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venerdì 26 settembre 2008

La fede è imparare a dire di sì… al Regno di Dio!

La parabola
Che ve ne pare? Nel contesto nel quale si trova la parabola, nel vangelo di Matteo, gli uditori invitati a dire la propria opinione sono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo (Mt 21, 23). I quali, poco prima, per paura della loro gente, si sono rifiutati di rispondere alla domanda sull'origine di Giovanni Battista: se veniva dal cielo o dalla terra (21, 24-27), perché li metteva con le spalle al muro. E avrebbero dovuto o convertirsi o mettersi apertamente contro il popolo, che invece credeva a Giovanni. In questa minuscola parabola, Gesù ricorre all’esperienza così comune nella vita famigliare, dove ogni bimbo o adolescente passa attraverso tanti “no”, prima di imparare a dire “sì” alle proposte educative dei genitori! Ma qui si tratta della proposta definitiva di salvezza che Giovanni veniva a preannunciare al popolo eletto. Gesù stesso applica direttamente la parabola al silenzio imbarazzato delle guide e dei capi del popolo. Proprio coloro, dunque, che sono l’esempio dell’assenso religioso ufficiale a Dio e sono impegnati a lavorare (… insegnare e comandare) nella vigna del Signore, di fatto dicono di no, quando Giovanni propone loro, a nome di Dio, la conversione dai loro privilegi fallaci alla vera umiltà del cuore. Allora la loro adesione formale a Dio, rinnegata nella vita concreta, diventa la sentenza della loro stessa condanna. E così risalta la posizione contraria dei pubblicani e delle prostitute, che con la loro vita avevano detto tanti ‘no’ al Padre, ma, di fatto, commossi dal messaggio di Giovanni Battista, che hanno accolto come mandato da Dio, avevano finito per accogliere la sua volontà. Per cui il commento duro e amaro di Gesù ai sommi sacerdoti e agli anziani: In verità vi dico che pubblicani e prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio!
A cominciare dalla stessa comunità di Matteo questa provocazione di Gesù diventa la chiave per leggere l’atteggiamento del cristiano di fronte alla nuova definitiva manifestazione del Regno del Padre, che è Gesù stesso, dentro la storia della chiesa, nei millenni…
Un’immensa turba di peccatori e prostitute… ci precede!
Chi tentasse di applicare questa parabola nella chiesa di oggi, provocherebbe, probabilmente, la stessa reazione di fastidio e di repulsione che Gesù provocò con la sua conclusione. Qualcuno si è messo, negli ultimi anni del lungo pontificato di Papa Giovanni Paolo II, ad elencare le domande di perdono (più di cento volte) a tante categorie di persone o personaggi singoli della storia ai quali a nome della chiesa egli si è rivolto (con velato dispetto di tanti) riconoscendo umilmente il peccato storico di averli dimenticati o abbandonati o perseguitati o condannati a morte… (ACCATTOLLI L., Quando il Papa chiede perdono. Tutti i mea culpa di Giovanni Paolo II, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1997). Eretici e scismatici o credenti di altre fedi e religioni, schiavi e servi della gleba, prostitute e peccatori pubblici, ‘perfidi’giudei, poveri e ignoranti, laici e laiche, operai, indios e negri, carcerati , omosessuali, aidetici, ubriachi, drogati, divorziati, sacerdoti sposati o infedeli, atei, ragazze madri… cioè tutti coloro che sono emarginati dal consesso religioso e civile, per la loro incapacità o rifiuto a portare sulle spalle pesi superiori alle loro forze o doveri che sovrastavano le loro risorse… morali o psicologiche. Tutti costoro, rispetto a noi che viviamo da buoni cristiani e cittadini per bene, tante volte, hanno affinato un intuito istintivo più attento a percepire il cammino della giustizia. Hanno imparato dalle loro sofferenze un fiuto infallibile per distinguere chi cerca davvero il loro bene e chi li vuole solo ingabbiare nel perbenismo morale di facciata.
Dire di sì e fare no: la schizofrenia cronica del cristiano
Sono sempre i più vicini a Dio, i più osservanti, i più capaci di dedizione alle forme esplicite di culto e di riti per onorare Dio, a rischiare di più questa malattia, che se non uccide la fede, paralizza ogni possibilità di lasciarsi guidare dallo Spirito nei sentieri della storia. Perché costoro hanno già tutto chiaro e deciso… dove non andare. Spesso non si tratta, infatti, delle ipocrisie farisaiche a livello di strumentalizzazione cosciente e lucida della religione per il potere, come molti scribi, farisei e capi del popolo nel tempo di Gesù… ma si tratta della gente buona e pia, che ha creduto in lui, vive attorno a lui ( come oggi attorno agli altari e alle chiese), che è convinta e orgogliosa di dire di sì, ma poi si trova a fare il contrario! In questa madornale trappola religiosa sono caduti perfino i suoi discepoli e, in prima fila, Pietro e gli apostoli, che proclamano fedeltà fino alla morte, ma poi lo abbandonano… Le parole di Gesù sono sferzanti e laceranti, ma l’esperienza amara della “presunzione religiosa e morale”, che nasconde il vuoto di interiorità e di appartenenza vera, si impone come un passo inevitabile per maturare un rapporto con lui di fede vera e umile. Senza umiliazioni non c’è umiltà possibile, che scavi davvero dentro l’abisso che abita in noi, del quale tanto meno ci si accorge quanto più si è gonfi spiritualmente … come ci insegnano (inutilmente) i mistici. La tristezza del giovane ricco, come ogni tristezza spirituale, ha le sue radici nella consapevolezza di esser chiamati a dire di sì e nel trovarsi però invischiati nell’incapacità di donarsi, consumando la propria vita in taciti rifiuti al Signore e al suo vangelo, senza nemmeno il coraggio di dirgli esplicitamente di no. Il dramma di Paolo è quello di ogni uomo: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto (Rom 7,15). Ci morde dentro il desiderio di essere finalmente ciò che invece continuamente nella nostra storia quotidiana ci troviamo a smentire…
Dire no e poi fare sì: il faticoso (e gioioso) percorso della spogliazione evangelica!
E allora è il colmo per noi, cosiddetti credenti impegnati e osservanti ! ci tocca imparare, secondo il detto di Gesù, da chi, del tutto inconsapevolmente, ci sta “avanti” nel cammino del Regno dei cieli… Affiancarci a chi attorno a noi, appartiene ai nuovi elenchi di quelli che nell’opinione civile ed ecclesiastica corrente sono, con la loro vita, dalla parte sbagliata. Capita infatti che costoro “ci precedono”, perché sono più disponibili al vangelo, di noi che, analogamente agli antichi Ebrei, abbiamo l’appartenenza ecclesiale, i sacramenti, il culto, le devozioni e la giusta formazione morale … Cosa vede in loro il Signore, per citarli ad esempio e modello? Forse perché hanno sofferto a dire di no con tutta la disperazione della loro miseria, ma nel loro cuore desiderano dire di sì alla dignità umana che piange in loro se solo qualcuno li avesse aiutati nel cammino?… Il più impensabile modello di questa attenzione alla disperazione del povero, che ci può convertire, è Gesù stesso, che ha fatto anche lui il faticoso passaggio dal dire di no (un no durissimo: Mt 15,22ss) ad una di queste povere di Dio, per scoprire poi che la sua “presunzione razziale e religiosa”, ereditata dalla cultura corrente, lo chiudeva alla compassione… fino a concludere che la sirofenicia (impura e pagana) “lo precedeva” nella comprensione dei disegni del Padre: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri”. Una donna, di religione e razza sbagliata, un cane infedele per i giudei osservanti, gli insegna a dire di sì a un disegno più grande di lui… a riscoprire anche per sé il monito antico di Dio attraverso il profeta: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?
Dire sì … e “fare” davvero così! La fede che si affida…
… anche il figlio dell’uomo, dunque, inevitabilmente assorbito e plasmato dalla situazione culturale storica, piccola e limitata, nella quale si è incarnato, ha imparato a trasformare i suoi “no”, in “sì” agli orizzonti sterminati e insondabili del Regno (il cuore del Padre). Perché anzitutto l’istinto di dire no non è una condizione morale, ma antropologica. Ogni uomo può crescere solo così e lo impara vivendo. I maestri di questo “rinnegamento” di sé e apertura alle pressioni sgarbate e dure della storia sono stati anche per lui… i poveri: Maria, sua Madre, il padre carpentiere, la scuola di paese, i miserabili per le strade che segnavano dolorosamente l’inadeguatezza della società religiosa e dei suoi capi… Perché poi scoprirà l’esperienza lacerante, per ogni adolescente, di vedere che i propri maestri ufficiali nella sinagoga e nel tempio, investiti d’autorità, che pure insegnano cose importanti per la vita, dicono … e non fanno! Infine anche lui vedrà crescere con sofferenza attorno a sé i discepoli, che preparava a guidare la sua chiesa, anche loro duri e tardi di cuore, più attenti alla corsa per il primato tra di loro, che all’insegnamento e all’esempio del maestro, che “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì” secondo la sintesi mirabile dell’avventura umana della Parola, che i primi cristiani nell’inno riportato in Fil 2,6, dove la verità tragica della condizione umana del Figlio di Dio è assunta in assoluta radicalità, togliendosi di dosso, anzi di dentro, ogni prerogativa o privilegio “divino”, per dire “sì” alla solidarietà totale con gli uomini.

