a sinistra e tra i suoi stessi compagni di partito) per di più priva di argomentazioni che smontino realmente il giudizio politico, (giudizio a mio modesto parere non del tutto infondato)... fa ben temere per la democrazia non omologante di questo Paese...

Restando del parere che nella sintassi del discorso Di Pietro parlava di sé nell'ipotetica ipotesi che fosse stato zitto... faccio sostanzialmente mio questo articolo di FABRIZIO RONDOLINO pubblicato sulla Stampa.it... per questo non condivido nemmeno il parere di Di Pietro (vedi link al filmato più sotto) che vorrebbe negare a un "ex" (terrorista o meno) il diritto di "parlare" anche in una conferenza pubblica o "lezione" universitaria...

Dite liberamente la vostra...

L'allarmante caso Di Pietro
L’uragano che si è scatenato su Di Pietro induce ad una riflessione sullo stato della libertà nel nostro Paese. Non c’è giornale, gruppo politico, sito Internet o commentatore che non si sia scagliato con furia contro l’ex Pm più famoso d’Italia: e non per controbattere l’opinione sul presunto «silenzio» del Quirinale, ma per negarne la legittimità, la possibilità stessa di esistere. Mezzo Pd ha chiesto di rompere ogni rapporto con l’Italia dei Valori, tutti i senatori della Repubblica sono scattati in piedi per applaudire la loro «convinta solidarietà» a Napolitano, il presidente emerito Scalfaro ha segnalato l’esistenza di un reato. E lo stesso Quirinale, con un comunicato che ha pochi precedenti, ha giudicato «pretestuose» e «offensive» le parole di Di Pietro. Quelle parole sono probabilmente sbagliate, ma non sono né arbitrarie né insultanti: appartengono al dibattito politico. Ci sono molto buoni argomenti e una notevole documentazione per sostenere che il presidente Napolitano sulle questioni della giustizia non è venuto meno al suo ruolo costituzionale di arbitro, e che il suo presunto «silenzio» non è affatto assimilabile a un comportamento mafioso. Le opinioni sollecitano controargomentazioni: non comunicati di solidarietà, ritorsioni politiche o denunce alla magistratura.

Il caso Di Pietro è tanto più allarmante, in quanto non è isolato. Il capitano della Nazionale, Fabio Cannavaro, per aver detto che Gomorra (il film) «non gioverà all’immagine dell’Italia nel mondo, abbiamo già tante etichette negative», è stato accusato di colludere con la camorra, e più d’uno ha chiesto che gli sia tolta la fascia di capitano. Su Facebook, il network sociale più popolare di Internet, è in corso una campagna per cancellare quei gruppi di discussione che si proclamano fan dei mafiosi e, più recentemente, quelli che inneggiano allo stupro di gruppo. Sono opinioni abominevoli, ma sono opinioni. Questo confine non va mai cancellato. Un conto è sostenere cha la Shoah non è mai esistita, e un conto è bruciare una sinagoga. Un conto è chiedere che i rom siano cacciati, e un conto è assaltare i loro campi. È evidente che c’è un nesso fra le parole e le azioni: altrimenti, perché mai dovremmo parlare o scrivere? Il concetto stesso di educazione si basa sulla convinzione che le parole producano risultati. Ma spetta singolarmente a ciascuno di noi compiere o meno un’azione, e assumersene la responsabilità. Alle parole si può rispondere soltanto con altre parole.

Se ci pensiamo, l’unica vera libertà che ci appartiene come diritto naturale, e che definisce il nostro orizzonte nel mondo, è la libertà di esprimerci: è cioè la libertà di pensiero, di stampa, di coscienza, di religione, di ricerca scientifica... Tutte le nostre attività, che sia scrivere una canzone o andare in chiesa, votare alle elezioni o comprare un giornale, trovare un rimedio all’Alzheimer o scegliere una compagnia telefonica, hanno a che fare in un modo o nell’altro con la libertà di espressione. Poter dire la nostra, senza costrizioni né vincoli, è dunque il bene più prezioso. Se introduciamo un qualsiasi criterio per giudicare quali opinioni si possono esprimere e quali no, in quello stesso momento deleghiamo ad altri, fosse pure una maggioranza democraticamente eletta, la nostra personale libertà di espressione, che è invece inalienabile perché è soltanto nostra, come la vita. Chi può decidere che cosa è lecito dire e che cosa non lo è? Mentre è evidente che ammazzare un uomo per strada è un reato, è molto meno evidente la linea che separa un fan club dei Soprano da un fan club di Riina: in realtà, se ci pensiamo bene, questa differenza non c’è. Sta alla responsabilità di ciascuno capire che una cosa è un telefilm, una cosa è scrivere corbellerie su un capomafia pluriomicida, e un’altra cosa ancora è sparare.

La libertà di espressione è indivisibile. Tutti dovrebbero poter esprimere liberamente le loro opinioni. Soprattutto le più ributtanti. Mentre infatti la censura nasconde il problema e in questo modo sceglie di non risolverlo, un dibattito libero e aperto non esclude la possibilità di convincere chi non la pensa come noi.


Chi volesse visionare la parte "incriminata" del discorso di Di Pietro può andare sul Corriere cliccando qui

martedì 27 gennaio 2009

L'Ultima eresia


Leggo su Repubblica.it di oggi:

Lucca dice basta ai ristoranti etnici. Il nuovo regolamento del Comune (guidato da una giunta di centrodestra) per bar locali e ristoranti, licenziato in consiglio comunale giovedì scorso, prevede che, nel centro storico del capoluogo toscano (inteso dentro ai quattro chilometri quadrati delle mura urbane) "al fine di salvaguardare la tradizione culinaria e la tipicità architettonica, strutturale, culturale, storica e di arredo non è ammessa l'attivazione di esercizi di somministrazione, la cui attività svolta sia riconducibile ad etnie diverse...

...E il Comune, nel varare il nuovo regolamento, ha pensato anche agli arredi che devono essere 'confacenti al centro storico stesso', e ha specificato che i locali devono fornire: 'sedie in legno, arredamento elegante e signorile anche nei dettagli', al personale che deve essere 'fornito di elegante uniforme adatta agli ambienti nei quali si svolge il servizio e dovrà 'essere a conoscenza della lingua inglese'.

Fin qui, in sintesi, la notizia...
E uno dice proprio il «Giorno della Memoria» ci propini una notizia così banale?
Già solo che banale non è! E tanto meno innocua, perché fa capire di cosa si alimenta (è il caso di dirlo) il razzismo, e come gesti apparentemente innocui, se non rispediti al mittente, poco a poco creano una mentalità a cui assuefarsi, dove anche ogni forma di razzismo anche il più mostruoso (ma è solo un modo di dire perché non esiste un razzismo non-mostruoso o meno-mostruoso di un altro!) può trovare prima o poi le sue giustificazioni...
Lentamente ma inesorabilmente, per salvare la propria identità culturale si soffoca quella degli altri...
E a quel punto tutto può diventare «ovvio»:
Negare l’olocausto, la shoah, le camere a gas;
Credere al «complotto ebraico»;
Usare come sciacalli le vittime palestinesi (di oggi e di ieri) per giustificare le vittime ebraiche (di ieri e di oggi)...
Rinchiudere, foss’anche in un hotel a 5 stelle - lo dico con ironia visto che qualcuno afferma che non-sono-lager - delle persone la cui sola colpa è la disperazione che li ha spinti a venire in Italia e di volere fuggire da questi presunti luoghi di villeggiatura (ti voglio vedere se non lo faresti anche tu!) diventa un’ovvietà...
Accettare i dogmi cattolici e (quasi) tutti i Concili ecumenici, diventa più importante di accogliere l’altro nella sua umanità altra dalla mia. Diventa più importante del diritto di ciascuno ad essere diverso da me, se non altro per l’obbedienza (di cui ciascuno è testimone) a quella verità che Dio consegna storicamente a ognuno di noi...
Ecco che cosa mi ha aiutato a capire la riflessione su questa notizia - lo so che sto dicendo qualcosa fuori dal comune, e forse culturalmente «nuovo»: non c’è sostanziale differenza tra un razzismo e un altro; tra una forma di razzismo e un’altra; tra una legge razzista e un’altra; tra questa legge del comune di Lucca e la legge hitleriana che istituiva i campi di concentramento...
Lo so che è dura ad ammetterlo e per certi versi sembra un’assurdità anche a me quello che sto dicendo, ma provate a rifletterci attentamente e vedrete che a ben pensarci, forse non ho tutti i torti: sostanzialmente nel razzismo non c’è mai, per usare un termine caro alla tradizione cattolica, «peccato veniale»!


