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martedì 9 dicembre 2008

Laicità e cristianesimo di Giuseppe Ruggeri

In mezzo al guado
Non è mia intenzione analizzare le varie modalità in cui il cristianesimo si è posto davanti al fenomeno della laicità: da origine di essa (ricordiamo tutti il classico di Gorges de Lagarde, La naissance de l’esprit laîque au déclin du Moyen âge) sino ad oppositore. E in una siffatta analisi storica occorrerebbe poi tener conto che l’unico discorso adeguato è quello che parla di cristianesimi al plurale: non solo di cristianesimi cattolico, luterano, calvinista, anglicano, ma anche francese, tedesco, italiano, spagnolo, etc. Scegliendo la prospettiva cattolica, io cercherò invece di partire dalla costatazione che, nei rapporti tra cristianesimo e laicità, sia necessaria una diversa prassi rispetto all’equilibrio passato e vigente. Dobbiamo cioè prendere atto che siamo in mezzo al guado: all’altra sponda ci aspetta qualcosa di diverso della sponda che abbiamo abbandonato.
La figura del passato rapporto, all’interno delle società occidentali, era sostanzialmente prodotta dalla tensione che corre fra due poli. Il primo è stato fissato a livello teorico dai politiques e dagli illuministi, ma già alla fine del Seicento aveva raggiunto la sua forma sufficientemente definitiva in Locke: lo Stato, fermo restando il nucleo di valori necessari alla convivenza ordinata dei cittadini, è incompetente di fronte alla diversità dei culti presenti all’interno dei propri confini e delle convinzioni attorno a cui essi si costituiscono come libere associazioni. L’altro polo invece è stato fissato nel cosiddetto diritto pubblico ecclesiastico elaborato durante l’Ottocento: la chiesa non è depositaria solo della conoscenza del fine ultimo soprannaturale dell’uomo e dei mezzi per raggiungerlo, ma altresì della conoscenza dell’ordine naturale della realtà e quindi vigila, per un mandato ricevuto nella rivelazione stessa sulla cui base essa si costituisce, perché questo non sia leso.
All’interno del primo popolo, il termine di laicità, come sostantivo astratto, aveva fatto la sua apparizione con il processo di radicalizzazione della separazione tra chiesa e stato che porterà, dopo il 1870, anzitutto in Francia, alle nuove leggi sulla scuola e sulla sua neutralità nei confronti delle convinzioni religiose. Esso registra la sua prima “entrata” nel Supplément del 1871 del dizionario della lingua francese del Littré, che ne definisce il significato come “Caractère laïque”, avendo definito in precedenza il laico come colui “qui n’est ni ecclésiastique ni religieux”.
La chiesa cattolica da parte sua non si era mai rassegnata alla “separazione”. Infatti, nonostante a metà del secolo passato si sia aperta con il Vaticano II ad una valutazione positiva della secolarizzazione, non ha mai di fatto cessato di far valere la propria pretesa soprattutto in quei paesi nei quali l’opinione pubblica è fortemente segnata dalla sua presenza (si ricordino in Italia i pronunciamenti dei vescovi in occasione dei referendum sul divorzio e sull’aborto).
Ma questa tensione, più o meno controllata perché non raggiungesse un grado di calore insostenibile, registra adesso uno squilibrio notevole, nella misura in cui si è modificata la fonte di energia del polo civile-statuale. Il fatto, se valgono le date di pubblicazione degli scritti, non è un risultato della nuova situazione di multiculturalismo creatasi con le migrazioni recenti dei popoli dal sud e dall’est vero l’Occidente europeo e nordamericano. Esso si innesta piuttosto nell’evoluzione della società secolarizzate. Infatti il cosiddetto Böckenförde-Diktum risale a uno scritto del 1967 (Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation): “Lo Stato libertario e secolarizzato vive di presupposti che da se stesso non può garantire. Questo è il grande rischio nel quale, a causa della libertà, esso si è messo. Come Stato libertario esso può sussistere solo se la libertà che esso garantisce ai suoi cittadini si regola dall’interno, a partire dalla sostanza morale del singolo e dell’omogeneità della società. Ma d’altra parte lo Stato non può cercare di garantire queste energie di regolazione interna a partire da sé, cioè con i mezzi della costrizione giuridica e del comando autoritativo, senza rinunciare al suo carattere libertario e ricadere - su un piano secolarizzato - in quella pretesa totalitaria dalla quale esso aveva fatto uscire nelle guerre civili confessionali».
Credo che, come è apparso ancora nella recente pubblicistica italiana (vedi la reazione di Scalfari del 23 luglio scorso all’ennesimo intervento di Habermas sull’argomento, pubblicato in Reset e ripreso su Repubblica del 19 luglio), si faccia fatica a cogliere le implicanze di quell’affermazione. Il detto di Böckenförde non è un’affermazione di principio, ma è la costatazione di un dato: la frantumazione crescente delle società post-secolarizzate mette alla luce un vuoto a livello statuale, giacché esse non appaiono in grado di generare in misura sufficiente quei valori comuni che fondano qualsiasi patriottismo costituzionale oppure, come diceva il vecchio Rousseau, quei “sentimenti di sociabilità, senza dei quali sarebbe impossibile essere un buon cittadino o un soggetto fedele. Il sovrano (leggasi oggi: la carta costituzionale) non può obbligare qualcuno a crederli, può tuttavia bandirlo dallo Stato, come incapace di stare in società (= insociable), di amare sinceramente le leggi, la giustizia e di immolare, secondo la bisogna, la propria vita al suo dovere».