Fallire o centrare la propria destinazione umana

La parabola che costituisce il vangelo di questa ventiseiesima domenica del tempo ordinario, per essere ben compresa, va collocata nel contesto in cui Matteo la inserisce. Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di una sua interpretazione riduttiva: qui infatti il senso non è tanto quello di un generico appello alla pronta osservanza della volontà di Dio, o una sottolineatura del primato dell’azione sulla parola, per cui elogiato sarebbe il primo figlio che, nonostante all’invito del padre («Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna») in prima battuta, avesse detto «Non ne ho voglia, poi si pentì e vi andò»; il senso piuttosto va cercato altrove: in particolare tentando di delineare chi è rappresentato in questi due figli.
Per non rischiare di fare identificazioni campate per aria, fondamentale è riferirsi al contesto prossimo di questo brano: il capitolo 21 di Matteo (quello di questo brano) inizia narrando l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme; dopo l’accoglienza osannante della folla, che lo dichiara profeta, Gesù si dirige subito verso il tempio dove scaccia tutti i venditori e i cambiavalute; qui ha un primo confronto duro con i sommi sacerdoti e gli scribi, che si sdegnano nel sentirlo chiamare figlio di Davide dai bambini, confronto che si riaccende la mattina seguente quando «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo gli dissero: “Con quale autorità fai questo?”»; Gesù allora contro-risponde con la domanda riguardo al Battista «Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?», domanda a cui i capi religiosi ebrei non rispondono per timore della folla; Gesù conclude allora «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo».
È chiaro che il tono è ormai quello del battibecco, di chi non spera più di usare le parole per farsi comprendere, ma semplicemente le affila per mettere in difficoltà l’altro. E infatti è proprio a questo punto che Gesù, rendendosi conto dell’andamento che ha preso il discorso, cambia registro e tenta di coinvolgere i suoi interlocutori (sommi sacerdoti, scribi e anziani del popolo) con una parabola (le parole «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli...» seguono infatti immediatamente le ultime citate: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio questo»).
L’intento di Gesù è infatti quello di portare i suoi interlocutori a sbilanciarsi in un parere, in modo da stanarli dai loro apparati concettuali preconfezionati e poter così far breccia nella loro logica di pensiero: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?».
Quando essi «risposero: “Il primo”», la trappola è ormai scattata e a Gesù il gioco riesce facile; ribalta infatti contro di essi il giudizio da loro stessi formulato: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto».
Incredibilmente, il primo figlio viene così a rappresentare i pubblicani e le prostitute, cioè il così vasto gruppo di uomini e donne per antonomasia lontani dalla religione, (e dunque – direbbero i sommi sacerdoti) da Dio; il secondo invece, la minuta schiera di intransigenti uomini religiosi, che tutto il vangelo dipinge come sepolcri imbiancati, ipocriti, osservanti delle regole e dimentichi dell’uomo (Patch Adams direbbe «ghiaccioli dal cuore in giù»)!
L’identificazione, anche a questo punto (dopo cioè la fatica dell’analisi del contesto prossimo), risulta però in prima battuta paradossale: delinquenti e prostitute passerebbero davanti, nel regno di Dio, ai pii e devoti uomini religiosi? Ma schiere di nonne e catechiste non ci avevano forse insegnato il contrario!?!
Bisogna che andiamo più a fondo!
Cos’è infatti che fa dire a Gesù una frase tanto forte («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»)? Che cosa ha visto, nella sua vita di uomo, nei volti e nelle storie di questi personaggi che abitualmente i benpensanti condannano? E che cosa non ha trovato invece in quelli che rappresentavano, per la mentalità comune (di allora e di oggi), il mondo della sacralità, dell’osservanza, della inappuntabilità?
Stando alla narrazione dell’intero vangelo ha trovato in questi ultimi la durezza di cuore (di loro dice infatti: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20; oppure rivolgendosi direttamente ad essi: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato individui senza colpa», Mt 12,7; inoltre vengono tratteggiati come pedanti osservatori delle regole, ma dimentichi dell’uomo, tanto che visto Gesù guarire un uomo in giorno di sabato «usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo», Mt 12,14; o addirittura, vedendo Gesù risanare un indemoniato, «presero a dire: “Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni», Mt 12,24; sono sempre i farisei insieme agli scribi poi che «vennero da Gesù e gli dissero: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli rispose loro: […] avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia dicendo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”», Mt 15,1-9; di essi dice infine: «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi», Mt 15,14); mentre nei primi (pubblicani e prostitute) trova invece sempre una disponibilità a farsi incontrare, quasi un anelito della loro interiorità che sa accogliere da lui una parola nuova (per fare solo due esempi tra i tanti: Zaccheo – Lc 18,1-10 – e la peccatrice perdonata – Lc 7,36-50). Sono proprio questi ultimi infatti che, forse perché privi di un apparato concettuale che gli fa da maschera, ma anzi denudati e svergognati davanti a tutti, hanno la possibilità/capacità di porsi di fronte a Gesù in trasparenza e verità, al di là delle condizioni che vivono. È il come si dispongono di fronte a Gesù che fa la differenza...
È quello che mostra chiaramente anche un’altra donna (anch’essa di dubbia moralità, stando ai nostri criteri), che pure, al di là delle condizioni in cui viveva (il campo di smistamento di Westerbork), ha fatto la medesima esperienza di incontro veritativo e liberante col Signore: “Mio Dio, viviamo tempi di terrore. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, con gli occhi brucianti, e immagini di sofferenza umana si snodavano davanti a me, senza sosta. Ti voglio promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: […] Ti aiuterò, mio Dio, a non spegnerti dentro di me, ma non posso garantirti niente in anticipo. [...] È tutto quello che ci è possibile salvare in quest'epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio. Forse potremo anche contribuire a riportarti alla luce nei cuori devastati degli altri. Dietro la casa, la pioggia e la grandine dei giorni scorsi hanno devastato il gelsomino. Più in basso i suoi fiori bianchi galleggiano sparpagliati nelle pozzanghere nere, che ristagnano sul tetto del garage. Ma da qualche parte, dentro di me, questo gelsomino continua a fiorire, esuberante e tenero come in passato. Ed espande i suoi effluvi intorno alla tua dimora, mio Dio. Vedi come mi prendo cura di te! Non ti offro solo le mie lacrime e i miei tristi presentimenti. In questa domenica ventosa e grigiastra, ti porto anche un gelsomino profumato!”.
È questo “miracolino” di esser-ci in verità di fronte a Dio e a se stessi (qualsiasi cosa accada) che segna la differenza tra i due figli della parabola, tra la maschera della religione e il porsi in trasparenza, tra gli uomini del potere religioso e i pubblicani e le prostitute...
Non è un codice etico dunque quello che fa la differenza, una moralità inappuntabile, un’osservanza stretta... Tutto questo al massimo può essere un aiuto per favorire l’incontro col Signore (in verità il vangelo dice che è un ostacolo, ma concediamolo pure...), ma non è mai il discrimine per dire la riuscita o il fallimento di una vita, la qualità dell’interiorità di una persona, la consistenza umana che ha in sé! Ecco perché la bestemmia di un povero può essere una preghiera ben più apprezzata da Dio del vuoto devozionalismo di un uomo dalla maschera religiosa.
È quello che mette in luce anche la prima lettura, dal profeta Ezechiele: è l’uomo il responsabile di se stesso, non c’è nient’altro che può sostituirsi a lui nella verità di sé (né un consolante apparato religioso, né i soldi di una vita; nemmeno la persona che ci ama di più); niente e nessuno può vivere al nostro posto l’avventura del porsi in trasparenza di fronte a sé e di fronte a Dio («Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso»).
È qui che fallisco o centro la mia destinazione umana: se mi smaschero da ogni rassicurante rifugio, che mi impedisce l’accesso in verità a me... perché è solo lì, nel mettermi di fronte a me in verità, che altrettanto in verità posso incontrare «gli stessi sentimenti di Cristo», gli unici che salvano dal non senso della vita… perché dicono all’uomo che egli non si riduce mai a quel che fa o a quel che ha… ma all’amore (ricevuto e ridonato) che fa circolare nella sua vita.

lunedì 22 settembre 2008

dal "politically correct" al "religiously correct"?

Bella, come sempre, l'omelia del Papa di domenica 21 settembre in cui durante la celebrazione eucaristica a san Pancrazio ad Albano ne ha dedicato il nuovo altare... L'OR l'ha pubblicata il 22 con questo titolo: "Ogni atto di culto è inutile senza perdono e riconciliazione " titolo che ne rispetta fondamentalmente il contenuto che potete trovare integralmente qui.
Sotto riporto solamente la parte "biblica" così che cliccando sui riferimenti biblici possiate leggerne i testi integralmente...