Nota: la mia sottolineatura dell'obbligo della lingua inglese, non è a caso... trovate voi le ragioni...

domenica 25 gennaio 2009

La Teoria dell'Attaccamento

Carissimi Amici… vi posto qui un pezzo scritto interamente da me. Essendo il primo articolo, che risale a circa un anno fa e che scrivo interamente per il web, vorrei il parere un po' di tutti voi… e… SIATE CLEMENTI!!

La Teoria dell'Attaccamento

Il termine “attaccamento” ha un significato generale e rimanda alla condizione di attaccamento di un soggetto: il sostenere che un bambino ha un attaccamento vuol dire che egli avverte il bisogno di percepire la vicinanza ed il contatto fisico con una persona di riferimento, soprattutto in particolari situazioni. Secondo John Bowlby (psicanalista) l’attaccamento è un qualcosa che, non essendo influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo, si struttura nei primi mesi di vita intorno ad un'unica figura; molto probabile è che tale legame si instauri con la madre, dato che è la prima ad occuparsi del bambino, ma, come Bowlby ritiene, non sussiste nessun dato che avalli l’idea che un padre non possa diventare figura di attaccamento nel caso in cui sia lui a dispensare le cure al bambino. Con la crescita, l’attaccamento che si viene a formare tramite la relazione materna primaria o con un "caregiver di riferimento", si modifica e si estende ad altre figure, sia interne che esterne alla famiglia, fino a scomparire: nell’adolescenza e nella fase adulta il soggetto avrà maturato la capacità di separarsi dal caregiver primario e legarsi a nuove figure di attaccamento. Bowlby riteneva che l’attaccamento si sviluppa attraverso alcune fasi e che possa essere di tipo "sicuro" o "insicuro". Un attaccamento di tipo sicuro si ha se il bambino sente di avere dalla figura di riferimento, protezione, senso di sicurezza, affetto; in un attaccamento di tipo insicuro invece il bambino riversa sulla figura di riferimento comportamenti e sentimenti come instabilità, prudenza, eccessiva dipendenza, paura dell’abbandono. Il comportamento di attaccamento è stabile e profondo fino a circa tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto; deve però essere in compagnia di figure di riferimento secondarie ed avere la certezza che il caregiver faccia presto ritorno.

L’importanza del legame di attaccamento.
Per Bowlby è molto importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata, poiché dipende da questo un buono sviluppo della persona: stati di angoscia e depressione, in cui un soggetto si può imbattere durante l’età adulta, possono essere ricondotti a periodi in cui la persona ha fatto esperienza di disperazione, angoscia e distacco durante l’infanzia. Secondo Bowlby il modello di attaccamento, sviluppatosi durante i primi anni di vita, è qualcosa che va a caratterizzare la relazione stessa con la figura di riferimento durante l’infanzia. Questo diviene successivamente un aspetto della personalità e un modello relazionale per i futuri rapporti. Rilevanti sono le difficoltà di sviluppo per i bambini che vivono fin dalla tenera età in istituti, di quanti vengono separati dalla figura di riferimento e di coloro che hanno a fianco un caregiver incapace di provvedere convenientemente alla loro cura…

Tutta questa teoria, proveniente dai banchi di scuola (dal mio banco di scuola) perché? Beh, cerco di spiegarvelo subito.

Questa teoria dell’attaccamento è stata ipotizzata e dimostrata da molti altri psicologi, Bowbly fu il primo, e devo riconoscere che tutti hanno sostenuto questa teoria con validi argomenti. Vi sembrerà strano, ma questo come può non rimandarci al nostro rapporto con il Signore? Siamo “attaccati” a Lui o no? Ne sentiamo il bisogno? Ci sentiamo disorientati se non lo percepiamo come prima? Il rapporto con il Signore non può non essere paragonato a quello della mamma con il bimbo. Ci sono delle differenze sostanziali però per noi… Ad esempio, se la mamma ad un certo punto scompare dagli occhi del bimbo, il bimbo piange, ma non tanto perché la mamma gli manca già, ma piuttosto perché non è ancora in grado di realizzare a livello cognitivo che la mamma può tornare (e lo farà si spera!). Ma a noi quando il Signore manca (partiamo da questa condizione, altrimenti cadiamo nelle sabbie mobili) siamo in grado di pensare che non se ne è mai andato in realtà? Non mi preoccupo del fatto che siamo in grado di pensare che il Signore torna… Lui non torna… il Signore non torna mai. Perché non se ne va mai!! Attaccamento vuol dire essere dipendenti dall’oggetto dell’attaccamento: il bimbo senza la mamma o qualcuno a cui è “attaccato” non sopravvive. Noi a volte sopravviviamo tanto bene… senza gli altri… addirittura senza il Signore. E ci illudiamo di essere delle isole quando invece siamo come tanti capillari di un’unica vena. A parte questo, non abbiamo mai pensato che anche noi siamo dipendenti da Lui? Ma non lo siamo perché lo vediamo come nell’Antico Testamento: se non lo esaudiamo, se non obbediamo ai suoi comandamenti, ci schiaccerà… assolutamente no! Siamo dipendenti dal Suo Amore!! Lui stesso dice di amarci: «Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.4). E se Lo percepiamo meno, se ci sembra che non ci ascolti, che non prenda in considerazione i nostri desideri, i nostri bisogni, dobbiamo ascoltarlo per AMORE! Dico ascoltarlo, perché Gesù c’è tanto più nel silenzio che in tanti comizi elettorali. Il bambino a 3 mesi quando ha fame urla come se lo stessero trafiggendo con una lama e la mamma non può dire: “scusa, piangeresti un pochino più piano che sto facendo dell’altro?”… Allo stesso modo il Signore non lo chiede mai a noi. Non ci dice mai di non pregare proprio in quel momento che ha cosa ben più importanti da fare. Scherziamo??? Stiamo parlando di Gesù: “Come una madre consola un figlio così io vi consolerò” (Is 66,13). È pur vero che noi non siamo più bambini. E possiamo pazientare che il Suo progetto si svolga… su di noi, sugli altri, anche se non capiamo dove si debba arrivare. L’attaccamento è un processo necessario per la crescita del bambino e condizionerà tutta la sua vita. A questo punto immagino che ognuno di noi stia pensando: “Beh, da piccolo mia mamma mi ha voluto bene, sono cresciuto bene io…” Ma il problema principale non è questo. Ci abbiamo mai pensato che nella nostra mamma c’era il Signore mentre ci accudiva?… che pensieri impegnativi… eppure non c’è niente di più ovvio.
Perché preoccuparsi se il salmista dice:
Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia”? (Sal 130).

