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venerdì 5 settembre 2008

Domanderò conto a te... dell’altro

La prospettiva a cui le letture di questa ventitreesima domenica del tempo ordinario ci introducono, è quella che Ezechiele esprime nei termini del «domanderò conto a te»... dell’altro.
Ma come – risponderebbe Caino - «Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4,9): che c’entro io con lui?
Tanto più se per “fratello” non si intende solo quello di sangue (o – per estensione semantica – l’amico, il famigliare, colui al quale si è legato il proprio destino), ma il fratello-umano, colui cioè che, solo per il fatto di essere uomo, mi è fratello...
E, come se non bastasse... non solo il fratello-umano “buono”, ma principalmente quello “malvagio”: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te»!
Che cosa può voler dire allora questa parola che il Signore rivolge a Ezechiele e che Gesù riprende nel vangelo di Matteo? Qual è l’orizzonte di senso che la parola di Dio sta qui delineando? Sarà davvero corretta la prima impressione che ci danno queste parole, e cioè che qui è proposto un modo di guardare alla vita che riconosce in ogni volto un fratello?
Ma è davvero possibile? E come negare che immediatamente ci sale alla gola il pensiero che siamo di fronte ad un’utopia ingenua? Certo... sarebbe bello... ma la storia dell’umanità (e la nostra) sono lì a testimoniare in modo ineludibile l’impossibilità di questa fraternità autentica... sempre astrattamente desiderata da tutti, certo, ma troppo estranea alle dinamiche di possesso e potere che animano il nostro mondo, e troppo scardinante i loro fondamenti per poter essere davvero perseguita...
Senza contare poi che, ad un’analisi un po’ più approfondita, che tenta di andare al di là della prima impressione, appare subito come siano scandalizzanti le conseguenze di ciò che la parola di Dio propone: «pienezza della Legge è la carità». Questa logica infatti fa venir meno proprio le nostre così rassicuranti classificazioni (colpevoli/innocenti; buoni/cattivi; giusti/ingiusti; benedetti/maledetti; sacri/profani; consacrati/dissacrati...), che hanno lo scopo di ordinare il mondo e regolarizzarlo... orchestrandolo in una giustizia retributiva che, per far salvo l’ordine costituito (i privilegi di alcuni), annienta le singolarità di ciascuno, fino all’amara constatazione che davvero non tutte le vite hanno lo stesso valore.
E in proposito... un episodio emblematico, che forse, proprio perché legato alla concretezza della vita quotidiana, dice meglio di qualsiasi riflessione, il contrasto tra la logica del mondo e quella del vangelo.
In occasione della riapertura dell’anno scolastico il direttore di una scuola, nel suo discorso di saluto ai professori, ha esordito riferendo di un libro che stava leggendo: il racconto della madre di un ragazzo che in America si è reso protagonista di una delle stragi nei campus. Suo figlio ha impiegato 18 minuti per uccidere compagni e professori: 18 minuti di follia... E sua madre si chiedeva: “Quante cose si possono fare in 18 minuti? Se io mi dimenticassi di mio figlio, quando da bambino andavamo al mare, o quando giocava e rideva, quando si sporcava e lo lavavo, quando studiava e piangeva... lo ridurrei a quei 18 minuti...
Ma la sua vita non sono quei 18 minuti!”...
E il direttore commentava: è un esempio un po’ forte, ma la logica di questa madre, deve essere la nostra con i nostri allievi: non possiamo ridurli al loro voto, alle loro mancanze, alla loro impertinenza... Sono persone ed è in questa qualità umana e che noi educatori non dobbiamo mai smettere di guardarli!
Ecco: questa è la logica delle letture di questa domenica, la logica evangelica tout court: l’altro, nel mio sguardo, non può mai essere menomato della sua umanità, del suo volto di uomo e dunque di fratello, neanche se lui stesso si auto-dis-umanizza! E ogni volta che per indifferenza, stanchezza, noia, nervosismo, vendetta, pretesa di giustizia, cattiveria, razzismo (ecc, ecc, ecc) lo si priva di questa sua caratura di uomo e di fratello, è il Regno stesso di Dio, il mondo come Dio lo vuole, il mondo come Dio lo guarda, che retrocede...
Ma, se pur questo è vero, rimane inevitabile l’obiezione, che una professoressa ha rivolto al suddetto direttore: “sì, ma è difficile...”. E come darle torto?
Come si fa a guardare ad alcuni “malvagi” con questi occhi? E quante volte si reagisce di fronte all’idea di un Dio che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45), a un Dio che sa guardare con questi occhi ogni uomo? Anche il mio nemico? Anche quello che «sarebbe meglio che non fosse mai nato» (Mt 26,24)?