"L’odierna Celebrazione è quanto mai ricca di simboli e la Parola di Dio che è stata proclamata ci aiuta a comprendere il significato e il valore di quanto stiamo compiendo. Nella prima lettura abbiamo ascoltato il racconto della purificazione del Tempio e della dedicazione del nuovo altare degli olocausti ad opera di Giuda Maccabeo nel 164 a.C., tre anni dopo che il Tempio era stato profanato da Antioco Epifane (cfr (1 Mac 4,52-59). A ricordo di quell’avvenimento, venne istituita la festa della Dedicazione, che durava otto giorni. Tale festa, legata inizialmente al Tempio dove il popolo si recava in processione per offrire sacrifici, era anche allietata dall’illuminazione delle case ed è sopravvissuta, sotto questa forma, dopo la distruzione di Gerusalemme.
L’Autore sacro sottolinea giustamente la gioia e la letizia che caratterizzarono quell’avvenimento. Ma quanto più grande, cari fratelli e sorelle, deve essere la nostra gioia sapendo che sull’altare, che ci accingiamo a consacrare, ogni giorno si offrirà il sacrificio di Cristo; su questo altare Egli continuerà ad immolarsi, nel sacramento dell’Eucaristia, per la salvezza nostra e del mondo intero. Nel Mistero eucaristico, che in ogni altare si rinnova, Gesù si fa realmente presente. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a sé; ci attira con la forza del suo amore facendoci uscire da noi stessi per unirci a Lui, facendo di noi una cosa sola con Lui.
La presenza reale di Cristo fa di ciascuno di noi la sua "casa", e tutti insieme formiamo la sua Chiesa, l’edificio spirituale di cui parla anche san Pietro. "Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio – scrive l’Apostolo -, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo" (1 Pt 2,4-5). Quasi sviluppando questa bella metafora, sant’Agostino osserva che mediante la fede gli uomini sono come legni e pietre presi dai boschi e dai monti per la costruzione; mediante il battesimo, la catechesi e la predicazione vengono poi sgrossati, squadrati e levigati; ma risultano casa del Signore solo quando sono compaginati dalla carità. Quando i credenti sono reciprocamente connessi secondo un determinato ordine, mutuamente e strettamente giustapposti e coesi, quando sono uniti insieme dalla carità diventano davvero casa di Dio che non teme di crollare (cfr Serm., 336).
E’ dunque l’amore di Cristo, la carità che "non avrà mai fine" (1 Cor 13,8), l’energia spirituale che unisce quanti partecipano allo stesso sacrificio e si nutrono dell’unico Pane spezzato per la salvezza del mondo. E’ infatti possibile comunicare con il Signore, se non comunichiamo tra di noi? Come allora presentarci all’altare di Dio divisi, lontani gli uni dagli altri? Quest’altare, sul quale tra poco si rinnova il sacrificio del Signore, sia per voi, cari fratelli e sorelle, un costante invito all’amore; ad esso vi accosterete sempre con il cuore disposto ad accogliere l’amore di Cristo e a diffonderlo, a ricevere e a concedere il perdono.
A tale proposito ci offre un’importante lezione di vita il brano evangelico che poc’anzi è stato proclamato (cfr Mt 5,23-24). E’ un breve, ma pressante e incisivo appello alla riconciliazione fraterna, riconciliazione indispensabile per presentare degnamente l’offerta all’altare; un richiamo che riprende l’insegnamento ben presente già nella predicazione profetica. Anche i profeti infatti denunciavano con vigore l’inutilità di quegli atti di culto privi di corrispondenti disposizioni morali, specialmente nei rapporti verso il prossimo (cfr Is 1,10-20; Am 5, 21–27; Mic 6, 6-8). Ogni volta quindi che vi accostate all’altare per la Celebrazione eucaristica, si apra il vostro animo al perdono e alla riconciliazione fraterna, pronti ad accettare le scuse di quanti vi hanno ferito e pronti, a vostra volta, a perdonare. [...]"

Una domanda allora mi viene spontanea: perché non si ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome? Perche non intitolare "Ogni atto di culto è abominio senza perdono e riconciliazione"? Mi sarei accontentato anche di un più piattamente fedele "Ogni atto di culto è indegno senza perdono e riconciliazione". Infatti se anche il Papa usa la parola inutile, essa è preceduta da concetti che mostrano qualcosa di più della semplice inutilità, della semplice perdita di tempo. Infatti se la riconciliazione è "indispensabile per presentare degnamente l'offerta all'altrare" allora vuol dire che chi lo fa, si presenta indegnamente! e che ci si accosta indegnamente!
Allora, leggendo le citazioni bibliche riportate, apparirebbe troppo vera l'affermazione che chi si accosta a Dio col cuore pieno di rancore, è paragonabile a un abitante di Sodoma e Gomorra, a un uomo che bestemmia pregando?

Questione di lana caprina? Forse! Ma per chi non cammina fuori dalla storia, in un mondo e in un'Italia invasa da tanti odi politici, religiosi, etnici, camorristici e mafiosi, fa specie che la forza del linguaggio l'OR la usi solo per quetioni di etica sessuale o per decidere l'indecifrabile istante della morte o per scaricare sui coniugi divorziati il fallimento ecclesiale della pastorale familare... Giudicate voi!

Lettera a Gomorra


di Roberto Saviano

I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così.

Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"?

Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage. Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte. Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano. Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia. Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer. L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini. Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici. Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone. Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria. Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto. Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno. Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli. Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana. I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari. E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati. I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali. Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati. Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole. Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone. Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce. Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico? Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti. Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato. Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)? Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri. E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente. Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo. La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ?ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita. Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina. "Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo? Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita. Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini. Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio. Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

Copyright 2008 by Roberto Saviano Published by arrangement of Roberto Santachiara Literary Agency (22 settembre 2008)

venerdì 19 settembre 2008

Quando Dio diventa un calcolatore...

