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mercoledì 10 giugno 2009

Che senso ha dire Dio e corpo insieme?

È sempre un po’ difficile argomentare riguardo a certe “tematiche” che la Chiesa nelle sue annuali feste liturgiche ci propone. Il rischio è infatti quello o di dire sempre le stesse cose… o di trovare l’appiglio “ad effetto” per variare un po’ sul tema, senza però riuscire a cogliere in profondità il mistero celebrato.
In questa domenica per esempio l’invito che la festa del Corpus Domini implica, è quello di fermarsi a riflettere sul mistero dell’incarnazione, dell’istituzione dell’eucaristia, della presenza reale di Cristo nell’ostia consacrata (per stare solo alle tematiche immediate e tralasciare quelle correlate), che però – a ben vedere – sono praticamente tutto il mistero cristiano… E allora come fare, in poche righe a tracciare qualche commento su fronti così ampi? Come farlo, soprattutto, evitando i rischi classici della predicazione sopra delineati: usare tante parole e tanti “effetti speciali” per nascondere il niente che si sta dicendo e per velare la fatica dell’oratore di cogliere davvero ciò che è implicato in quanto si celebra; chiudersi in un più onesto, ma non meno infruttuoso silenzio apofatico?
Perché è così difficile? Perché in particolare alcune tematiche lo sono così tanto?
Perché rimandano a problematiche vaste, apparentemente complicate, in qualche modo da riservare agli esperti, sostanzialmente lontane dalla vita: Cosa vuol dire per esempio celebrare la festa del Corpus Domini? Del corpo e sangue del Signore? Cosa implica credere in questa realtà?