Come una piccola scuola dove apprendiamo a vivere di Vangelo


Certo imitare la famiglia di Nazareth - troppo singolare l’esperienza di questa famiglia - non è possibile, ricalcando passi, situazioni, avvenimenti, però imparare a prendere il Vangelo dalla famiglia di Nazareth, oh!, questo si; anzi mi chiedo se questa non sia la grazia di questa domenica che celebra la festa della Santa Famiglia di Nazareth.
E facendoci aiutare come sempre, anche se solo inizialmente, poi dopo ognuno può continuare nella riflessione e nella preghiera anche lungo il giorno e nei prossimi giorni, facendoci aiutare da questi testi proclamati, come una piccola scuola dove apprendiamo a vivere di Vangelo.
Ci direbbe quel testo molto bello del profeta (Is 45, 14-17) che abbiamo ascoltato poco fa, “non cercando logiche di potere o di forza, ma percorrendo piuttosto i sentieri della mitezza, della giustizia, della bontà”. Questo apre il cuore di una famiglia, di una comunità, di un popolo, alla logica di Dio. E queste parole come diverranno sempre più incisive e concrete man mano che questa logica di Dio si andrà manifestando. Questo era un momento, certo importante, del cammino del popolo di Dio, ma dopo, pensiamo il momento dei libri della Sapienza, il momento di Gesù, questa logica di Dio, intrisa di mitezza e di bontà e di magnanimità sempre più evidente sarebbe apparsa. Questo è un apprendere il Vangelo, e questo vuol dire custodirsi bene da affanni eccessivi, da logiche che non sono somiglianti al Vangelo, e anche all’interno di un’esperienza di famiglia, di comunità, tutto questo può accadere, lo sappiamo, l’esperienza ce lo va dicendo, e come allora diventa bello questa mattina pregare il Signore Dio perché questo ci sia dato come dono e come grazia.
Oppure ci direbbe il testo della Lettera agli Ebrei (Eb 2, 11-17): “prendendosi cura degli altri”, come Lui, in tutto simile a noi, “si è preso cura della stirpe di Adamo” – bellissima questa frase che commenta il mistero dell’Incarnazione del Signore in una forma ineguagliabile come profondità, come bellezza. “Il prendersi cura di” fratelli e sorelle, questo è un apprendere il Vangelo, l’imparare il Vangelo. Ed è l’augurio che la liturgia di oggi sembra consegnare alle famiglie: diventino sempre più spazio e luogo dove la scelta del prendersi cura diventa un valore amato, uno stile educativo, una cosa che ci aiutiamo a perseguire in profondità. E questa ci è data come possibilità, anche avessimo difficoltà, e magari serie, dentro il cammino della nostra famiglia, comunque questa libertà del continuare a prendersi cura, del farsi carico di altri, questa nessuna situazione ce la potrà sottrarre, rimarrà una possibilità sempre aperta; anzi, a volte, sono proprio le persone più segnate dalla prova che si rivelano più capaci di prendersi cura di altri. Quasi come se la prova affinasse il cuore e ci rendesse più capaci di una disponibilità sincera.
Oppure, ed è l’ultima strada che la liturgia ci propone in questi testi: quell’abitare i confini piccoli di Nazareth, si concludeva così il brano (Lc 2, 41-42): “venne a Nazareth e stava loro sottomesso e sua Madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. Come un invito a non ritenere mai che la vita feriale, sempre identica nei suoi ritmi, in contesti semplici e poveri dove scorrono i nostri giorni e i nostri anni, non rassegnarsi mai a pensare che essi diventino la tomba dove si spengono gli ideali, dove i valori grandi escono mortificati. Ci direbbe l’esperienza di Nazareth: “guarda che piuttosto è vero il contrario, che abitare nei confini poveri, con una carica di amore vero, con uno sguardo comunque che va oltre i tuoi confini e che vorrebbe abbracciare l’intera ricerca e sofferenza dell’uomo, questo non è il far morire gli ideali, anzi è un alimentarli e in maniera grande e vera”. Forse alludeva a questo in quella risposta Gesù alla madre e al padre che angosciati lo cercavano: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Ecco sono alcuni doni che riceviamo nella liturgia di oggi, in questa domenica della famiglia e sappiamo quanto parole e convinzioni così diventino sempre più preziose oggi. E’ insidiata in mille modi oggi la famiglia, addirittura a volte nella stessa possibilità di esserci; e anche quando poi è data la libertà di farla nascere una famiglia, nelle scelte libere del cuore di un uomo e di una donna, la storia ci sta dicendo quanto sia frequente il frantumarsi di tutto, e magari dopo pochissimo tempo. Comunque il venir meno di un sogno , di una scelta, di un amore perseguito come senso della propria vita. A volte tutto questo sembra introdurre uno sguardo pessimista e negativo, che non è più capace né di sognare né di rilanciare, quasi incapsulato dalle tante drammatiche situazioni che segnano oggi la vita di tante famiglie o mettono in salita il loro cammino, anche dal punto di vista delle risorse di cui vivere, delle risorse economiche.
Pregando con calma questi testi, francamente sentivo piuttosto un invito nella direzione opposta: non ad intristirsi fino a divenire incapaci di intuire i valori più grandi, piuttosto un incoraggiamento è ad amarle ancora di più queste scuole di Vangelo, perché poi è forse questa l’esperienza che custodisce e che salva, che consente di nuovo di rimettersi in cammino, di nuovo di dire a dei giovani che un’esperienza come quella di vita matrimoniale è esperienza degna del nome della vocazione, esperienza degna di essere amata e vissuta con tutte le proprie capacità. Ecco, stamattina noi siamo pochi a celebrare, ma come è bello sentirsi dentro lo sterminato mondo delle famiglie e pregare con loro, e pregare a nome loro e pregare noi stessi come famiglia Tua, Signore.
don Franco Brovelli, omelia al Carmelo di Concenedo, 25 gen.’09, Santa Famiglia di Nazareth

Previsioni facili...


Stavo mettendo ordine nella mia casella postale... e mi ritrovo questa lettera scritta anni fa e indirizzata al direttore dell'Avvenire e naturalemente mai pubblicata...
Rileggendola mi sono spaventato di me stesso... mai avrei immaginato di essere così chiaroveggente...
La tempesta economica provocata da questi gnomi della finanza, sta ora investendo in pieno anche noi...
Non aggiungo altro... La offro alla vostra meditazione...
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Egregio Direttore,

[qui mi presento]

Leggendo l'"Avvenire" del 28/11/2006, ho notato che avete pubblicato un intervento dell'attuale presidente della Banca mondiale, sig. Paul Wolfowitz.

Devo dire che sono rimasto profondamente turbato da tale scelta editoriale. Mi chiedo come sia possibile che un giornale cattolico diventi il megafono della propaganda ideologica del potere politico-economico di cui il sig. Wolfowitz è stato ed è, non solo rappresentate, ma ideologo. Ignorate forse che insieme ad altri suoi amici è uno dei principali strateghi, tra l'altro della "guerra preventiva" come strumento militare del mantenimento ed espansione nel mondo [di un certo modo di concepire] la supremazia della democrazia americana?

Capisco che compito di un giornale sia anche quello di dare spazio a persone e idee che non coincidano necessariamente con l'orientamento generale della sua linea editoriale (e spero che questa sia la ragione vera della pubblicazione). Ma come è possibile farlo senza un minimo di contraddittorio? Non ne contesto la pubblicazione in sé, ma il modo con cui l'avete fatto! Su altre tematiche "sensibili", ben altro è stato il vostro atteggiamento.

Avete pubblicato il suo intervento con un tale rilievo da dare l'impressione che ne condividiate le idee e i contenuti. E senza tenere conto da "chi" veniva, lo dico con amara ironia, quella bella esposizione di sani principi umanitari. Come se fossero completamente in linea con i fondamenti stessi della dottrina sociale della Chiesa.

Non sapete più distinguere l'agnello dal lupo? La storia non vi ha ancora insegnato che spesso il lupo ama travestirsi da agnello e imitarne il verso? Dov'è finito il vostro discernimento? Vi siete lasciati ammaliare fino a tal punto da non riconoscere più la differenza tra coloro che amano la verità e coloro che amano nasconderla sotto una coltre di belle parole? E si limitassero solo alle parole! Basta così poco per accecarvi e distogliervi dall'amore alla verità? Non vi ha minimamente sfiorato il dubbio che alla domanda posta dal titolo dell'articolo ("Chi s'intasca gli aiuti?") avreste potuto facilmente rispondere voi stessi? Che sono "le Banche!"? Di cui Wolfowitz si proclama scrupoloso esecutore…

Eppoi di che si lamenta il sig. Wolfowitz? Di raccogliere ciò che semina?

Governi "forti" nel Terzo Mondo, ce ne sono stati eccome. Semmai sono state le potenze occidentali a indebolirli alla ricerca di governanti "compiacenti"! Eliminando anche fisicamente i suoi leader. O "isolando" uomini saggi e onesti, e per questo non influenzabili dalle interessate potenze occidentali, Russia, Cina e Giappone compresi. Non c'è praticamente un solo stato africano, che in un modo o nell'altro sia stato piegato (con la "buona" corruzione o la cattiva morte), ai "nostri" interessi economici.

E lo dicono anche! E senza pudore: "è fondamentale convincere i donatori (sic!) che stiamo usando bene (sic!) le loro (sic!) risorse" omettendo, tra l'altro, di dire come le hanno ottenute. Sono così convinti della nostra cecità che possono permettersi di bestemmiare la verità affermando che altrimenti "… verranno a mancare i fondi per rispettare i nostri obblighi verso i poveri, che sono i nostri veri committenti". E voi ci credete?