Il Vangelo che la liturgia ci propone per questa XXV domenica del tempo ordinario, è costituito interamente da una parabola. Essa è collocata immediatamente dopo l’episodio del giovane ricco (Mt 19,16-22) e le considerazioni che Gesù fa a proposito della ricchezza («Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli», Mt 19,23ss) e della rinuncia («Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19,27ss). Queste considerazioni terminano con il versetto 30 («Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»), che, non a caso, è del tutto identico a quello con cui finisce anche il brano successivo, cioè il nostro. In questo modo infatti si crea una certa continuità, tanto che qualche studioso afferma che, a differenza della classica divisione dei brani, questo versetto 30 sarebbe quello iniziale della parabola degli operai della vigna e non tanto quello finale di ciò che precede.
In ogni caso ciò che interessa è come questa cornice in cui la parabola è incastonata (19,30 e 20,16: «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi»), ne suggerisca immediatamente la tematica: essa è infatti quella del giudizio, della giustizia di Dio: «Molti dei primi saranno gli ultimi e gli ultimi i primi»... anche se poi, seguendo la narrazione, sarà curioso notare che non è vero che nella parabola i primi sono abbassati; piuttosto saranno innalzati gli ultimi...
Ma procediamo con calma... soffermandoci per un attimo sulle caratteristiche che delineano questa parabola e le sue simili in una vera e propria “categoria”.
Le parabole evangeliche infatti potrebbero essere classificate in due gruppi:
- vi sono “le miniparabole del Regno”, che, forse anche per la loro breve estensione, tutti ricordano;
- e vi sono “le macroparabole” in cui prevale invece la forma della narrazione («Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti...», Mt 10,30ss; «Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano...», Lc 19,12ss) e che per questo hanno anche dimensioni più rilevanti.
Le parabole di quest’ultimo tipo oltre ad avere un’estensione narrativa più elaborata (è raccontata una vicenda), si presentano spesso anche come enigmatiche e difficili da capire. Si deve supporre perciò, che quando Gesù le pronuncia, lo fa rivolgendosi ad un contesto di interlocutori religiosamente colti, in grado di percepirne la complessità e la paradossalità; a gente quindi allenata a questo tipo di racconto e alla discussione che poi ne nasce: non a caso infatti nascono solitamente in un contesto a lui ostile.
Anche le tematiche che affrontano, confermano questa sensazione di complessità: non si tratta più semplicemente dell’annuncio diretto dell’arrivo del Regno di Dio, ma si intavolano argomenti quali la ricchezza, la giustizia di Dio, il giudizio, il perdono... mettendo in scena tra l’altro non più semplicemente il contadino, ma un amministratore, un fattore, ecc...
Tutto questo per dire che la nostra parabola rientra proprio nel gruppo di quelle “difficili”; di quelle cioè che richiedono un percorso più impegnativo per essere capite fino in fondo e che è quindi giustificata la sensazione di incomprensione che abbiamo avuto ad una prima lettura.
È del tutto normale se ci son venute in mente obiezioni tipo: “Come mai ha dato a tutti la stessa paga? Vanno bene le sue spiegazioni, ma resta che non è giusto... Sarà anche libero di fare ciò che vuole coi suoi averi, ma avevano ragione quelli chiamati per primi a fare le loro rimostranze...”.
Queste contestazioni che ci verrebbe da fare, non vanno messe a tacere per il reverenziale timore di mettere in discussione quello che ha detto il Signore, perché è la parabola stessa che vuole che arriviamo a porle! È una strategia narrativa: chi pronuncia (e poi scrive) queste parabole vuole infatti condurre il suo ascoltatore (lettore) a uno sbalordimento che lo porti a desiderare di voler capire perché Gesù ha detto così, cosa intendeva dire, e soprattutto che idea di Dio sta cercando di far passare...
Lo sconvolgimento che dunque sentiamo (perché paiono essere messi in discussione tutti i nostri tentativi di ordinazione, catalogazione, prescrizione, razionalizzazione della Parola di Dio) non deve dunque paralizzarci; piuttosto spronarci a capire dove il Signore, con la sua parabola, ci vuol portare... La sospensione della comprensione («Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono», Mt 13,13) è infatti voluta: essa ha lo scopo di evitare che una spiegazione più diretta produca l’automatismo di una comprensione che coincide con il fraintendimento, con il prevalere del luogo comune.
Per esempio nella parabola degli operai nella vigna Gesù sconvolge uno dei capisaldi fondamentali della cultura ebraica, anzi addirittura uno dei luoghi comuni della religiosità dell’uomo di sempre, e cioè l’idea della giustizia di Dio, del fatto che prima o poi ci sarà una retribuzione in base a come ci si è comportati, il (famoso) premio per i giusti (noi, ovviamente). Per i suoi interlocutori (e purtroppo ancora anche per noi cristiani) infatti la giustizia di Dio consiste nel leale riconoscimento della pratica della legge: se mi comporto bene vado in paradiso, altrimenti all’inferno... Tutti disposti certo a riconoscere che Dio è un grande mistero, per cui «i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le sue vie», ma ad un certo punto i conti bisognerà pur farli... Ed è proprio qui che entra lo sconvolgimento, la sospensione della comprensione, il desiderio di Gesù di far percepire altro rispetto a quello che essi già pensano.
Il problema è infatti che la matematica divina a differenza di quella umana... è un’opinione e i conti li fa in modo diverso: 1 giornata di lavoro = 1 denaro; ¾ di lavoro = 1 denaro; ½ lavoro = 1 denaro; ¼ di giornata = 1 denaro; 1 ora = 1 denaro...
Ma come? «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo», dicono i primi che sono andati a lavorare nella vigna... “Non è giusto”, diciamo anche noi, che capiamo immediatamente, che fuor di metafora, il lavoro nella vigna è la vita dell’uomo... la nostra... Com’è possibile che sia tutto uguale? Che vada comunque sempre bene? Che senso ha allora lavorare tutta una giornata?
Ecco... questo è il discorso umano istintivo: se non c’è differenziazione tra chi lavora una giornata intera e chi lavora un’ora soltanto, che senso ha allora il bene?
È lo stesso ragionamento che un sociologo statunitense riassumeva molto bene, affermando che se “togliessimo” l’inferno, non vedremmo in giro più nessun credente...
Il punto a cui vuole portarci Gesù è proprio questo: qual è la radice profonda della nostra reazione a quella che a noi pare l’ingiustizia della parabola? Perché una reazione così stizzita degli operai della prima ora, a cui ci siamo uniti anche noi?
La questione, mi pare, si possa guardare da tre punti di vista: quasi tre scenari che possano tentare di rendere l’idea della diversità di prospettiva di Gesù, rispetto a noi:
1- Ci sarebbero delle situazioni in cui il fatto che tutti ricevano un denaro non ci farebbe stizzire, ma anzi rallegrare... Per esempio se gli operai che hanno lavorato un’ora fossero i nostri figli... oppure se il guadagno di tutti fosse da mettere in comune per realizzare qualche progetto... In questi casi anche se gli altri dal nostro punto di vista meritassero meno... saremmo ben contenti di un padrone tanto generoso...
Allora, forse, una prima diversità tra la prospettiva di Gesù e la nostra è quella dello sguardo che poniamo sull’altro... L’istinto di sopravvivenza dell’uomo lo porta sempre a guardare al bene che capita ad un altro come un torto fatto a me, perché l’altro è sempre e comunque concorrente nella lotta per la sopravvivenza, rivale nell’affermazione del più forte, nemico o perlomeno estraneo...
Lo sguardo del Signore invece è un altro... è quello che Paolo richiama ai Filippesi nella II lettura: «Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo: [...] non fate niente per rivalità o vanagloria, ma con umiltà ciascuno ritenga gli altri più importanti di se stesso; non mirando ciascuno ai propri interessi, ma anche a quelli degli altri. Abbiate fra di voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù»!
2- Oltre allo sguardo diverso posto sul volto dell’altro, c’è un’altra prospettiva in cui Gesù vuol far saltare i nostri luoghi comuni: il Signore non è circoscrivibile nei nostri calcoli... Ogni nostro tentativo di liofilizzare l’accadimento del suo rivelarsi è infatti destinato a esplodere. Relazionarsi a Dio “facendo i conti” vuol dire non aver compreso chi Lui sia, non aver compreso che il rapporto uomo-Dio o è un incontro di liberà o non sussiste! Tutti i programmi che sono stati elaborati lungo i secoli e ancora oggi (penso ai vari itinerari spirituali, alle tappe delle regole di vita, ai precetti da rispettare, alle norme da applicare...), se pensati come “strumenti per andare in paradiso” falliscono il loro obiettivo! Il paradiso infatti non è un posto di cui dobbiamo guadagnarci l’accesso per non vedere finire la nostra vita nella tomba, ma è la condizione dello stare con Dio... è un lasciarsi incontrare, un lasciarsi salvare, un lasciarsi eternizzare dall’Amore, l’amore che è circolato nelle nostre vite! Ecco perché non gli si addice la logica matematica!
3- Ogni volta che ragioniamo nei termini di un dio calcolatore (per esempio in pensieri tipo “faccio digiuno per far contento dio, così quando muoio ho una cosa in più da mettere sulla bilancia”; “non faccio questo se no dio si arrabbia e poi mi manda all’inferno”...) è normale che ci venga la domanda: se paga tutti un denaro (se non c’è l’inferno, potremmo azzardatamene tentare di tradurre) che senso ha lavorare tutta la giornata (che senso ha stare dalla parte del bene)?
Perché questa è proprio la domanda di chi fa le cose sotto ricatto, senza amare quello che fa, senza esser-ci in quello che fa... È qui che Gesù vuol far saltare la nostra istintiva mentalità: lasciarsi incontrare dal Signore, vuol dire liberare i canali dell’amore... per Lui... per se stessi... per gli altri... senza calcoli... anzi fino a morirne. O è così, pare dire Gesù, o non è Dio... ma una proiezione della vostra testa!

La gratuità, il concentrato del vangelo: il segreto di Dio


Il vangelo non è sulle nuvole!
Sono forti e non insensate le obiezioni che sorgono spontanee da questa parabola evangelica, sconvolgente come poche altre ( il figliol prodigo, l’amministratore disonesto…). Sconvolge infatti non solo il nostro sistema normale di vita, ma sconcerta l’etica umana più seria. La giustizia, anche nei suoi aspetti retributivi, è una conquista irrinunciabile. Educare gli uomini alla fatica dell’impegno, il dovere di guadagnare ciò che si mangia, tenere conto dei meriti, rimangono principi assolutamente necessari e encomiabili nella dinamica della vita sociale pur rimanendo attenti ai più deboli e agli inabili… a meritare! L’ordine intramondano, sia privato che pubblico, non viene affatto abolito, ma solo superato (cioè, non è l’ultima parola!) nel “comportamento” di Dio e nella prassi dei discepoli di Gesù. Il discorso della montagna denuncia chiaramente l’insufficienza e le contraddizioni della giustizia umana, sottolinea però anche il fatto che Gesù non è venuto ad abolire la legge e le istituzioni umane, ma a dar loro compimento… Niente è annullato dello sforzo umano nell’elaborazione delle relazioni economiche, sociali e politiche, delle quali, in qualche modo, tutti siamo responsabili, perché la loro necessità è insostituibile nel cammino dell’umanizzazione. Ma queste vanno incessantemente riesaminate e sottoposte al vaglio del vangelo e al discernimento dello Spirito di Cristo, proprio perché sono necessarie, ma insieme incapaci di salvare l’uomo. Ogni altra interpretazione o applicazione di queste parabole, che trascura la permanente necessità della legge e delle istituzioni, anche per quanto riguarda l’amore ai nemici e la resistenza inerme al male… rischia di essere monca e non realistica, e porta ad un evangelismo che di fatto annulla l’efficacia critica e propulsiva del vangelo stesso nella nostra vita concreta – rischiando di ridurre il sale e il fermento del regno di Dio a utopia poetica indifferente alla storia e alla sofferenza dell’uomo.

Cosa vuol dire, allora, la Parabola?
I Giudei contemporanei di Gesù si sentivano privilegiati rispetto ai pagani, essendo stati fin dai loro antichi patriarchi, gli “eletti” a lavorare nella vigna del Signore, sprezzanti quindi dei… pagani, che erano estranei all’Alleanza e ignari della Legge. Gesù vuol aprire loro gli occhi e il cuore, mostrando come ormai è arrivato il tempo di una nuova alleanza, un nuovo “contratto” con gli uomini, cercati su tutte le piazze del mondo, un nuovo rapporto di fede, nel quale tutti, in ore e in modi diversi, sono chiamati a godere della misericordia di Dio, da sempre annunciata, proprio attraverso la storia di salvezza del popolo di Israele. Il nodo problematico della parabola, che suscita sconcerto e polemica, sta nel comportamento di Dio al momento della paga finale. E, più propriamente, nel giudizio di Gesù sull’atteggiamento e le pretese di chi si sente primo rispetto agli ultimi. Il risentimento e la protesta nascono dal pensare che la salvezza è un merito, una cosa guadagnata e perciò dovuta, una ricompensa alle nostre opere buone e non un dono gratuito… un regalo (una grazia!). E quindi, questo dono dovrebbe essere vissuto e faticato, sì, ma deve soprattutto essere goduto come un privilegio immeritato che ci inonda di riconoscenza e di gratificazione, per essere stati chiamati, appunto, da un atto di compassione! Qui sta l’equivoco. Vivere l’elezione (la propria situazione di grazia) come un riconoscimento dovuto, almeno dopo l’impegno del dovere compiuto. Col risultato di trasformare (spesso inconsapevolmente) l’attitudine interiore di “poveri beneficati” a “padroncini esigenti e presuntuosi”, duri e sprezzanti con quelli che … non ce l’hanno fatta o sono arrivati tardi e male!

