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giovedì 18 giugno 2009

Ma la Provvidenza esiste?

È interessante notare come le diverse situazioni esistenziali in cui nel corso della vita incontriamo i testi biblici, in particolare evangelici, facciano cambiare le nostre reazioni, le nostre sottolineature, le nostre domande di fronte ad essi…
In questa dodicesima domenica del tempo ordinario la Chiesa ci invita infatti a riflettere sulla nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, che dovrebbe pacificare ogni paura e preoccupazione: ma è diversissimo leggere questo brano in un momento in cui la storia ci ha ridato l’esperienza di una custodia, o leggerlo in una situazione di precarietà… Nel primo caso forse la reazione sarebbe quella di un affidamento entusiasta a questa parola, di un’iniezione di fiducia per il futuro… Nel secondo invece di un senso di promessa tradita (non sempre il vento cessa e il mare torna calmo) e dunque di rassegnata incredulità…
La Chiesa ha sempre fatto fatica a mettere a tema quest’aspetto così centrale della vita del credente: cioè, sciogliere la polarità tra fiducia nella cosiddetta Provvidenza e necessario rimboccarsi le maniche da parte dell’uomo (“Aiutati che il ciel t’aiuta” dice anche la saggezza popolare).


Ha fatto fatica anche perché nello stesso Vangelo pare emergere questa doppia linea parallela: citazioni come quelle di Mt 6,25-32 («Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno») e il loro parallelo in Lc 12,22-30 vanno chiaramente nella linea di un affidamento totale (quasi paradossale, perché mangiare, bere e vestirsi sono beni primari); mentre passi come Mt 5,25-26 («Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!») mettono in luce la necessità di un’operosità umana nella storia.
Il problema poi diventa radicale nel confronto con la vita: come affrontare le innumerevoli situazioni in cui ci veniamo a trovare? Come affrontare per esempio le fatiche, le sofferenze, le precarietà, le paure? Qualcuno si affida alla lettera alle parole di Gesù, mettendosi a pregare, chiedendo il “miracolo” come soluzione dei problemi (e non intendo tanto il “miracolo” nel senso di manifestazione del portentoso, ma come soluzione extra-umana dei problemi: dunque non solo una guarigione data per impossibile dai medici, ma anche il tentativo di incrementare le vocazioni pregando, dunque tentando di convincere Dio che questa sia la cosa giusta da fare, come se lui avesse bisogno dei nostri suggerimenti…); qualcuno addirittura con tutta la sua forza si dice testimone o oggetto di questo miracolo e invita, facendo pressioni morali, a credere nell’intervento provvidenziale di Dio; molti sono scettici rispetto a questa prospettiva, ma essa molto più di quanto sembra, non è affatto liquidata dalle nostre coscienze come un ingenuo infantilismo, ma insinua sempre nel nostro pregare, vivere, relazionarci un modo di pensare che in fin dei conti ci spera: “Ci penserà Dio”, si dice infatti quando non si sa più che fare… Eppure che questo modo di pensare sia infantile lo ribadisce in modo fin troppo cinico l’evidenza… ci sono schiere di madri che hanno pregato per la salvezza dei loro figli e non sono state esaudite… e questo fa crollare da sé l’impianto miracolistico di alcuni: non basta (anzi è di un’aberranza disumana) pensare che in quei casi il miracolo non è avvenuto perché queste donne han pregato male; o peggio che Dio ha ascoltato le loro preghiere, ma ha pensato meglio fare altrimenti. Che idea di Dio emerge da queste nostre considerazioni facilone? Per non parlare di quanti di fronte alla morte di un bambino, risolvono il dramma dicendo che c’è un angelo in più in paradiso, o che le anime belle Dio le vuole per sé… Ma queste sono bestemmie! Si sta dicendo di Dio che preferisce strappare un figlio alla madre per averlo per sé? Ma che Dio è? Io non ho un figlio, ma se dio mandasse all’inferno mia madre io seguirei lei, mica lui!
È altrettanto vero però, che bisogna stare attenti alla deriva opposta, quella di chi deluso o disilluso sull’intervento miracolistico di Dio, esclude tout court la sua azione intrastorica, gettandosi nel prassismo autoreferenziale del fare fare fare che tenta di mettere una pezza alle innumerevoli ferite della storia, credendosi per un attimo il salvatore del mondo… perché se Dio è di lassù, noi siamo quaggiù («I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo», Sal 115,16).
Interessante che siano entrambe derive cattolicissime (esempi dell’uno o dell’altro fronte si possono trovare abbastanza facilmente nelle nostre conventicole), l’una reazione e contro-reazione dell’altra. Infatti è proprio questo loro contrapporsi netto che ne denuncia l’inadeguatezza a pensare la vita, l’uomo, Dio, la loro relazione, perché è come se importassero l’una il difetto (comune) dell’altra. Sono le premesse di entrambe queste mentalità a essere deboli e dunque a rendere debole tutto il pensiero conseguente.