Così va il (loro) mondo certo! Ma da quando un giornale che difende con orgoglio la cultura e la tradizione cristiana offre ampio spazio a questi grandi sacerdoti del culto del dio Mammona che mettono a ferro e fuoco il pianeta per celebrare i loro culti e attuare i loro sacrifici? Come cristiano, mi sento profondamente umiliato!

Non vi dice niente la fine di Patrice Emery Lumumba, democraticamente eletto, capo di stato di quello che oggi resta dell'attuale Congo Democratico, ucciso, fatto a pezzi e dissolto nell'acido solforico, su ordine dei belgi e di Washington, che misero al suo posto per oltre 30 anni fino al 1997, forse il peggiore dittatore africano di tutti i tempi, Joseph-Désiré Mobutu, amico personale di presidenti USA e francesi, fedele alleato dell'occidente e grande persecutore della Chiesa? Oppure la fine di Thomas Sankara presidente del Burkina Faso, che voleva dare « l'Africa agli africani », osteggiato tra l'altro dalla Banca Mondiale e dal FMI ed eliminato da "nostri amici" africani?

Volete provare a consultare il vostro archivio, e fare la lunghissima lista di uomini valorosi del Terzo e Quarto mondo, morti ammazzati direttamente o indirettamente dal braccio militare del potere economico delle potenze occidentali? Provate almeno una ricerca sul Web…

Credo non vi basterebbe il giornale, solo per quelli ammazzati nella sola Africa nera… Certo non erano dei santi, alcuni forse, secondo i nostri parametri, delinquenti, ma i nostri politici sono così migliori da potersene fare giudici e boia al punto di trucidarli in quel modo?

E restando in Africa, quello che oggi succede in Rwanda e Burundi, nei due Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Costa d'Avorio, in Sudan, in Etiopia, in Guinea Equatoriale, in Guinea (Bissau), in Liberia, per dirne solo alcuni, è solo colpa dei "corrotti e deboli governi locali" come dice Wolfowitz? E non parlo di stati, come il Camerun, dove è soffocata sul nascere ogni speranza che sorga un giorno qualcosa di veramente nuovo! La miseria a cui sono ridotti quei popoli è solo o soprattutto un problema di governance dei "loro" governi e istituzioni locali? Le banali chiacchiere autoassolutorie di Wolfowitz hanno ammaliato anche voi?

Attendo dal vostro giornale almeno un articolo degno di questo nome che faccia giustizia davanti a tanta ingiusta menzogna. Vorrei vedere sul "nostro" giornale un amore verso la Verità, a 360 gradi, che sia più grande di ogni interesse ideologico contingente.

Mi sarebbe comunque bastato che osaste pubblicare, il giudizio che un grande presidente africano, di cui dal 31 gennaio 2006 si sta perorando la causa di beatificazione: Julius Kambarage Nyerere.

Nyerere, fu "lasciato solo" perché si era sempre opposto al diktat della Banca Mondiale e al FMI, cosa che non fece colui che gli succedette nel 1985 alla guida della Tanzania.

A chi, molti anni dopo, gli chiedeva "Perché lei ha fallito?", rispondeva: "L'impero britannico ci consegnò un paese con l'85% di analfabeti, due ingegneri e dodici medici. Quando ho lasciato la mia carica, gli analfabeti erano il 9% e c'erano migliaia di ingegneri e di medici. Quando, tredici anni fa, io ho lasciato, il reddito pro capite era il doppio di quello attuale, mentre oggi abbiamo un terzo di bambini in meno nelle scuole, e la sanità e i servizi sono in rovina. In questi tredici anni, la Tanzania ha fatto tutto quello che la Banca Mondiale e l'Fmi le hanno imposto di fare». E ritorcendo la domanda: «Perché voi avete fallito?».

Con buona pace degli attuali presidenti della Banca Mondiale e del FMI e dei loro "amici"!

Segue firma



Ecco a prova, l'intestazione dell'email...

Inviato: jeudi 30 novembre 2006 16:14
A: 'lettere@avvenire.it'
Oggetto: Lettera su "Avvenire" del 28/11/2006

L'Educazione è cosa del cuore


Dalle Lettere di san Giovanni Bosco

Se vogliamo farci vedere amici del vero bene dei nostri allievi

ed obbligarli a fare il loro dovere, bisogna che voi non dimentichiate mai che rappresentate i genitori di questa cara gioventù che fu, sempre tenero oggetto delle mie occupazioni, dei miei studi, del mio ministero sacerdotale, e della nostra Congregazione salesiana. Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore; e non veniate mai alla repressione o punizione senza ragione e senza giustizia, e solo alla maniera di chi vi si adatta per forze e per compiere un dovere.

Quante volte, miei cari figliuoli, nella mia lunga carriera ho dovuto persuadermi di questa grande ve­rità! È certo più facile irritarsi che pazientare: minacciare un fanciullo che persuaderlo: direi ancora che è più comodo alla nostra impazienza ed alla nostra superbia castigare quelli che resistono, che correggerli col sopportarli con fermezza e con benignità. La carità che vi raccomando è quella che adoperava San Paolo verso i fedeli di fresco convertiti alla religione del Signore, e che sovente lo facevano piangere e supplicare quando se li vedeva meno docili e corrispondenti al suo zelo.

Difficilmente quando si castiga si conserva quella calma, che è necessaria per allontanare ogni dubbio che si opera per far sentire la propria autorità, o sfogare la propria passione.

Riguardiamo come nostri figli quelli sui quali abbiamo da esercitare qualche potere. Mettiamoci qua si al loro servizio, come Gesù che venne ad ubbidire e non a comandare, vergognandoci di ciò che potesse aver l'aria in noi di dominatori; e non dominiamoli che per servirli con maggior piacere. Così faceva Gesù con i suoi apostoli, tollerandoli nella loro ignoranza e rozzezza, nella loro poca fedeltà, e col trattare i peccatori con una dimestichezza e familiarità da produrre in alcuni lo stupore, in altri quasi lo scandalo, ed in molti la santa speranza di ottenere il perdono da Dio. Egli ci disse perciò di imparare da lui ad essere mansueti ed umili di cuore (Mt 11,29).

Dal momento che sono i nostri figli, allontaniamo ogni collera quando dobbiamo reprimere i loro falli, o almeno moderiamola in maniera che sembri soffocata del tutto. Non agitazione dell'animo, non disprezzo negli occhi, non ingiuria sul labbro; ma sentiamo la compassione per il momento, la speranza per l'avvenire, ed allora voi sarete i veri padri e farete una vera correzione.

In certi momenti molto gravi, giova più una raccomandazione a Dio, un atto di umiltà a lui, che una tempesta di parole, le quali, se da una parte non producono che male in chi le sente, dall'altra parte non arrecano vantaggio a chi le merita.

Ricordatevi che l'educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è padrone, e noi non potremo riu­scire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l'arte, e non ce ne mette in mano le chiavi.

Studiamoci di farci amare, di insinuare il sentimento del dovere del santo timore di Dio, e vedremo con mirabile facilità aprirsi le porte di tanti cuori ed unirsi a noi per cantare le lodi e le benedizioni di Colui, che volle farsi nostro modello, nostra via, nostro esempio in tutto, ma particolarmente nell'educazione della gioventù.

giovedì 22 gennaio 2009

È il momento giusto: venite dietro a me!