Ma Dio, da che parte sta?
Da qui l’impressione scandalizzata per gli ebrei, ascoltatori di Gesù, che il Dio raccontato dalla parabola non stia dalla parte degli Israeliti osservanti, ma degli impuri, dei peccatori e dei pubblicani… O (nella situazione nuova della comunità di Matteo) la delusione amara che Dio non stia più dalla parte dei giudei, eredi del popolo eletto e convertiti alla fede cristiana, ma degli ultimi arrivati alla fede dal paganesimo, ignoranti di ogni legge e tradizione sacra e neanche circoncisi… Infine (nelle orecchie di tanti cristiani di oggi) l’insofferenza che questo stesso Dio della parabola simpatizzi per gli ultimi arrivati nella chiesa, con le loro culture eterogenee un po’ primitive, le loro teologie contestuali di liberazione, le loro prassi morali molto elastiche, le liturgie improvvisate con il popolo… e non sia invece schierato con la chiesa e la teologia classica, irreversibilmente modulata sulla cultura grecoromana, la veneranda liturgia in lingua latina e in vestiti barocchi, la gerarchia sacra docente e i laici discenti… Effettivamente, Gesù, con questa parabola, lancia una provocazione forte: un volto, o meglio, un cuore di Dio diverso, molto più aperto, premuroso e accogliente di quello che noi potevamo immaginare, preoccupato non tanto di chi è già a lavorare in vigna (in chiesa… o nell’ovile!), ma di chi è abbandonato negli elenchi delle agenzie di disoccupazione, perso nell’inutile attesa di una dignità e di una incerta collocazione. E magari anche rimproverato, perché fannullone o disimpegnato o fuggito dalla propria patria… Il Dio di Gesù è veramente “buono”, cioè sbilanciato con i più sprovveduti e invita incessantemente tutti, perfino l’empio… perché ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona.

L’undicesima ora: poco prima della fine
C’è un indizio mortifero, un germe patogeno, nell’uomo che si lamenta del bene altrui, perché lo pensa “non meritato”. Un ‘bene’ che quindi ritiene premio ingiusto e come rubato a sé (che invece ciò che ha, lo ha meritato!). L’“altro” uomo è sempre percepito come un concorrente, un nemico potenziale. Di conseguenza, la propria visione del mondo e di Dio è assolutizzata a giustificazione incontrovertibile della propria posizione ideologica, sociale e morale … Allora un Dio che “mangia coi peccatori e siede a tavola con essi” (Mc 2,15); un Dio “che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e gli ingiusti” (Mt 5,45); infastidisce e irrita, perché dona gratuitamente il Regno a chi non l’ha meritato.
Ma proprio da qui s’illumina il punto centrale di tutta la nostra fede: il segreto di Dio! Non siamo al livello misurabile e in qualche modo quantificabile delle relazioni economiche o affettive o culturali… Nel rapporto di fiducia e amore, come totale dono di sé, al quale ci invita Gesù, non è vero che alcuni hanno meritato e altri no, ma siamo tutti salvati mentre eravamo ancora incapaci e peccatori: “Ora si è manifestata la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo. Dove sta dunque il vanto? Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,21-28).

Rimane l’impatto della parabola, che certo mina alla radice la logica della competizione e dell’appropriazione, cioè della pretesa del “capitalismo” tanto economico come spirituale (o religioso, ma è ideologico) di essere la soluzione migliore per far funzionare la società umana. Se lo stimolo della realizzazione e dell’affermazione di sé e della propria identità, nella conquista e nell’accumulo dei beni, fa funzionare alcune dinamiche psicologiche e sociali, porta però inguaribilmente alla sperequazione e alla discriminazione, e abbandona gran parte dell’umanità… in piazza, ad aspettare inutilmente chi li chiami al lavoro e alla dignità. In più ci rende incapaci di guardare l’operaio dell’ultima ora (gran parte dell’umanità) con occhi “buoni”, come fratelli amici, e non come rivali… Gioire e far festa con loro della loro paga piena, non diminuisce la mia, ma mi spinge a far festa con loro. Così siamo tutti più ricchi, di una ricchezza condivisa, e tutta, comunque, regalata! Solo che, per entrare nell’orbita della parabola, bisogna aver provato a sussultare di gioia per la gioia altrui, più che per la propria. Anche questo è un regalo dei poveri! Bisogna pregare il Signore, che arrivi a noi prima dell’undicesima ora, perché non ci trovi col cuore triste e lo sguardo cattivo… gelosi, perche Dio è buono!

mercoledì 17 settembre 2008

“Atei anonimi”

Da Milano a Treviso attecchisce il seme dell’odio di Toni Fontana

Dunque non è un delitto razzista. Abdul Guiebre era cittadino italiano, e dunque l’avrebbero massacrato a sprangate anche se avesse avuto la pelle bianca. Quei ragazzi di Verona che hanno ucciso un loro coetaneo non erano del resto “fascisti”. Così dicono i giudici, così i due fermati per il delitto di Milano. Il caso è chiuso? Tutto chiarito, tutto provato? La magistraura non deve perdere tempo per cercare i mandanti? Nelle stesse ore del delitto avvenuto domenica nei pressi della stazione centrale di Milano, a Venezia, Umberto Bossi e i leghisti celebravano la “Padania Libera” e tra gli oratori si è distinto il prosindaco di Treviso Giancarlo Gentilini che, dal palco “verde” ha pronunciato una vera e propria dichiarazione di guerra: “macchè moschee, gli immigrati vadano a pregare e a pisciare nel deserto”. Chi non conosce la filosofia ed i principi dello “sceriffo” della Marca può farsi un’idea cliccando il suo nome sul motore di ricerca Google. Tra le tante voci dell’ “enciclopedia Gentilini” ce ne sono tre che ben rissumono suo programma: 1) Gli immigrati? “Si vestano da leprotti così i cacciatori possono fare pin pin con il fucile”. 2) L’Islam? “un cancro che va estirpato prima che vada in metastasi”. 3) Il fascismo? “allora c’era una maschia gioventù che ubbidiva e rispettava le leggi”. Uno dei consiglieri leghisti di Treviso, Giorgio Bettio, balzò agli onori delle cronache per aver detto che contro gli immigrati “occorre usare metodi da SS”. Gentilini e Bettio fanno scuola: poche settimane fa in una fabbrica di Treviso è apparso un avviso “venatorio”: aperta la caccia a negri e comunisti”. La Cgil ha presentato una denuncia. Da quando la destra ha vinto le elezioni è in corso una subdola operazione per “beatificare” la dirigenza leghista. Gentilini e i suoi, scrivono prestigiose firme del gionalismo, sono ottimi amministratori dediti al bene della collettività anche se ogni tanto dicono “certe cose”. Il gioco è semplice: se i bilanci del comune sono in ordine, le strade pulite e i cassonetti dei rifiuti vuoti, allora un sindaco può anche dire che “i negri”si devono travestire da lepri per la gioia dei cacciatori. Gentilini è insomma un mattachione, un simpaticone, un amicone che ogni tanto le spara grosse. Tiziano Scarpa, scrittore del nord-est, mi faceva notare tempo fa che “quelle di alcuni amministratori non sono solo “sparate”, sbruffonate, loro vogliono “rompere i coglioni” agli immigrati, far sapere che non saranno mai dei nostri, come noi. Vogliono infastidire, intimorire”. Il fatto che la teoria dei “matacchioni, simpaticoni” non regga, è dimostrato da quanto sta accadendo a Treviso, città che i leghisti hanno deputato ad ospitare la nuova crociata contro l’islam. Nella Marca vivono 84mila immigrati (la densità è doppia alla media nazionale). Quelli della prima generazione hanno sgobbato senza fiatare. I loro figli, che hanno assorbito gli stili di vita occientali, rifiutano invece di essere cittadini di serie B e rivendicano la piena integrazione, non accettano l’apartheid che la Lega sta cercando di imporre. Gentilini ha finora risposto con insulti e minacce. Da alcune settimane la tensione è elevatissima e da alcuni giorni le telecamere di Al Jazeera stanno seguendo gli avvenimenti. Sui telefonini dei giovani musulmani di seconda generazione i bit annunciano messaggi con minacce di morte. Chi ha affittato loro i locali di un ex supermercato a San Liberale, popolosa periferia ad “alta intensità di stranieri”, è stato avvertito: attento a te, potresti morire. Quasi tutte le notti partono i raid e sulle mura del locale affittato compaiono scritte come “Allah-Satana, il figlio di Satana è Maometto”. L’odio dispensato a piene mani da anni ha attecchito e si annunciano tempi duri. Meryem ha 21 anni, studia economia internazionale all’università di Padova, presiede l’associazione Seconda Generazione, parla cinque lingue, l’italiano con inflessione veneta: “Fin da bambini si impara che cos’è il razzismo, alcuni di noi si abituano a subire, non reagiscono, io ho imparato a dare una sberla a chi mi insulta. Noi non vogliamo più essere cittadini di serie B, esclusi, emarginati, molti hanno il passaporto italiano, il lavoro non manca, ma la città è off limits, ci accettano solo quando lavoriamo, poi dovremmo rintanarci nelle nostra case di periferia”. Moschea-banlieue, dicono i ragazzi dell’associazione presieduta da Meryem, sognando le rivolte di Parigi. Quando Meryem sale sull’autobus le parlano male degli immigrati credendola italiana, ma fanno un passo indietro quando scoprono che è nata in Marocco. In questura sono arrivate molte segnalazioni di pendolari. Dicono che quando un nero viene trovato senza biglietto viene scaricato in mezzo alla campagna. “O viene portato al commissariato – dice Yaguine, un ragazzo della Costa d’Avorio – molti sono stati fermati solo perché non avevano il biglietto. Ai bianchi non succede. Presto ci saranno gli autobus per i bianchi e quelli per i neri”. E l’ispiratore è sempre lui: Putin-Gentilini. Non potendo farsi rieleggere per la terza volta alla carica di sindaco, ha trovato un sostituto di paglia , Gobbo, e continua a comandare lui. Da 5 anni anni la comunità islamica cerca un luogo per la preghiera del venerdì. Gentilini ha usato tutti gli strumenti “urbanistici” e di polizia per vietare i raduni dei fedeli di Allah che pregano nei parcheggi dei supermercati, dentro edifici offerti per una sola volta da alcune amministrazioni. Vista l’assenza di risultati Meryem ed alcune ragazze della Seconda Generazione hanno promosso una spaccatura nella comunità islamica ed organizzato alcuni incontri di preghiera nel parcheggio dello stadio del rugby alla periferia di Treviso. Gentilini ha mandato i vigili ed ha chiesto e ottenuto l’intervento della polizia. I giovani musulmani hanno affittato l’ex supermercato di via Puglie: “Vogliamo promuovere corsi di italiano per i nostri immigrati, e corsi di arabo per gli italiani che ce l’hanno chiesto – dice Meryem - la gente del quartiere ci saluta e ci aiuta, loro, Gentilini e i suoi ci odiano, ma noi vogliamo solo aiutare la nostra gente”. “Vadano a pisciare altrove” – tuona lo sceriffo. Il consigliere leghista Antonio Fanton, un pasdaran di Gentilini, si trovava “per caso nei paraggi” e lamenta un’aggressione. “Ci ha provocato – ribattono i giovani di Seconda generazione – sputava per terra e insultava”. Poi sono comparse le scritte, quindi le minacce di morte. Gentilini ha trasformato il Ramadan in una guerra senza quartiere, totale: “Estremisti, terroristi, se dovessero realizzare un assembramento scatterà lo sgombero”. I ragazzi vivono nell’angoscia, da un momento all’altro possono scattare le manette. Con loro si è schierato il parroco di San Liberale, don Paolo Zago e Gentilini ha attaccato anche lui: “boicottate la parrocchia” – ha urlato. Ma i fedeli non lo hanno ascoltato. Il presidente della Provincia, il leghista Muraro, ha avuto un’idea per risolvere il problema: “evangelizziamo i musulmani”.

