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giovedì 25 giugno 2009

Andres Serrano, di morte e d'arte


Ho rivisto poco tempo fa questa immagine di Andrès Serrano. Se non se ne conoscesse il titolo, verrebbe da dire che è una foto "tenera".



Il suo titolo, però, non lascia spazio ad interpretazioni: Fatal meningitis, meningite fatale. Lo scatto appartiene ad una serie esposta per la prima volta nel 2006 al PAC di Milano, intitolata The morgue (L'obitorio). Si tratta di una serie di fotografie che, come spesso accade con questo artista, sono impeccabili dal punto di vista formale, soddisfano anche tutti i canoni e le regole del buon fotografare, con una ricerca di effetti pittorici, pur ritraendo soggetti quantomeno duri da digerire. E' significativa, al proposito, questa dichiarazione dell'artista:

Credo che sia necessario cercare la bellezza anche nei luoghi meno convenzionali o nei candidati meno insospettabili. Se non incontro la bellezza non sono capace di scattare alcuna fotografia”.

Nel caso in questione, Serrano immortala - strano gioco di parole...- una serie di cadaveri, identificati dalla causa di morte (per i più curiosi, dalla pagina di wikipedia a lui dedicata si può accedere ad una galleria fotografica - le immagini sono decisamente crude).

Tra tutte, però, anche nella mostra milanese, spiccava questa opera. La delicatezza del volto seminascosto della bambina, il contrasto tra il lenzuolo candido e il fondo nero, la luce che accarezza i capelli e la fronte, ne fanno un'immagine, a mio parere, indimenticabile.

Poi, man mano che l'opera si sedimenta negli occhi e nella memoria, ecco emergere un po' di suggestioni; mi viene in mente la Cecilia di Manzoni, in cui ritrovo la stessa commistione di delicatezza e lutto: Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono piú forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.

Ma non solo, di fronte a una foto come questa, non si può che rimanere, ancora una volta, affascinati dalla potenza dell'arte, che riesce a rendere "bello", direi quasi meno drammatico, anche un evento tragico come la scomparsa di un bambino. Mi rendo conto che il cortocircuito delle citazioni - spesso rimproveratomi - deve essere fermato, ma non posso non ricordare alcuni bellissimi versi di Cantor de Oficio, un brano che ho conosciuto attraverso la voce di Mercedes Sosa, che mi sembra ben rappresentare la estrema forza che l'arte ha:

Mi oficio de cantor es el mas lindo
Yo puedo hacer jardin de los desiertos
Y puedo revivir algo ya muerto
Con solo entonar una cancion.

Mi oficio de cantor es tan hermoso
Que puedo hacer amar a los que odian
Y puedo abrir las flores en otoño
Con solo entonar una cancion.


(Il mio mestiere di cantante è il più affascinante
Io posso fare giardini dai deserti
E posso far rivivere qualcuno già morto
Col solo intonare il mio canto

Il mio mestiere di cantante è così bello
che posso far amare quelli che si odiano
e posso far aprire i fiori in autunno
col solo intonare il mio canto)


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