Il tempo si è ammainato!
…dice l’espressione marinara usata da S. Paolo, tradotta tradizionalmente “il tempo si è fatto breve” oppure “…è arrivato ad una svolta”. Il tempo si è ammainato… come le vele delle navi antiche in vista del porto. Non perché Paolo pensi che il viaggio della nostra vita sia ormai finito, senza futuro- e la storia alla sua conclusione! Non è di tempo cronologico che si tratta.
I primi cristiani, per qualche decennio, forse si erano illusi che fosse ormai imminente il ritorno di Cristo e la fine del mondo. Ma presto hanno capito che non era la quantità, ma la qualità del tempo che era cambiata. È la novità e l’intensità dei contenuti che ci sono stati rivelati e donati in Gesù e nel suo vangelo che provocano dentro una voglia insaziata di viverli, di vederli realizzati subito, ma sono così disomogenei e sproporzionati alle condizioni presenti… che lo spazio e il tempo non ci bastano! La pulsione e la premura dell’attesa che c’è in cuore rende il tempo breve, cioè stretto e angusto, come se tutte le cose da fare, rigenerare e inventare non ci stessero dentro. Il contesto dell’espressione di Paolo è provocato dalle domande dei suoi interlocutori, dai problemi provocati nella loro vita dalla conversione al Vangelo. Problemi di amore, di matrimonio o castità, ma anche di schiavitù o libertà, di ricchezza o povertà, di fede o paganesimo, di cibi puri e impuri… Cosa ne è di questi problemi vitali, quando a uno scoppia in cuore la fede in Gesù Cristo? Tutto appare ribaltato… comunque ogni dimensione della vita sembra sconvolta, sotto la pressione di questa novità nel cuore e nella mente! Cosa bisogna fare?
Il tempo è compiuto!
È finito un tempo! È cambiato il senso della vita. La vita precedente, il “tempo di prima”, non è condannato o bruciato… è compiuto! cioè è arrivato a maturazione. Ha trovato una sua chiave universale di lettura che non spiega tutto, perché la vita continua coi suoi problemi, ma cambia il senso di tutto. Secondo il Battista la chiave è questa: Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccati del mondo. È compiuto il tempo dell’attesa, il tempo in cui prepararsi alle scelte che erano ancor indistinte all’orizzonte, il tempo in cui neanche lui, il precursore, aveva ancora riconosciuto il messia. Paolo fa una lettura originale e profonda dell’inizio della predicazione di Gesù raccontata da Marco: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo. Il tempo, che era gravido del Verbo (il “progetto” vivo del Padre ormai seminato nel mondo) è arrivato a maturazione. Occorre perciò “girarci totalmente” verso di lui (convertirci), ed affidarci alla sua Parola fatta carne. Questo comporta certamente il convertirsi dalle abitudine o condizioni perverse, nelle quali in qualche modo tutti abbiamo vissuto, per quanto riguarda il passato. Lo diceva poco prima chiaramente l’apostolo: non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio! (6,9ss). Questo, però, è soltanto il primo passo che riguarda il convertirsi, dalla situazione in cui si era… perché, sempre, un poco, ci cova dentro e tenta di reinstallarsi! Ma in più c’è una condizione totalmente nuova: affidarsi al Vangelo! Cosa vuol dire?
Vivere “come se”… la libertà dell’amore!
C’è qui come una sollecitudine continuamente ribadita e ripresa nel contesto di Paolo, che provoca il cristiano discepolo di Gesù a spingersi sul crinale difficile dell’affidamento al Vangelo. Da una parte stanno le necessità storiche (psicologiche, affettive, economiche, culturali ) nelle quali il discepolo è immerso quando nasce alla fede (come anche dopo!): sposato o celibe, libero o schiavo, con famiglia pagana o magari ancora pauroso degli idoli… Queste situazioni sono affrontate con saggezza e apertura, alla luce del principio: …Dio vi ha chiamati alla pace (7,15). Ma d’altra parte Paolo non riesce a contenere la premura interiore di una fascinazione pressante. Come dire: puoi fare come vuoi, sei libero, ma se la passione del Signore ti preme dentro non riuscirai più a vivere come prima: d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente… Qualunque condizione di vita, dunque, uno abbia dovuto o voluto scegliere, la fede, se è una passione viva, gli ha creato dentro una specie di distanza interiore tra tutto ciò che fa e vive nel quotidiano, e… il Volto del Signore, che si è impossessato del suo cuore e del suo pensiero. Per cui il discepolo sempre meno è ciò che fa, ma è sempre più ciò che ama e desidera! Questo spazio di distacco, di attesa, di trascendimento di ciò che si fa, questa urgenza di sbilanciamento verso ciò che ancora non è, ha la figura dell’ascesi e gli somiglia per certi versi, ma è piuttosto una scelta di preferenza affettuosa, un’ascesi spinta dalla passione, non da un dovere morale o da una meta da raggiungere: è lo spazio della libertà! Ove nasce e cresce, appunto, la tensione di affidamento al Vangelo, e al volto che lo incarna, il Signore Gesù. Uno può anche ritirarsi in clausura, che questo crinale tra “dovere cristiano” e libertà di ulteriore donazione gli rispunta sempre dentro. È il passaggio dal “dovere” all’amore, dalla legge al dono “per far piacere a uno”! “Allora… ho capito che … ogni anima è libera di rispondere agli inviti di nostro Signore; fare poco o molto per lui: in una parola, di scegliere tra i sacrifici che egli chiede” (S Teresa di Lisieux, A 10v)
… e subito, lasciate le reti, lo seguirono
La sintesi di Marco condensa simbolicamente il travaglio di fermentazione personale, comunitaria, lavorativa, culturale… che questo passaggio comporta. La vocazione è possibile se si è aperto nell’animo, pur immerso nelle faccende quotidiane, questo spazio di disponibilità creativa., che si va liberando, appunto, per un processo interiore di distanziamento da ciò che si fa e che si è. Uno spazio di docibilità nuova che permette alla persona, quando sollecitata, di rispondere all’invito del Signore: “Venite dietro a me… e subito,lasciate le reti lo seguirono…”. La chiamata è un imperativo! Ma non è certamente un ordine giuridico o morale, perché risponde di sì gente malmessa moralmente, come i pubblicani o i peccatori, e non risponde affatto gente di grande moralità, come il giovane ricco o certi farisei onesti… Ma gli uni vivevano già la loro vita “come se”, sempre in ricerca, mai completamente soddisfatti di sé … Gli altri, anche loro cercano qualcosa, ma interiormente è tanto grande l’ingombro irrinunciabile del traguardo raggiunto… che non rischieranno mai di perderlo. Non c’è spazio per una passione ulteriore che li travolga! Non si innamorano mai, perché solo gli innamorati capiscono quanto sia relativo tutto ciò che si è e si vive, e dunque, cosa dunque voglia dire: “vivere tutto… come se”! convinti che “passa la figura di questo mondo!” e resta invece… il loro amore, che vi hanno vissuto dentro! Il cristiano non è rinunciatario rispetto alle sue responsabilità nel mondo e nella storia, perché l’amore al prossimo, centro del vangelo, lo spinge incessantemente a spendersi in questo mondo! Anzi, se mantiene lucidamente una invincibile riserva a immergersi “appieno” in questo mondo, è solo per non rischiare di deviare l’attenzione dal primato di interesse che ha ormai polarizzato la sua vita, l’amore annunciato dal vangelo, vissuto dal Signore e trasmesso a noi: amatevi come io vi ho amato!
Alzati! Va a Ninive, la grande città!
Ninive nella Bibbia è il concentrato della mondanità, simbolo di immoralità e perversione… Per un profeta ebreo è aberrazione andarci a predicare la conversione e la salvezza. E infatti Giona non vuole andarci e gli si amareggia il cuore quando vede che addirittura non solo qualche anima pia e giusta (come pregava Abramo), ma tutta la città si converte. Questa profezia è seminata sotto la crosta, nelle profondità dei destini del mondo, perché “ben più che Giona” c’è qui, ormai, a predicare al mondo la salvezza. Non però al modo di Giona, che, anche lui, aveva un po’ di ragione! Gli sembrava impossibile che, con un po’ di digiuno e di cenere, una storia di ingiustizie e nefandezze potesse essere cancellata… e gli innocenti dimenticati. Non sapeva che la salvezza non è in una cancellazione acritica del male, ma è nell’Agnello, che assume su di sé i peccati del mondo… e nei suoi discepoli, che imparano da lui a fare altrettanto e diventano sale e luce nel mondo. Non è un perdono a basso prezzo! Ma bisogna prendere distanza interiore anche dal male. Non si deve sprofondare nel particolare momento che si vive, neanche tragico, perdendo di vista gli orizzonti grandi che la Parola ha promesso. Non si deve sprofondare nell’angoscia neanche per i più nobili motivi, come il dolore innocente e il male assurdo! Il male è dentro Dio (S. Teresa s’Avila). Infatti lo sapeva anche l’autore del libro di Giona: e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece. Certo che è una metafora, ma non è la favola di un desiderio insensato! Davvero in Dio, rispetto alla nostra storia, c’è un prima e un dopo. Un tempo ove il male (anche se tutto l’esistente è in lui e per lui che esiste) sembra trionfare invincibile, ma dentro il male è seminato un bene che ne avrà ragione, perché Dio è schierato dal quella parte. Così, Gesù Cristo ha vinto il mondo! E ci ha insegnato a fare altrettanto.