ABDUL, NOSTRO FRATELLO


IL RAZZISMO COME RABBIA OSCURA DALLE VISCERE
di Marina CORRADI (Avvenire, 16/09/08)

Tre ragazzi che alla fine di un sabato notte portano via due pacchi di biscotti da un bar. I proprietari che li inseguono, loro che afferrano dalla spazzatura bottiglie, e una scopa per difendersi. Ma uno dei tre cade, e il barista gli è addosso. Con una spranga gli spacca il cranio e lo ammazza. Poi, lui e suo figlio se ne tornano a casa.
Sembra Bronx, ma è Milano, in un’alba in via Zuretti, una strada come tante, parallela alla massicciata dei binari che entrano alla Stazione Centrale. E chi ascolta si dice che questa storia è assurda e folle, com’è possibile ammazzare come un cane un ragazzo, per dei biscotti? Com’è possibile che a farlo, insieme, siano il genitore e suo figlio, senza che l’uno sappia – senta il dovere – di neutralizzare l’altro? Ci deve essere un’altra ragione, per spiegare cosa è successo a Milano, e dovrebbe rifletterci, chi assicura che è stato solo un tragico, esecrabile omicidio per futili motivi. L’'altra' ragione, è che quei ragazzi erano neri, e nero, benché cittadino italiano, era Abdul, 19 anni. I due baristi urlavano «Negri di m. ve la diamo noi una lezione», e li han sentiti in molti, tra quanti, svegliati dal baccano, si sono affacciati alle finestre. Se a insinuarsi nel bar fossero stati tre ragazzi bianchi, come sarebbe andata? Due insulti, uno spintone, e poi quel «va’ a lavurà» brusco, ma non maligno, che si gridava a chi pretendeva qualcosa senza guadagnarselo, una volta, a Milano.
Già, c’era una volta Milano. Omicidi e rapine, sempre stati, ma inseguire con una spranga un ragazzo per dei biscotti, sfasciargli la faccia e andarsene lasciandolo moribondo, no, questa non è mai stata cronaca abituale, a Milano. È una storia impazzita questa di via Zuretti, a meno che non si prenda sul serio quel «sporchi negri, vi insegniamo noi» urlato da due uomini – padre e figlio – stravolti. Che giurano, ora, di non essere razzisti. Però, la moglie e madre dei due, da dietro il banco, ammette, riferiscono le cronache: «Sì, io sono razzista. Lo sono diventata, vedendo quello che succede nel quartiere». Dove, per carità, trovandoci dietro la Stazione Centrale di sera si cammina in fretta e inquieti, che pare d’essere, dopo anni di incuria, nelle retrovie di un porto, in un approdo di ogni fuga e miseria e espediente. Ma proprio per questa paura dello straniero che si respira qui e altrove, occorre avere il coraggio di dire che il razzismo, con la fine di Abdul Guiebre, c’entra. Non lo hanno ucciso per due pacchi di biscotti. La ferocia è scoppiata alla vista di un branco di ragazzi neri che acciuffavano, come padroni, qualcosa dal banco. Una rabbia oscura allora dalle viscere è risalita, veloce come il sangue, alla testa dei due italiani, in un corto circuito esplosivo: e una mano ha afferrato una spranga, ed è partita la caccia. Non era con 'quel' nero che ce l’avevano, non solo. In un istante, in un’alba di asfalto tra i semafori lampeggianti, un rigurgito di ferocia tribale, una faida da foresta, come ne scoppiano fra tribù primitive quando il proprio territorio è minacciato, o invaso. E allora giù colpi su Abdul, 19 anni, da Cernusco sul Naviglio, Abdul che in camera teneva il poster del milanista Ronaldinho.
Non c’entra il razzismo, ripetono in molti ora, e preoccupa questo non voler vedere quale ombra si va insinuando fra noi. Dal palco del raduno della Lega, a Venezia, proprio domenica il prosindaco di Treviso ha gridato: «Che gli immigrati vadano a pregare e p. [pisciare] nel deserto». E certo ha parlato l’anima più becera del partito: ma ci sarebbe piaciuto che qualcuno, dello staff leghista, se ne fosse dissociato. No, non è stato razzismo a Milano, dicono in molti, è stato un furto: due biscotti e una sconsiderata reazione. Sfortunato ragazzo, ha scelto il bar sbagliato. Quanta ansia di rassicurarsi che non è successo niente. Di non voler vedere il segnale di un livido incanaglimento in una città che, una volta, per due pacchi di biscotti, benevola avrebbe borbottato: ragazzo, va a lavurà.

martedì 16 settembre 2008

Per non essere ipocriti

Leggo, condivido, pubblico:

È ipocrisia litigare per un accenno a Dio nella costituzione europea o per conservare il crocifisso nelle aule scolastiche, se poi si chiude la porta in faccia a chi è nel bisogno. Del tutto insoddisfacenti le soluzioni finora adottate.
Che una carretta del mare sbarchi dei clandestini sulle coste della Sicilia, che un’altra sia stata avvistata al largo delle coste, che un’altra abbia fatto naufragio prima di entrare nelle acque italiane al largo della Tunisia, dobbiamo ammetterlo, non fa più notizia, anche se ogni volta sono diecine e diecine di persone che rischiano la vita.
È quasi inevitabile fare il callo a queste notizie nel mare dell’informazione. Così non diamo più peso alle reazioni del mondo politico che vanno da sparate indegne di persone civili («li rigetteremo in mare con i cannoni della marina militare») fino alla difesa, diplomatica e prudente, del sistema da parte dei responsabili della sicurezza delle frontiere. D’altronde ci assicurano che il flusso migratorio è diminuito, dopo le convenzioni stipulate con i governi limitrofi. Ci possiamo dedicare perciò a problemi più immediati che affannano il paese: la tenuta della maggioranza, l’inerzia dell’opposizione, la riforma delle pensioni, l’inflazione crescente, i prezzi del mercato ortofrutticolo, la crisi del calcio e le esponsabilità per il black out di fine settembre ecc., mentre Lazzaro sta sulla soglia, mendicando attenzione e un tozzo di pane nell’indifferenza generale. Tanto ci sono le leggi!
Certo, la legge c’è, la n. 189, una legge di modifica alla normativa in materia di immigrazione e asilo, detta «Fini-Bossi», dal nome di coloro che l’hanno proposta. Ma in questo primo anno dalla sua entrata in vigore essa si è dimostrata iniqua e inefficace, come ha denunciato Caritas italiana che di questi problemi è ben più esperta del governo e dei legislatori. Ma perfino il ministro degli Interni ha dovuto riconoscerne “i limiti” (Avvenire del 26 ottobre 2003).