Finché si tratta di dire che Gesù nella sua vita terrena aveva un corpo, fatto di carne ed ossa, tutto fila via liscio: qualsiasi cristiano lo ammetterebbe senza fare una piega; così come il dire che nell’ultima cena Egli abbia offerto il suo corpo e il suo sangue, che noi riceviamo ancora oggi a messa. Ma quando si incomincia a dire che Gesù non era un semplice inviato di Dio (come ce ne furono tanti nell’AT), non era un uomo che Dio ha scelto per svolgere una missione, non era neanche un corpo umano che Dio ha animato e condotto come una marionetta per assolvere ad un compito, ma era lui stesso Dio… le cose si fanno complicate. La domanda diventa infatti: Che senso ha parlare di corporeità per Dio?
I più di fronte a quello che appare un complesso problema intellettuale e cervellotico, si stufano, si perdono e lasciano perdere… Anche perché – come già detto – lo avvertono come qualcosa di assolutamente staccato dalla loro quotidianità: di fatto superfluo e dunque inutile rispetto al loro vivere. Ci si accontenta di dire: il parroco da piccolo mi ha insegnato che c’è Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Figlio è sceso sulla terra, si è fatto uomo: quindi era Dio e uomo; è morto per noi e prima di morire ha istituito l’eucaristia donandoci pane e vino, che sono suo corpo e suo sangue. Cosa questo voglia dire, implichi o come avvenga, son problemi del parroco: a me basta andare a messa, dire le preghiere e fare l’offerta, che il problema religioso è risolto. Il resto della vita è un altro conto…
Qualcuno invece – più ardito – insiste molto su questo versante cristiano della “corporeità” di Dio, suggellata dal fatto che il gesto più importante che Gesù ci abbia lasciato ha in sé i segni poveri del pane e del vino, suo corpo e suo sangue. Insistono molto perché individuano in questa logica corporea, una dinamica importantissima per l’individuazione dell’identità umana: la fine cioè di tutto il disprezzo (ereditato dalla filosofia greca) di ciò che è carnale e di tutta l’esaltazione spiritualistica – e disincarnata – che per secoli ha mortificato l’umano, a favore di un’impostazione più unitaria – non più dualistica – su chi l’uomo sia; con tutte le conseguenze sul piano ecclesiale, culturale, sociale che questo nuovo modello antropologico promuove (per esempio l’uguale importanza delle vocazioni, la pari dignità dei membri della Chiesa, la rivalutazione della corporeità, la libertà da certi moralismi, ecc…).
Altri invece, proprio per queste stesse conseguenze ecclesiali, sociali, culturali, si distanziano un po’ da questa insistenza sulla corporeità in Dio, spaventati da una riduzione troppo umana/umanizzata del mistero divino.
In questa situazione sembra proprio che, allora, centrale diventi rispondere alla domanda posta prima: Che senso ha parlare di corporeità per Dio? Infatti solo indagando questa questione, si potrà risvegliare dal torpore il gran numero di persone che avvertono questi discorsi come lontani dalla loro vita, si potrà cioè rendere ragione della loro centralità, non semplicemente ribadendola (come spesso avviene nella predicazione) senza motivarla, ma investigando “il succo del discorso”; e solo in questo modo inoltre si potrà prendere posizione tra l’eterno doppio fronte intra-ecclesiale, diviso tra chi vorrebbe sempre una sottolineatura forte della corporeità e chi invece preferisce trascurarla un po’; solo così infine si potrà prendere posizione non tanto come tifosi di un partito e dunque appassionati, ma determinati solo dal campanilismo, quanto piuttosto sulla base di una capacità di rendere ragione delle proprie posizioni…
Addentrandoci dunque nella complessità di questa problematica, mettiamo subito in luce cosa c’è in gioco: Perché fa così problema pensare insieme Dio e corpo?
Perché tutta la storia della religiosità umana, fin dentro al testo biblico ha pensato Dio come incorporeo, nel senso di illimitato e illimitabile, infinito e invulnerabile, che sono tutte caratteristiche che necessitano una non corporeità: chi ha un corpo ha dei confini e soprattutto è feribile. Scrive Elaine Scarry [in La sofferenza del corpo, il Mulino, Bologna 1990 (1985), 348-49.353-54.360-61]: «In tutto l’Antico Testamento, il potere e l’autorità di Dio sono una conseguenza, estrema e continuamente ribadita, del fatto che gli uomini hanno un corpo ed Egli ne è privo. È questo fatto che, prima di tutto, viene trasformato nella revisione cristiana, poiché, nonostante la differenza tra uomo e Dio continui ad essere immensa come lo era stata nelle Scritture ebraiche, il fondamento di tale differenza non è più costituito dal fatto che uno abbia un corpo e l’Altro no. La trasformazione non riguarda tanto l’oggetto della fede quanto la struttura stessa della fede, la natura dell’immaginazione religiosa. […] Tale modificazione insiste sul fatto che l’onnipotenza, come anche più modeste forme di potere, deve essere connessa alla sensibilità corporea. Non è che il concetto di potere venga eliminato, né tanto meno scompare l’idea della sofferenza: è la precedente relazione tra loro che viene meno. Essi non sono più manifestazioni l’uno dell’altra: il dolore di una persona non è il segno del potere di un’altra. La dimensione della vulnerabilità umana non corrisponde più alla dimensione dell’invulnerabilità divina. Essi sono ora slegati e possono pertanto aver luogo congiuntamente: Dio è sia onnipotente sia soggetto al dolore. […] Connettere sensibilità e autorità, attribuire autorità alla sensibilità, significa collocare il dolore e il potere dalla stessa parte. […] Una delle caratteristiche peculiari del dolore è che il suo opposto, il potere, può trovarsi in un luogo differente; tuttavia, è possibile avvertirne la presenza o l’assenza, l’aumento o la diminuzione, in relazione all’aumentare o al diminuire del dolore. Di solito, la variazione di una coppia di contrari non è parallela ma inversa; l’aumento dell’umido corrisponde a una diminuzione del secco; muovendoci verso est ci allontaniamo da ovest; l’aumento della luce fa diminuire le tenebre. Tuttavia, il fenomeno del dolore ha frequentemente luogo in situazioni in cui il suo accrescimento è accompagnato da un accrescimento di un potere che si accumula altrove. La nuova relazione che si instaura nel Vangelo tra il corpo del credente e l’oggetto della fede sovverte questa relazione di esclusione tra dolore e potere, poiché colloca nello stesso luogo sensibilità e autorità, che non si possono pertanto più avere una alle spese dell’altra. Il conferimento dell’autorità dello spirito alla sensibilità ha come conseguenza anche la dissoluzione del confine tra corpo e voce e permette quindi il passaggio dall’uno all’altra. Nell’Antico Testamento, il corpo appartiene solo all’uomo, e la voce, nella sua forma estrema e priva di attributi, appartiene solo a Dio. Con la croce, ciascuno mantiene la propria collocazione originaria, ma nel contempo fa la sua comparsa nella sfera da cui era stato precedentemente escluso».
Ecco dunque l’implicazione del parlare insieme di Dio e di corpo – possibile solo in Gesù – e cioè lo scardinamento di un’atavica immaginazione religiosa implicante la separabilità di principio di alcuni ambiti: il cielo/la terra; il potere/il patire; il corpo/lo spirito; Dio/l’uomo; il soprannaturale/il naturale; la grazia/la libertà; ecc… In Gesù è cioè richiesta una conversione dell’idea di Dio, dell’idea dell’uomo e della ragione che si usa per pensarli che è talmente scaravoltante i luoghi comuni, le convinzioni sedimentate in secoli di storia, le precomprensioni che succhiamo dal seno di nostra madre, che nemmeno due millenni di cristianesimo sono ancora riusciti a digerire.
La lunga citazione riportata mostra qualche sprazzo, indica qualche possibile percorso rispetto a cosa voglia dire questo prendere sul serio l’inedito Dio cristiano che pur restando Dio non può più essere detto – in Gesù – senza corpo; che pur restando onnipotente, non può più essere detto – in Gesù – invulnerabile; che pur restando infinito, in Gesù può essere detto realmente presente in un pezzo di pane e in un goccio di vino. Ma soprattutto che pur restando Dio, non può più essere detto – in Gesù – a prescindere dall’uomo e a priori rispetto alla sua storia con lui, tanto che «L’accesso al senso specifico per la trascendenza divina coincide con il riconoscimento per la propria singolarità (questa è la fede: accogliersi come quell’uomo), giacché la trascendenza divina si rivela dando luogo alla unicità individuale. L’accesso a Dio coincide con l’accesso a io. I due poli sono inseparabili anche se sono né assimilabili, né omologabili» [S. UBBIALI, Il sacramento cristiano, p. 128].
Ma assumere questa prospettiva vuol dire rivedere molti dei nostri schematismi religiosi (individuali ed ecclesiali). Per fare solo un esempio significativo, assumere questa prospettiva vorrebbe dire smettere di pensare il rapporto dell’uomo con Dio come un tentativo di superamento od estraniazione dalla storia, dalla realtà, dalla corporeità, come se queste dimensioni andassero superate, come se da esse bisognasse elevarsi… ma piuttosto pensare il rapporto con Dio come inestricabile dalle nostre dinamiche antropologiche, ammettendo quindi che per l’accesso al sacro ciascuno è di per sé – proprio e solo in quanto umano – già abilitato: accettando a vantaggio della libertà dell’uomo, il rischio del relativismo.

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