Per vincere la paura bisogna lasciarsi coinvolgere in una relazione

In questa terza domenica del tempo ordinario, il testo del vangelo di Marco ci annuncia l’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Dopo il cosiddetto trittico sinottico infatti – costituito dagli episodi del battesimo di Giovanni Battista (Mc 1,2-8), del battesimo di Gesù (Mc 1,9-11) e delle tentazioni nel deserto (Mc 1,12-13) – Gesù torna nella regione in cui è cresciuto, la Galilea, e qui inizia a predicare e a chiamare i primi discepoli.
I versetti del vangelo in cui tutto questo è narrato, i versetti cioè dal 14 al 20 del primo capitolo di Marco (coincidenti con il testo proposto per questa domenica dalla liturgia), non devono stupire per la loro estrema essenzialità. Il loro scopo infatti non è tanto quello di narrare i primi episodi della vita pubblica di Gesù, quanto quello di fungere da prologo: la loro finalità è dunque quella di indicare la prospettiva generale in cui leggere tutta la storia di Gesù.
Anche solo ad una prima lettura del testo si può notare come questa prospettiva sembri essere incastonata soprattutto fra due grandi pilastri, due linee guida: per un verso, l’annuncio della venuta del Regno di Dio con la relativa conversione ad esso, e, per altro, il fatto che questo annuncio per Gesù implichi una prossimità solidale con l’uomo (chiama Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni).
Per quanto riguarda il primo aspetto, l’annuncio del Regno, è utile forse soffermarsi un momento per tentare di sviscerare che cosa si intenda con questa categoria teologica e soprattutto qual è la prospettiva in cui va letto l’invito alla conversione.
Molto semplicemente si può descrivere il senso dell’espressione “Regno di Dio” – dalla chiara eco veterotestamentaria (Israele è il Regno di Dio) – come il luogo il cui re è Dio, in cui Egli esercita la sua signoria. Delineare in che cosa essa consista, è l’impegno di Gesù in tutta la prima parte della sua vita pubblica: numerose sono infatti le cosiddette “parabole del Regno” nelle quali Egli tenta di far comprendere alle folle la connotazione di ciò che sta annunciando (Mc 4,1-9.26-29.30-32; Mt 13,24-30.31-33.44-46.47-50; 22,1-4; 25,1-13) e nelle quali emerge come questa realtà chiamata “Regno” sia qualcosa di gioioso (come quando un uomo trova un tesoro nel campo o un mercante una perla preziosa di valore inestimabile), addirittura risolutivo per il dramma dell’uomo (tanto che chi lo trova vende tutto quanto possiede per averlo) e proprio per questo una realtà “da non farsi scappare”: soprattutto perché esso ha la forma semplice del dono (come un seme che germoglia e cresce al di là del fatto che il contadino dorma o vegli), di un dono di un’abbondanza spropositata (come di un seme che dà il cento per uno o di un granello di senapa che pur essendo il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno, diventa la pianta più grande dell’orto)…
Se il Regno di Dio, per quanto ne dice Gesù, è questo, diventa allora curioso il fatto che a volte invece nel nostro immaginario il pensiero della signoria di Dio rimandi a cose di ben altro tipo: la paura di Dio, della sua potenza, del suo castigo, della sua imperscrutabilità… Ma come mai succede questo? E come mai, pur avendo sentito tante volte che non è così, di fronte al pensiero di Dio continuiamo a ricadere nell’immediata reazione delle ginocchia che tremano?
A maggior ragione la domanda sorge, se si osserva come, non solo nelle parole, ma anche nei gesti, l’annuncio di Gesù sia inequivocabile. I suoi miracoli, gli atti di quella potenza che tanto ci atterra, sono sempre e solo gesti di liberazione dal male, sono cioè sempre per l’uomo, mai contro l’uomo! Ed è interessante che essi siano chiamati anche “segni della venuta del Regno”: essi cioè mostrano come è il Regno, quali caratteristiche ha… chi è colui con cui il Regno coincide. Essi sono infatti modi di agire di Gesù. E come tutti i modi di agire – anche nostri – mostrano chi è colui che li compie, ci dicono qualcosa della sua identità (per es.: un punk si veste in un certo modo non per dimostrare a tutti di essere un punk; piuttosto, proprio perché è punk, si veste così! Il suo modo di vestirsi rivela chi lui sia, in cosa creda, cosa voglia, ecc...). È così anche per Gesù! Egli non fa i miracoli per dimostrare di essere Figlio di Dio, ma il fatto che faccia i miracoli, dice qualcosa della sua identità, di chi è, di ciò in cui crede, di ciò che desidera, ecc... del suo Regno... Non a caso quando (in Matteo 11,2-6) Giovanni Battista dal carcere manda i suoi discepoli a chiedergli: «Sei davvero tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?», Gesù non risponde con un trattato teologico, o una dichiarazione d’intenti, ma con la descrizione di ciò che accade dove passa lui: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo». Dove passa Dio cioè il deserto fiorisce; questo è il Regno che Gesù sta annunciando: occhi ciechi che ci vedono, gambe storte che si raddrizzano, pelli deturpate che si aggiustano, orecchie sorde che ci sentono, cadaveri che vivono, afflitti che ridono...
Perché allora – ci chiedevamo – se questo è il Regno che Gesù annuncia, cioè il mondo come Dio lo vuole (e lo vuole così!), a noi scatta comunque l’idea che però in verità poi ci sia dell’altro, ci sia una ritorsione, un volta faccia di Dio, che saprà certo essere tanto buono, ma anche tanto vendicativo (se serve…)? Certo non si può negare che secoli di predicazione distorta (non necessariamente nel senso di erronea, ma indubbiamente di riduttiva) hanno condizionato l’imprinting religioso che ci plasma nel momento che veniamo al mondo… Eppure resta che se si legge il vangelo non c’è niente di tutto questo…
Forse davvero non per caso Gesù accompagna allora il suo annuncio della venuta del Regno, che per lui è buona notizia (non ultimo avviso per il “si salvi chi può”!!!), con l’invito alla conversione, un altro termine che in noi subisce lo stesso penoso percorso descritto prima per la signoria di Dio.
La parola “conversione” infatti fa risuonare immediatamente, istintivamente, pre-riflessivamente in noi le corde del timore di essere nella situazione sbagliata (ovviamente nella condizione morale sbagliata), le corde del senso di colpa, le corde dell’angoscia dell’inferno…
Anche qui, forse un po’ vittime della cultura religiosa che ci ha formato e insieme della fatica di credere davvero ad una buona notizia
Fatto sta che Gesù intendeva altro. Niente di morale innanzitutto: la sua prospettiva non è mai su questo piano, anzi la sua libertà in proposito suscita scandalo (infrange la legge del sabato per guarire, si fa accarezzare da una prostituta, ecc…). Il livello al quale Lui fa sempre appello infatti è un altro: è quello della profondità dell’interiorità umana, di quel luogo dove si è soli di fronte a se stessi e – se si vuole farsi guardare da Lui – a Dio; è il luogo della decisività, della scelta se stare dalla parte della Vita o della Morte, dell’esser-ci o del disperdersi, del crederGli o no…
È a questo livello che Gesù chiede una conversione (letteralmente un invertire la marcia, un cambiare direzione): dunque non dai peccati alle buone azioni, dalla lussuria alla continenza, dalla gratificazione alla mortificazione; ma dalla morte alla vita, dalla paura alla fiducia, dalla paura della morte alla fiducia nella vita, dalla paura di un dio castigatore alla pacificazione di un Dio che porta il suo Regno di cura e premura per l’uomo, da una dispersione inconcludente e triste a una dedizione appassionata e fortificante…
Questa è la conversione a cui Gesù invita… Una conversione che invece noi spesso (personalmente, ma anche ecclesialmente) occultiamo, forse inconsapevolmente, perché ci vien subito da pensare che sarebbe e troppo bello e troppo difficile: troppo bello… per essere vero… perché credere che la (famosa) volontà di Dio sia solo regalarmi il Regno (così come lo intende Lui!) sarebbe liberante… ma se poi non fosse proprio così?!? Se alla fine invece voleva un tot di opere di misericordia, un tot di rosari e un tot di astinenza!?!
E troppo difficile… Perché convertirsi è qualcosa di molto più dirompente che “aggiustare qualcosa che non va”… è un cambiamento che non si può contenere nelle vecchie strutture (personali, mentali, sociali): le rompe. Le vecchie strutture infatti sono state create per servire un altro tipo di dio e per un’altra visione dell’uomo…
Ecco perché allora, personalmente ed ecclesialmente, tendiamo sempre a scansare una conversione in senso forte… ecco perché tendiamo ad annacquarla, a liofilizzarla, a semplificarla… perché ciò che ci guida è la paura (che è la non-fede, la non-fiducia, il non-dare-credito): paura di Dio, paura della morte, paura di sbagliare, paura del cambiamento…
Ma la paura genera mostri… come quel dio che temiamo, perché ci manderà all’inferno o peggio ci condannerà alla nientificazione (paura della morte), ci punirà per i nostri peccati (paura di sbagliare), ci castigherà perché non siamo stati fedeli alla tradizione (paura del cambiamento)…
Invece l’annuncio di Gesù, tutta la sua vita (e la sua morte), è il pronunciarsi di Dio (la rivelazione) sul fatto che Lui non è così! E in proposito è interessante notare come Dio non faccia questo annuncio dall’alto dei suoi cieli, ma facendosi uomo… Ancora una volta questo non va inteso come lo stratagemma migliore che Dio ha pensato per farci sapere qualcosa, per convincerci o per istruirci… Non è che Dio pensi alla strategia migliore (qualcosa di esterno a sé) per ottenere il risultato che vuole ottenere… La logica non è cioè che si incarna per dirci qualcosa, ma il fatto che si incarna dice qualcosa di Lui, anzi, più che qualcosa: dice di Lui, di chi Lui sia…
Ciò che ci deve convincere di fronte alla paura non è dunque una particolare parola che estrapoliamo da quelle dette da Gesù, o un suo particolare gesto che ci è tanto caro… Ciò che ci deve convincere è che quella sua vita terrena, quel suo faticoso e coraggioso determinare, scelta dopo scelta, che Dio essere e che Uomo essere… beh… quello è Dio! Non a caso la professione di fede cristiana è: Gesù è Signore. Quella libertà storica lì è Dio. È dunque quella vita che, risultandoci credibile, ci deve liberare dalla paura, da ogni paura! Perché solo chi non ha paura di morire, non ha neanche paura di vivere! E questo vale tanto per ciascun uomo, quanto per la Chiesa tutta!
E allora è molto significativo anche il fatto che quello che abbiamo chiamato il “prologo” del vangelo di Marco (Mc 1,2-20) si concluda con la chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni. Infatti, proprio perché è nella libertà storica di Gesù che l’uomo incontra Dio («Questi è Dio»), questa libertà, questa Sua vita, è qualcosa a cui bisogna prender parte, è qualcosa con cui immischiarsi, per cui giocarsi; è qualcosa con cui entrare in relazione, qualcosa da interrogare, qualcosa da cui farsi plasmare… è Qualcuno da amare… E questo è il cammino dei discepoli, i primi e quelli di sempre: non tanto imparare o applicare… ma lasciarsi coinvolgere in una relazione.