È difficile guardare con questi occhi e mantenere questo sguardo su ogni figlio di questo mondo...
Ma sarà stato difficile anche per la mamma di quel ragazzo del campus... Eppure lei è riuscita a non ridurlo a quei 18 minuti, perché il suo sguardo di madre lo custodisce sempre nella sua identità di figlio, di uomo...
È quello che riesce anche a noi con i nostri: che siano figli, amici, fratelli, amanti...
Ma è proprio qui che si innesta la proposta evangelica: questa soglia dell’amore dei nostri chiede di essere superata, per accedere all’amore tendenziale per tutti. Non che l’amore per i nostri vada castrato, anzi: è la matrice dove impariamo la dedizione, nella persuasione (da cui non si può più tornare indietro quando la si sperimenta) che solo nell’amore si può accedere all’inaccessibilità di ciascuno, Dio compreso! Ma che appunto deve farsi matrice per l’amore a tutti, perché quello sguardo sia lo sguardo con cui guardiamo tutti.
È indubbio che storicamente ogni sguardo d’amore è segnato dall’innato privilegio per i suoi, ma esso contiene già in germe l’evangelica possibilità di essere grembo di bene per tutti. Anzi, quest’ultima connotazione è possibile solo se ricalcata sulla matrice originaria e introiettata dell’amore per alcuni, o per uno.
Tutti partiamo dall’amore che sgorga per quelli che ci viene facile amare. Eppure se rimane chiuso lì, si mortifica (termine che ha in sé la radice della morte) nelle logiche della competizione, della gelosia, della salvaguardia dei nostri (che implica necessariamente il sacrificio dei figli degli altri).
L’amore evangelico invece è quello che a partire dalla grammatica dell’amore imparata sul terreno dei propri figli, dei propri prediletti, arriva a dire con Etty Hillesum: «…tutte le pene notturne e le solitudini di un’umanità sofferente attraversano il mio piccolo cuore e lo fanno dolorare. [...] L’unica cosa che si può fare è offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire».
Perché va rotto l’istintivo «pensare che l’amore sia difficile perché la gente è ostica o poco amabile, ci rifiuta…è cattiva. Questa assurda ricerca del capro espiatorio ci blocca la sorgente vera dell’amore: “sotterrata” dalle macerie…» [p.Giuliano Bettati, ocd], che è la stessa esperienza di Etty: «Qui molti sentono languire il proprio amore per l’umanità, perché questo amore non è nutrito dall’esterno. Dicono che la gente di Werstbork (e di qualsiasi altro posto) non ti offre molte occasioni di amarla. Qualcuno ha detto: “La massa è un orribile mostro, i singoli individui fanno compassione”. Ma ho dovuto ripetutamente costatare in me stessa che non esiste nessun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci…».
È a questa fornace interiore, generatrice di ardore elementare che dunque ci si deve dedicare: usando come combustibile la consapevolezza che noi per primi siamo guardati così, ingiustificatamente, dal Signore e da chi ci ama, e sprigionando l’energia diffusiva dell’«Amerai il tuo prossimo come te stesso», che – come ricorda Sequeri – Paolo ha mirabilmente delineato: «Rileggiamo, con questo sguardo, le lettere di Paolo. La vedete la fitta trama di affezioni e di passioni, di attenzioni e di preghiere, nelle quali Paolo incalza i suoi fino alle lacrime, perché portino gli uni i pesi degli altri? Questa trama collega punti minuscoli: irretisce di amori, che riscattano i dimenticati della terra, una enorme porzione dell’Impero ostile. Ed è solo l’inizio. La preghiera umile e infuocata di Paolo immette in questa nervatura corrente ad alta tensione, che ridicolizza le distanze geografiche, i confini etnici, le geometrie politiche. Brucia distanze ed estraneità. Brucia anche – di vergogna – l’astrusità di futili contese di legittimazione e le chiusure di autoreferenzialità corporativa, che perdono di vista l’ortodossia della comunione e della missione: la dilatazione della fraternità a tutti coloro per il quali 'il Cristo è morto'. Riempirei con le loro foto la chiesa dove preghiamo, fosse per me. [...] La notte ci si illuminerebbe, con questi capillari della fraternità in tensione. E crepe nel cemento post-cristiano della nostra indifferenza ingorda e risentita, si aprirebbero».
[P.A. Sequeri, Nello stile dell’apostolo Paolo. Preghiera vera corrente ad alta tensione, Avvenire, 04 settembre 2008].

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