Ciò che infatti non è sufficientemente chiarito a monte è il significato della promessa fatta da Gesù riguardo alla custodia del Padre su ciascuno (quella che noi chiamiamo “Provvidenza”), dunque dell’identità stessa di Dio. Se ci pensiamo infatti noi al termine “Provvidenza” associamo subito l’idea di quella “potenza” che esaudisce le esigenze materiali di chi in lei crede: “Ci penserà la Provvidenza” a darci da magiare, a farci trovare una fontana d’acqua quando avremo sete; fino alle forme più banalizzanti per cui anche non avendo studiato: “Ci penserà la Provvidenza a farmi passare l’esame”, ecc…
Questa nostra associazione è però indebita: quando Gesù parla della custodia del Padre non ne parla mai in termini materialistici; quando dice di non preoccuparsi per il mangiare, il vestirsi, ecc… o quando – come nel vangelo di oggi – sgrida gli apostoli per la loro paura della tempesta, per la loro paura cioè di morire, dunque per la loro poca fede nella salvezza, non sta facendo di Dio o di se stesso una specie di macchinetta delle merendine per cui basta mettere la moneta (preghiera) che – tac – vien giù la schiacciatina (cioè l’esaudimento della richiesta). Dunque non è questa la fiducia che chiede: fiducia che se lo preghiamo viene assolta la richiesta. E non perché – come qualcuno tenta di dire per salvare dall’obiezione che di fatto non sempre le richieste sono esaudite – Dio è più grande, sa di più quindi se non ci esaudisce è perché sa che non è il nostro bene… Ma perché diversa è la qualità della relazione proposta, dunque della custodia.
Dio è Spirito, è amore, non agisce – diceva già Tommaso d’Aquino – sulle cause seconde. Non interviene a mischiare le carte in tavola, a deviare una freccia, a mettere un cromosoma in più in qualcuno, ecc…
È a un altro livello la sua interazione intrastorica: è al livello dello spirito. È nel cuore dell’uomo che avviene l’incontro: ecco perché l’invito a non temere per il cibo non vuol dire fregarsene delle proprie responsabilità, ma aderire univocamente al fatto che il volto di Dio è paterno, non malefico, non è un padrone. Il senso di quel testo è quello di far percepire come già dentro alla realtà (i gigli, gli uccelli) l’uomo possa intravedere il volto promettente di un Dio che è amore; e dunque sbilanciarsi nel dargli credito, nell’intraprendere con Lui una relazione che lo potrà portare alla Vita, cioè alla conformazione alla vita di Gesù, alla vita nell’amore, che è l’unica che dura in eterno, perché l’amore è l’unica cosa incorruttibile.
Allo stesso modo, il vangelo di questa domenica non sta lì ad indicare che Gesù preferiva continuare a dormire ed era un po’ scorbutico perché gli hanno interrotto il pisolino per una roba da niente, una tempesta che bastava avere un po’ di fede e – tac – era sedata… Piuttosto questo testo ha la pretesa di mettere in questione una domanda seria sull’interiorità dell’uomo: Siete persone che vivono determinate dalla paura della morte? Allora non solo non vivete (perché chi ha paura di morire ha anche paura di vivere), ma neanche potete dire di conoscere Dio, perlomeno il Dio di Gesù: Egli infatti – proprio per come ce l’ha raccontato Gesù – è colui nel quale la morte (e con essa il peccato, la limitatezza, l’inadeguatezza, ecc…) sono vinte. Per questo vivere non fa più paura e neanche morire: perché la nostra vita è in mano al Dio della Vita!
Il problema è allora a questo livello. Ecco perché le “soluzioni medie” non vanno bene: “credo nella Provvidenza, ma a scanso di equivoci ci penso un po’ anch’io”; “credo nella Provvidenza e se non interviene, sarà perché ho pregato male o perché ha pensato sia meglio così per me”; o viceversa: “va bene Dio, ma qui c’è da darsi da fare per il mondo, i poveri, ecc… lui è lassù noi siamo quaggiù…”. Non vanno bene perché, ancora una volta pensano l’uomo e Dio come slegati. Pretendono di parlare della relazione tra l’uomo e Dio (e dunque della pragmatica dell’uno e degli interventi dell’Altro) solo a posteriori, dopo aver definito a priori chi è l’uomo e chi è Dio.
In realtà la prospettiva evangelica è quella per cui non ci sono 2 piani separati, per cui quando serve una correzione nel piano naturale, il dito del soprannaturale tocca e risolve. Ma c’è un’unica realtà che è quella dell’uomo che non può essere senza Dio e contemporaneamente di Dio che non vuole essere senza l’uomo. Solo pensati originariamente in relazione le aporie in cui si incastrano i nostri discorsi sulla Provvidenza si risolvono. Se pensati originariamente in relazione infatti non ci potrà essere niente di quanto fa l’uomo in cui non ne va anche di Dio: e questo ridà piena responsabilità all’uomo, perché non c’è nessun intervento esterno che possa risolvere le cose; ma riafferma anche a gran voce l’intrastoricità dell’azione di Dio, che – proprio perché Spirito – permea ogni interstizio della drammatica umana.

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