È insensato parlare dell’immigrazione come di un’emergenza. Il fenomeno migrazioni non è estemporaneo, ma epocale. Dura ormai da anni e durerà ancora, anche se sentiamo parlarne solo quando ci scappano dei morti. La mobilità è un dato strutturale della società globalizzata. Da una parte abbiamo bisogno di questa manodopera, dall’altra queste persone, affamate e senza lavoro, sbarcano in Italia attratte dall’immagine, falsa e deformata, del nostro modo di vivere, un’immagine quotidianamente proposta dalla televisione italiana che si vede a casa loro.
Rifiutare pregiudizialmente gli immigranti non è la strada giusta, non è ragionevole né civile.
Davanti a chi bussa alla nostra porta dobbiamo, quanto meno, domandarci perché viene. Ci sono rifugiati e rifugiati, poveri che fuggono dalla guerra o dalla persecuzione politica. Essi possono essere una potenzialità per il nostro paese che, come altri, ha bisogno di manodopera per quei lavori che gli italiani non vogliono più fare. È altrettanto certo che sarebbe sbagliata anche una politica che aprisse indiscriminatamente le porte a tutti e non sarebbe rispettosa degli altri.
Quello che non dobbiamo fare è assistere inerti a questo esodo. Accoglierli solo perché ne abbiamo bisogno, o perché ci sono lavori che nessuno vuol più fare …è troppo poco. In mezzo ai due estremi c’è la strada della giustizia che sa che la terra è di tutti e che sulla proprietà privata c’è una ipoteca sociale, come ricorda il papa in Laborem exercens, perché tutti gli uomini hanno diritto alla vita e al lavoro. La soluzione verrà dalla ricerca comune, dalla coscienza che alla radice ci sono situazioni di inimmaginabile povertà e ingiustizia, frutto di una politica non solo locale, ma anche mondiale della quale siamo responsabili in solido tutti. Finché il mondo ricco non si accollerà seriamente e concretamente i problemi del mondo povero e farà vedere, attraverso i mass media, anch’essi ormai globalizzati, una tavola imbandita, chi sente i morsi della fame, accorrerà per avere almeno le briciole.

fonte: http://www.sdtm.it/
Ps: cosa c'entra il cane con l'articolo? provate a rifletterci! Un indizio? provate a leggervi questo articolo del Corriere!

sabato 13 settembre 2008

La croce di Gesù, persuasione dell'univocità affidabile di Dio

Nella prima lettura (Nm 21,4b-9) di questa domenica 14 settembre, in cui la Chiesa celebra la festa dell’esaltazione della croce, ci viene presentato uno dei moltissimi esempi di ciò che ha caratterizzato il cammino di Israele nel deserto, dopo la liberazione dall’Egitto: il lamento («Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero»).
Questo atteggiamento carico di sfiducia da parte del popolo, pur essendo tanto caratteristico, da risultare ovvio, non può però non suscitare perplessità, dato che, a ben guardare, il Dio contro cui il popolo mormora è lo stesso che lo aveva condotto fuori dall’Egitto (dalla schiavitù); evento che per Israele è uno dei momenti centrali della sua storia di popolo. Con questo atto preveniente e unilaterale, infatti Dio ha (pro)posto gratuitamente le basi per l’elezione, per l’alleanza, per l’identità specifica di Israele, nello scenario della storia umana!
Perché allora il popolo nel viaggio che segue questa liberazione (che al di là della ricostruzione storica ha soprattutto valore teologico) appare sempre non all’altezza nell’onorare questa alleanza? Nell’onorare cioè il credito dato alla promessa di Dio iscritta in quella liberazione? Perché cioè – per usare le parole di Giuseppe Angelini – «nel deserto il popolo sempre da capo mormora contro Mosè; esprime cioè il suo sospetto di essere stato da lui ingannato»? Perché – continua il teologo – il popolo arriva a dire «‘Meglio sarebbe stato per noi non essere mai usciti dall’Egitto’ [...] sconfessando in tal modo il proprio apprezzamento dei benefici di Dio»? Quasi che esso addirittura «si sia pentito di aver creduto. O, più precisamente, neghi di aver mai scelto, protestando di essere stato sedotto con inganno»?
Perché, detto in chiave antropologica universale, l’uomo, nella prova, mette alla prova Dio, invece che rinnovargli il suo credito? Perché del suo favore, della sua benevolenza della sua affidabilità, non è mai sufficientemente persuaso?
Si apre quello che Sequeri chiamerebbe «lo spazio dell’incredulità: [...] il sospetto cioè che il comandamento [“Fa uscire dall’Egitto il mio popolo (Gn 3,10)] invece che il simbolo della solidarietà di Dio, sia il segno di un’oscura prevaricazione». È la paura dell’arbitrio di Dio! La paura che «dietro un volto apparentemente buono e promettente, Egli ne celi forse uno inquietante e minaccioso». E questo – come insegna il terzo capitolo di Genesi – è un sospetto che «una volta portato alla luce, non ci abbandona più. Ogni uomo, almeno una volta, sperimenta infatti il sentimento della possibile ambiguità di Dio».
Questa è la potenza della prova, della fatica di vivere, della tragicità della drammatica umana: che arriva a compromettere radicalmente la buona relazione tra Dio e l’uomo, inficiandola con il sospetto.
Ma è proprio a questo livello che si colloca lo snodarsi storico della libertà del Figlio di Dio, che infatti ha come fonte, centro e culmine, proprio lo smascheramento di questa ambiguità: in Gesù, l’inquietante sospetto della ambivalenza di Dio scompare! In Gesù, è annunciata inequivocabilmente all’uomo la buona notizia del Regno, che rivela che Dio è là dove c’è libertà dal male: «I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la lieta novella». Questo è Dio, per Gesù; il Dio sempre dalla parte dell’uomo: «Egli infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»!
Ma perché allora «il mondo non lo riconobbe» (Gv 1,10), tanto da rigettarlo con «la morte di croce»?
Perché il germe evangelico, seminato da Gesù nel grembo dell’umanità arriva a sconfessare proprio ciò su cui il potere costituito (l’ordine religioso, politico ed economico) e l’istinto umano della sopraffazione sull’altro, si fondano: e cioè, la paura di Dio; facendo sperimentare, con sorpresa, a Gesù stesso, che non solo l’odio genera l’odio, ma anche l’amore può avere lo stesso risultato.
Affrancando infatti gli uomini dalla paura di Dio, Gesù toglie il terreno sotto i piedi a qualsiasi religione della schiavitù e del dominio: esse si radicano sulla strumentalizzazione dell’ambiguità del sacro, che se oltre ad un volto benevolo, ne ha anche uno minaccioso, va ingraziato; ecco il ruolo degli “amministratori del sacro”, che su questo marchingegno si gonfiano le tasche e dirigono le coscienze!
Ma se, in Gesù, l’ambivalenza è definitivamente tolta, non c’è più nulla che fondi l’assoggettamento dell’uomo da parte del suo simile. Ecco il perché della reazione immunitaria: «è reo di morte»!
In questo modo, con il precipitare degli eventi, la sfida sull’autentico volto di Dio – nella vita storica del Figlio – è trascinata fino alle estreme conseguenze: lo scontro è tra Gesù che «con forza e trasparenza sa chi è Dio» e il mondo, che lo uccide in nome di Dio.
La croce diventa allora «il luogo in cui ogni divinità in nome della quale si piantano croci e si crocifiggono uomini è travolta dalla sua stessa sopraffazione. Gesù la trascina con sé in un abbraccio mortale». Lì diventa evidente infatti chi è Dio: «L’abbà, che non ricorre al sacrificio dell’altro per affermare la propria verità nel mondo»!
«Impedire che egli sia equivocato su questo punto è la passione di Gesù».
In questo senso, di fronte al popolo, all’uomo, al discepolo, mai pacificato fino in fondo riguardo alla univocità affidabile di Dio, la croce diventa il massimo della persuasione: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». D’ora in avanti nessuno “in nome di Dio” potrà piantare più croci su questa terra...
Purtroppo (perché di croci invece ne sono state piantate ancora, troppe)... o per fortuna (perché è salvaguardata la libertà dell’uomo)... si tratta di una persuasione inestricabilmente immersa nella logica della fede: la croce non è persuasiva al modo dell’evidenza di una dimostrazione matematica! Come tutto ciò che riguarda l’interiorità dell’uomo e il suo relazionarsi (tanto più a Dio) è sempre in gioco una necessaria affidabilità a cui dar credito: è perché intuisco qualcosa di promettente in ciò che mi interpella che dò il mio consenso a lasciarmene coinvolgere; «sappiamo infatti, dall’esperienza che contraddistingue tutte le nostre relazioni più importanti, che le vere intenzioni di una persona, la vera natura del suo atteggiamento, possono essere mostrate e dimostrate in molti modi: ma la certezza di tale rivelazione vive del credito che noi siamo disposte a farle».
Sulla croce Gesù non dimostra niente, non impone nessuna evidenza incontrovertibile all’uomo! Semplicemente «disponendosi a deviare su di sé, in nome di Dio, la violenza che nasce dall’opposizione all’evangelo», mostra come credibile il volto affidabile di Dio, inequivocabilmente dedito solo alla cura dell’uomo, senza risvolti nascosti e temibili: «la consegna della propria vita – e mai quella dell’altro – a Dio, al fine di bruciare dentro la relazione dell’abbà e del Figlio la minaccia che incombe sulla vita dell’altro, è l’atto in cui risplende la bellezza insperata del fondamento sul quale la santità e la giustizia di Dio vogliono edificarsi».
È a questa credibilità – indimostrabile – che Dio, in Gesù, chiede di attaccare il cuore, conferendole credito, come unico orizzonte di senso che davvero rende la vita, Vita. È la proposta per il discepolo, per chi, affascinato dalla proposta evangelica, sceglie di legare il suo destino a quello del maestro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25).
La croce del discepolo allora è fuori da ogni logica di sacrificale masochismo in cui spesso anche in seno alla chiesa è stata descritta: essa è piuttosto l’appassionata ostinazione di chi, per grazia, ha incontrato il Signore, lasciandosi impregnare – tanto che non può esprimere altro – dalla sua dedizione incondizionata per l’uomo: a costo di morirci, per far vivere l’altro!

giovedì 11 settembre 2008

Lo scandalo che ci salva!