mercoledì 21 gennaio 2009

Obama in 2445 parole

Concittadini, oggi sono qui di fronte a voi con umiltà di fronte all’incarico, grato per la fiducia che avete accordato, memore dei sacrifici sostenuti dai nostri antenati. Ringrazio il presidente Bush per il suo servizio alla nostra nazione, come anche per la generosità e la cooperazione che ha dimostrato durante questa transizione.

Sono quarantaquattro gli americani che hanno giurato come presidenti. Le parole sono state pronunciate nel corso di maree montanti di prosperità e in acque tranquille di pace. Ancora, il giuramento è stato pronunciato sotto un cielo denso di nuvole e tempeste furiose. In questi momenti, l’America va avanti non semplicemente per il livello o per la visione di coloro che ricoprono l’alto ufficio, ma perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati, e alla verità dei nostri documenti fondanti. Così è stato. Così deve essere con questa generazione di americani.
Che siamo nel mezzo della crisi ora è ben compreso. La nostra nazione è in guerra, contro una rete di vasta portata di violenza e odio. La nostra economia è duramente indebolita, in conseguenza dell’avidità e dell’irresponsabilità di alcuni, ma anche del nostro fallimento collettivo nel compiere scelte dure e preparare la nazione a una nuova era. Case sono andate perdute; posti di lavoro tagliati, attività chiuse. La nostra sanità è troppo costosa, le nostre scuole trascurano troppi; e ogni giorno aggiunge un’ulteriore prova del fatto che i modi in cui usiamo l’energia rafforzano i nostri avversari e minacciano il nostro pianeta.
Questi sono indicatori di crisi, soggetto di dati e di statistiche. Meno misurabile ma non meno profondo è l’inaridire della fiducia nella nostra terra: la fastidiosa paura che il declino dell’America sia inevitabile, e che la prossima generazione debba ridurre le proprie mire. Oggi vi dico che le sfide che affrontiamo sono reali. Sono serie e sono molte. Non saranno vinte facilmente o in un breve lasso di tempo. Ma sappi questo, America: saranno vinte. In questo giorno, ci riuniamo perché abbiamo scelto la speranza sulla paura, l’unità degli scopi sul conflitto e la discordia. In questo giorno, veniamo per proclamare la fine delle futili lagnanze e delle false promesse, delle recriminazioni e dei dogmi logori, che per troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.
Rimaniamo una nazione giovane, ma, nelle parole della Scrittura, il tempo è venuto di mettere da parte le cose infantili. Il tempo è venuto di riaffermare il nostro spirito durevole; di scegliere la nostra storia migliore; di riportare a nuovo quel prezioso regalo, quella nobile idea, passata di generazione in generazione: la promessa mandata del cielo che tutti sono uguali, tutti sono liberi, e tutti meritano una possibilità per conseguire pienamente la loro felicità.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, capiamo che la grandezza non va mai data per scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie o di ribassi. Non è stato un sentiero per i deboli di cuore, per chi preferisce l’ozio al lavoro, o cerca solo i piaceri delle ricchezze e della celebrità. È stato invece il percorso di chi corre rischi, di chi agisce, di chi fabbrica: alcuni celebrato ma più spesso uomini e donne oscuri nelle loro fatiche, che ci hanno portato in cima a un percorso lungo e faticoso verso la prosperità e la libertà.
Per noi hanno messo in valigia le poche cose che possedevano e hanno traversato gli oceani alla ricerca di una nuova vita.
Per noi hanno faticato nelle fabbriche e hanno colonizzato il West; hanno tollerato il morso della frusta e arato il duro terreno.
Per noi hanno combattuto e sono morti in posti come Concord e Gettysburg, la Normandia e Khe Sahn.
Ancora e ancora questi uomini e queste donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato fino ad avere le mani in sangue, perché noi potessimo avere un futuro migliore. Vedevano l’America come più grande delle somme delle nostre ambizioni individuali, più grande di tutte le differenze di nascita o censo o partigianeria.
Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo il paese più prosperoso e più potente della Terra. I nostri operai non sono meno produttivi di quando la crisi è cominciata. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari della settimana scorsa o del mese scorso o dell’anno scorso. Le nostre capacità rimangono intatte. Ma il nostro tempo di stare fermi, di proteggere interessi meschini e rimandare le decisioni sgradevoli, quel tempo di sicuro è passato. A partire da oggi, dobbiamo tirarci su, rimetterci in piedi e ricominciare il lavoro di rifare l’America.
Perché ovunque guardiamo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede azioni coraggiose e rapide, e noi agiremo: non solo per creare nuovi lavori ma per gettare le fondamenta della crescita. Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche, le linee digitali per nutrire il nostro commercio e legarci assieme. Ridaremo alla scienza il posto che le spetta di diritto e piegheremo le meraviglie della tecnologia per migliorare le cure sanitarie e abbassarne i costi. Metteremo le briglie al sole e ai venti e alla terra per rifornire le nostre vetture e alimentare le nostre fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole e i college e le università per soddisfare le esigenze di una nuova era. Tutto questo possiamo farlo. E tutto questo faremo.
Ci sono alcuni che mettono in dubbio l’ampiezza delle nostre ambizioni, che suggeriscono che il nostro sistema non può tollerare troppi piani grandiosi. Hanno la memoria corta. Perché hanno dimenticato quanto questo paese ha già fatto: quanto uomini e donne libere possono ottenere quando l’immaginazione si unisce a uno scopo comune, la necessità al coraggio.
Quello che i cinici non riescono a capire è che il terreno si è mosso sotto i loro piedi, che i diverbi politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non hanno più corso. La domanda che ci poniamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona: se aiuta le famiglie a trovare lavori con stipendi decenti, cure che possono permettersi, una pensione dignitosa. Quando la risposta è sì, intendiamo andare avanti. Quando la risposta è no, i programmi saranno interrotti. E quelli di noi che gestiscono i dollari pubblici saranno chiamati a renderne conto: a spendere saggiamente, a riformare le cattive abitudini, e fare il loro lavoro alla luce del solo, perché solo allora potremo restaurare la fiducia vitale fra un popolo e il suo governo.
Né la domanda è se il mercato sia una forza per il bene o per il male. Il suo potere di generare ricchezza e aumentare la libertà non conosce paragoni, ma questa crisi ci ha ricordato che senza occhi vigili, il mercato può andare fuori controllo, e che un paese non può prosperare a lungo se favorisce solo i ricchi. Il successo della nostra economia non dipende solo dalle dimensioni del nostro prodotto interno lordo, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di ampliare le opportunità a ogni cuore volonteroso, non per beneficenza ma perché è la via più sicura verso il bene comune.