Annichilì se stesso… fino alla morte, e alla morte di croce!
Non la croce, ma il crocifisso, è lo “spettacolo” storico (Lc 23,48) definitivo, che ci è lasciato al centro di ogni vangelo… Un uomo, che si proclamava figlio di Dio, appeso al patibolo “maledetto” degli schiavi, la croce, “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Questo è lo spettacolo nel quale Dio si è rivelato storicamente al mondo. Sotto la croce si sente scherno e paura nei nemici. Abbandono e solitudine totale degli amici. Soltanto “alcune donne stavano ad osservare da lontano” (Mc 15,50). Ma ben più profonda è la solitudine di Gesù, abbandonato anche dal Padre. “Mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Questo è il mistero della croce: un uomo – che tra l’altro più di tutti è un uomo di Dio – e ne sa la premura e la passione per gli uomini, sperimenta l’abbandono totale di Dio, il suo silenzio, la sua immobilità di fronte ad un giusto innocente calpestato dalla malvagità.
… un centurione, vistolo morire in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”… A questa fede sono chiamati i suoi discepoli, che l’hanno visto predicare o fare miracoli, ma adesso, che ha perso tutto ed è in croce, sono fuggiti! Fuggiti, come invincibilmente anche noi oggi, dallo “spettacolo” più scandaloso che Dio dà di sé nella storia, quando si immerge e sparisce nell’abbandono, nel dolore, nella sofferenza. Ove soltanto si può dire “Tutto è compiuto” (Gv 19,30). È il mistero supremo, all’interno della fede, quando, per il figlio dell’uomo, l’eletto, non ci sono più ragioni e motivi per fidarsi di Dio, fino alla spogliazione ultima, il “salto mortale” di ogni uomo. In questa tragedia, il Salmo 21, recitato da Gesù in croce, partendo da questa disperazione, confermare la sua permanente totale assurda fiducia in Dio! Con la risurrezione Dio garantisce – dopo: è extrastorica! – quell’atto supremo, e ne fa la sorgente della vita per il mondo: bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Solo lui – il crocifisso! – poteva salvarci!? (…nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso!)
Cristo vuol dire “unto”, cioè permeato dello Spirito di Dio, consacrato da Dio con un’unzione assolutamente unica: in definitiva vuol dire “l’eletto”. In Cristo si condensa tutto il mistero della elezione divina, predisposta e preparata nell’elezione del popolo di Israele e in Cristo, l’unico che può salvare, estesa all’umanità intera, secondo il disegno di Dio, che vuole tutti gli uomini salvi. Ma Gesù, l’eletto, è il Cristo paziente inchiodato sulla croce: ecco che cos’è elezione nel cristianesimo. Ed essere cristiani significa riconoscere il contenuto proprio dell’elezione in questa scelta di sofferenza, posta dal Padre in modo assolutamente unico sul capo di quest’uomo, concentrando in lui tutto il peccato e tutta la sofferenza dell’umanità e dando così la chiave di interpretazione suprema di ogni sofferenza. La crocifissione è l’elezione e l’elezione è la crocifissione!
Il crocifisso ci salva coinvolgendoci nella sua elezione
(… quando sarò innalzato attirerò tutti a me!)
… dobbiamo prendere coscienza di questa cosa: dire ‘cristiano’ vuol dire immediatamente elezione, ed elezione condensata al massimo grado in uno a cui tutti ci ricolleghiamo per poter essere anche noi oggetto di scelta divina. Se non si accetta pregiudizialmente questo, il cristianesimo si dissolve totalmente. Non esiste più il Cristo, non esiste più il cristianesimo, se non si accetta pregiudizialmente che Dio possa scegliere, abbia voluto scegliere e abbia condensato questa elezione in grado supremo e unico nell’uomo Gesù, figlio di Maria, sposata a Giuseppe, e che abbia fatto di quest’uomo il Salvatore: l’unico che può salvare, unico che può far sì che questa scelta si estenda al altri sino a raggiungere, nel disegno di Dio, che vuole tutti gli uomini salvi, l’umanità intera. Ma non per i meriti che ci possono essere in ogni uomo o nel seno dell’umanità tutta, ma unicamente per l’accettazione umile e grata di questa scelta divina in Gesù. I cristiani non sono tanto i seguaci di Gesù Cristo, quanto piuttosto gli eletti in Gesù Cristo, che accettano e riconoscono con gratitudine, per sé e per tutti gli uomini questa unica via di salvezza che Iddio ha predisposto… Questa è l’elezione nel cristianesimo. L’essere cristiano è precisamente il riconoscere il contenuto proprio dell’elezione in questa scelta di sofferenza posta dal Padre in modo assolutamente unico sul capo di questo uomo, concentrando in lui tutto il peccato e tutta la sofferenza dell’umanità. Elezione sì, ma questo tipo di elezione.
Il segno della sofferenza… redenta e glorificata: la croce! (Proprio per questo Dio lo ha esaltato!)
Il privilegio dell’elezione non è un privilegio di successo o di potenza, non è neppure privilegio di salvezza e di sopravvivenza terrestre: quando la Chiesa si mette su questa strada incontra i suoi più grandi e drammatici naufragi, perché non può sfuggire, non agli uomini che lottano contro di lei, ma a Dio, che ha posto sul popolo che si è scelto in Cristo, il segno della sofferenza, che è la stessa cosa del segno dell’elezione.
Sfuggire alla sofferenza, sfuggir e alla morte nel cristianesimo è assolutamente impossibile: sarebbe riprodurre la storia di Israele secondo la carne, che in tutta la sua vicenda non ha fatto altro che sfuggire a questo, ed è sempre stato perseguitato da Dio, nel senso che appunto dice la terza Lamentazione … Dunque la crocifissione va interpretata nella chiave dell’elezione: è la suprema manifestazione dell’elezione di Dio… La crocifissione è l’elezione è l’elezione è la crocifissione! Detto questo è detto tutto: milioni di problemi, anche i più densi, della teologia di oggi, si dissolvono di fronte a questo.
L’amore crocifisso ci sollecita a chiederci quanto abbiamo avuto consapevolezza del doppio segno che è stato posto sopra di noi con il battesimo… il problema non deve essere affrontato dal punto di vista della adesione volontaria, della volontà umana consensuale a questo atto; il problema è un altro: capire che il battesimo è un’elezione preveniente che sigilla una creatura col segno della croce! Certo il crocifisso non è solo: è nel mezzo del dolore del mondo. Sì, i cristiani non sono i soli che soffrono… Ma questa società cristiana, che cerca il benessere credendo così di sfuggire alla croce, è segnata da un sigillo di croce.
Anche nel momento della concentrazione suprema della sofferenza, perché è la concentrazione suprema dell’elezione, Gesù non è solo, è in mezzo ad altri due crocifissi, è in mezzo al popolo dei crocifissi di tutta la terra e di tutte le età. La diversa reazione dei con-crocifissi con lui di fronte al mistero della sofferenza in sé e in quell’uomo, propone subito il dilemma: la sofferenza ha due facce, una che salva, una che non salva. Dal punto di vista della sofferenza in sé, tutti e tre sono crocifissi, dal punto di vista del risultato e dell’efficacia, diverso è il segno per l’uno e per l’altro dei due con-crocifissi, in dipendenza unicamente da una cosa: il riconoscimento dell’eletto. Quindi, nemmeno chi è sotto il peso della croce, ci dobbiamo dire, è sicuro della salvezza, a seconda del segno che dà a questa sofferenza in rapporto a Gesù.
Bisogna che sia innalzato il figlio dell’uomo… perché chiunque crede in lui sia salvato
Dunque questo amore crocifisso è per gli altri generante, costituente… è un amore tutto proiettato verso gli altri, creatore rispetto agli altri. La sofferenza non lo ripiega su di sé, Gesù sente anzi veramente che quella è la sua ora, l’ora in cui, più che mai, egli, Figlio di Dio fatto uomo, è il creatore dell’universo, è il creatore della nuova creazione: E predispone tutto un ordine nuovo di generazione soprannaturale, costituisce nuovi rapporti di generanti e di generati. Più che mai, in questo momento, è un amore proiettato verso la generazione di altri nella sfera di Dio… … e questo dice a noi che proprio quello è il momento in cui se Iddio ce ne ritiene degni, diventiamo generanti… Questo è il momento discriminante la verità o la non verità della nostra vita… Questo è il momento che in modo supremo condiziona tutto il resto, e condiziona proprio in radice la risposta che noi abbiamo creduto di dover dare alla scelta esplicita fatta da parte del Signore… Altrimenti nulla ha senso…
Il segno che salva
(ha mandato il Figlio nel mondo … perché il mondo sia salvato per mezzo di lui!).
Se noi non riusciamo ad accogliere il dono di Dio, il dono di una sofferenza che ci consenta di essere in quel momento meno chiusi su di noi e più aperti alle potenze nuove di generazione che proprio in quel momento il Signore ci consente di avere, la nostra vita non ha senso… E questo tra l’altro ci impedirebbe di adempiere la nostra vera funzione , ce ne distoglie, ci fa invertire i rapporti e le proporzioni delle cose; ci rende anche meno pacifico il nostro convivere, perché concentrando maggiormente la nostra attenzione su altre cose importanti ma strumentali e meno direttamente su questa che è l’assoluto, ci fa più facilmente trovare diversità di opinioni, com’è ovvio. Ma se noi fossimo tutti d’accordo, in modo esplicito, senza ritegni e senza falsi pudori, che in fondo l’unica cosa che veramente dobbiamo fare è partecipare alla sete del Signore per la salvezza nostra e degli altri, sarebbe tanto più facile trovarci tutti d’accordo sempre. Perché, momento per momento, non ci sarebbe altro da fare che accettare la sofferenza che il Signore ci manda e perfino quella che ci procuriamo reciprocamente, perché anche quella diventa perfettamente giustificata e trova la sua ragione e la sua efficacia salvifica.

[i testi in corsivo sono presi di peso da G. DOSSETTI, Omelie e istruzioni pasquali, Paoline, pag 239ss passim – convinto che non avrei potuto dire meglio, in così poche righe,… su un tema così “bruciante” e centrale! E me ne scuso.]
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