Per quel che riguarda la nostra difesa comune, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali. I Padri Fondatori, di fronte a pericoli che facciamo fatica a immaginare, prepararono un Carta che garantisse il rispetto della legge e i diritti dell’uomo, una Carta ampliata con il sangue versato da generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo e non vi rinunceremo in nome del bisogno. E a tutte le persone e i governi che oggi ci guardano, dalle capitali più grandi al piccolo villaggio in cui nacque mio padre, dico: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che cerca un futuro di pace e dignità, e che siamo pronti di nuovo a fare da guida.
Ricordate che le generazioni passate sconfissero il fascismo e il comunismo non solo con i carri armati e i missili, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Capirono che la nostra forza da sola non basta a proteggerci, né ci dà il diritto di fare come ci pare. Al contrario, seppero che il potere cresce quando se ne fa un uso prudente; che la nostra sicurezza promana dal fatto che la nostra causa giusta, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e della moderazione.
Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta da questi principi, possiamo affrontare quelle nuove minacce che richiedono sforzi ancora maggiori - e ancora maggior cooperazione e comprensione fra le nazioni. Inizieremo a lasciare responsabilmente l’Iraq al suo popolo, e a forgiare una pace pagata a caro prezzo in Afghanistan. Insieme ai vecchi amici e agli ex nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e allontanare lo spettro di un pianeta surriscaldato. Non chiederemo scusa per la nostra maniera di vivere, né esiteremo a difenderla, e a coloro che cercano di ottenere i loro scopi attraverso il terrore e il massacro di persone innocenti, diciamo che il nostro spirito è più forte e non potrà essere spezzato. Non riuscirete a sopravviverci, e vi sconfiggeremo.
Perché sappiamo che il nostro multiforme retaggio è una forza, non una debolezza: siamo un Paese di cristiani, musulmani, ebrei e indù - e di non credenti; scolpiti da ogni lingua e cultura, provenienti da ogni angolo della terra. E dal momento che abbiamo provato l’amaro calice della guerra civile e della segregazione razziale, per emergerne più forti e più uniti, non possiamo che credere che odi di lunga data un giorno scompariranno; che i confini delle tribù un giorno si dissolveranno; che mentre il mondo si va facendo più piccolo, la nostra comune umanità dovrà venire alla luce; e che l’America dovrà svolgere un suo ruolo nell’accogliere una nuova era di pace.
Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basato sull’interesse comune e sul reciproco rispetto. A quei dirigenti nel mondo che cercano di seminare la discordia, o di scaricare sull’Occidente la colpa dei mali delle loro società, diciamo: sappiate che il vostro popolo vi giudicherà in base a ciò che siete in grado di costruire, non di distruggere. A coloro che si aggrappano al potere grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso, diciamo: sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno.
Ai popoli dei Paesi poveri, diciamo di volerci impegnare insieme a voi per far rendere le vostre fattorie e far scorrere acque pulita; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quei Paesi che come noi hanno la fortuna di godere di una relativa abbondanza, diciamo che non possiamo più permetterci di essere indifferenti verso la sofferenza fuori dai nostri confini; né possiamo consumare le risorse del pianeta senza pensare alle conseguenze. Perché il mondo è cambiato, e noi dobbiamo cambiare insieme al mondo.
Volgendo lo sguardo alla strada che si snoda davanti a noi, ricordiamo con umile gratitudine quei coraggiosi americani che in questo stesso momento pattugliano deserti e montagne lontane. Oggi hanno qualcosa da dirci, così come il sussurro che ci arriva lungo gli anni dagli eroi caduti che riposano ad Arlington: rendiamo loro onore non solo perché sono custodi della nostra libertà, ma perché rappresentano lo spirito di servizio, la volontà di trovare un significato in qualcosa che li trascende. Eppure in questo momento - un momento che segnerà una generazione - è precisamente questo spirito che deve animarci tutti.
Perché, per quanto il governo debba e possa fare, in definitiva sono la fede e la determinazione del popolo americano su cui questo Paese si appoggia. È la bontà di chi accoglie uno straniero quando le dighe si spezzano, l’altruismo degli operai che preferiscono lavorare meno che vedere un amico perdere il lavoro, a guidarci nelle nostre ore più scure. È il coraggio del pompiere che affronta una scala piena di fumo, ma anche la prontezza di un genitore a curare un bambino, che in ultima analisi decidono il nostro destino.
Le nostre sfide possono essere nuove, gli strumenti con cui le affrontiamo possono essere nuovi, ma i valori da cui dipende il nostro successo - il lavoro duro e l’onestà, il coraggio e il fair play, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo - queste cose sono antiche. Queste cose sono vere. Sono state la quieta forza del progresso in tutta la nostra storia. Quello che serve è un ritorno a queste verità. Quello che ci è richiesto adesso è una nuova era di responsabilità - un riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo doveri verso noi stessi, verso la nazione e il mondo, doveri che non accettiamo a malincuore ma piuttosto afferriamo con gioia, saldi nella nozione che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, di più caratteristico della nostra anima, che dare tutto a un compito difficile.
Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.
Questa è la fonte della nostra fiducia: la nozione che Dio ci chiama a forgiarci un destino incerto. Questo il significato della nostra libertà e del nostro credo: il motivo per cui uomini e donne e bambine di ogni razza e ogni fede possono unirsi in celebrazione attraverso questo splendido viale, e per cui un uomo il cui padre sessant’anni fa avrebbe potuto non essere servito al ristorante oggi può starvi davanti a pronunciare un giuramento sacro.
E allora segniamo questo giorno col ricordo di chi siamo e quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno della nascita dell’America, nel più freddo dei mesi, un drappello di patrioti si affollava vicino a fuochi morenti sulle rive di un fiume gelato. La capitale era abbandonata. Il nemico avanzava, la neve era macchiata di sangue. E nel momento in cui la nostra rivoluzione più era in dubbio, il padre della nostra nazione ordinò che queste parole fossero lette al popolo: “Che si dica al mondo futuro... Che nel profondo dell’inverno, quando nulla tranne la speranza e il coraggio potevano sopravvivere... Che la città e il paese, allarmati di fronte a un comune pericolo, vennero avanti a incontrarlo”.
America. Di fronte ai nostri comuni pericoli, in questo inverno delle nostre fatiche, ricordiamoci queste parole senza tempo. Con speranza e coraggio, affrontiamo una volta ancora le correnti gelide, e sopportiamo le tempeste che verranno. Che i figli dei nostri figli possano dire che quando fummo messi alla prova non ci tirammo indietro né inciampammo; e con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio con noi, portammo avanti quel grande dono della libertà, e lo consegnammo intatto alle generazioni future.

Washington, 20 gennaio 2009

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