Non voglio affatto entrare nella discussione sul senso della secolarizzazione, sui suoi sviluppi attuali e via dicendo. Mi limito a dire che la richiesta alle religioni di svolgere la funzione di “religione civile”, di centrale cioè dei valori che impediscano la frantumazione sociale, non è fatta anzitutto dalle religioni stesse, ma sorge all’interno della società postsecolare. Le chiese e le centrali religiose oggi cioè intervengono perché chiamate in causa. Che in questa richiesta e nelle conseguente risposta delle chiese e delle religioni ci sia un’eterogenesi di fini è altrettanto vero e forse è proprio questo il nodo dei vari problemi. Se cioè da parte dello Stato non può comunque mai essere messa in discussione la propria totale autonomia, per cui un eventuale apporto esterno va comunque da esso filtrato e controllato, le religioni tendono in forza dell’assolutezza dei propri convincimenti a relativizzare questa autonomia. Proprio quest’eterogenesi di fini impone allora quello che Habermas chiama un mutuo apprendistato. Comunque dovrebbe esser chiaro il primo dato da cui vorrei partire: esiste un’effettiva richiesta di senso da parte delle società postsecolari in misura tale da mettere in discussione la neutralità dello Stato rispetto al fattore religioso e, in concreto, all’interno dell’Occidente, al cristianesimo. Ma, e questo mi sembra il punto ancora più delicato, sul quale vorrei particolarmente fermarmi, quella richiesta rischia altresì di mettere in discussione la missione delle chiese cristiane, se esse non “apprendono” a loro volta a leggere i segni dei tempi, il senso di ciò che accade alla luce del vangelo.
Il primo passo
In un contesto ormai diverso da quello in cui si collocava il dictum di Böckenförde, il concetto di laicità dello Stato ha subito una significativa evoluzione almeno nel contesto italiano: da semplice connotazione dell’incompetenza e della neutralità dello Stato essa si è mutata in garanzia dell’espressione del pluralismo religioso nell’ambito delle relazioni pubbliche. Questo è il senso della sentenza della Corte costituzionale (n. 203 del 1989) e della sua recezione nella giurisprudenza italiana. La sentenza infatti recita che i “valori di libertà religiosa nella duplice specificazione di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione... concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20 della Costituzione), a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica». Più oltre la stessa sentenza (n. 203 del 1989) ribadisce ancora che “Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Questo passaggio nella concezione e nella pratica della laicità, dalla neutralità alla garanzia e alla tutela delle differenze, è stato confermato dalla giurisprudenza ordinaria fino al punto che il Tribunale di Roma con sentenza del 26 aprile 1991 (Giur.it. 1995, p. 956s.) stabiliva che anche “alle associazioni non riconosciute ... deve essere riconosciuta la titolarità di situazioni giuridiche soggettive tutelabili in via giudiziaria, ivi compresi i c.d. diritti della personalità, tra i quali sono da ricomprendere quello della denominazione e quello dei simboli”. Da parte sua la Corte costituzionale (sent. del 24 luglio 1990 n. 365) aveva già ribadito che la portata del principio fondamentale dell’autonomia della religione espresso nell’art. 5 della Costituzione, “implica che non può non ritenersi minimale dell’autonomia della religione il potere di scegliere i segni più idonei a distinguere l’identità stessa della collettività che essa rappresenta”.
Mi azzardo da profano a commentare queste sentenze. Esse non si pongono in funzione della “debolezza” dello stato libertario postsecolare, come era il caso del dictum di Böckenförde, ma nel contesto del pluralismo religioso. In esse non si tratta certo del formale riconoscimento delle religioni a svolgere quella funzione di alimentazione dei valori comuni di cui la società ha bisogno per evitare la propria frammentazione, ché, al contrario, proprio la tutela delle differenze costituzionalmente garantita potrebbe incentivare la frammentazione stessa. Resta nondimento il fatto che lo Stato, pur non confessando la propria debolezza nella produzione di valori comuni, garantendo la libera espressione negli spazi pubblici della presenza delle varie religioni (ad es. nella scuola statale), riconosce implicitamente la funzione educativa che le centrali religiose svolgono nei confronti del tessuto sociale. Nella situazione italiana in particolare mi pare che abbiamo assistito ad una estensione per così dire di questo riconoscimento, non riservato più alla sola religione cattolica, ma anche alle altre denominazioni religiose. L’aporia resta e, proprio in quanto tale, svela una richiesta implicita: così come lo Stato ai fini della pacifica convivenza dei cittadini si assume la tutela delle differenze, queste a loro volta sono chiamate ad esplicitare la loro presenza in funzione della convivenza pacifica stessa, subordinando quindi allo scopo perseguito dallo Stato ogni eventuale loro pretesa in contrasto con questa esigenza, pena il decadimento del loro diritto alla libera espressione nello spazio pubblico.
Il multiculturalismo religioso ha costretto per così dire lo Stato ad apprendere una diversa modalità della propria laicità, più ricca e articolata rispetto alla minimale istanza della propria autonomia. Resta da sapere se le religioni sono capaci di “apprendere” a loro volta ad abitare questo spazio. Debbono esse riproporre il vecchio connubio tra religione e società, quello di religione civile, oppure reimmaginare il proprio ruolo? E qualora fosse questa, quella della religione civile, il ruolo delle varie centrali religiose, la forma che debbono assumere è quella della costruzione di un’etica comune (il Weltethos di Hans Küng), oppure qualcosa di diverso? La mia riflessione qui, essendo quella di un teologo cattolico, si restringe di fatto ad un solo ambito, quello cristiano.
I diversi volti della religione civile
Il cristianesimo ha progressivamente ereditato, nel corso del IV secolo, la funzione di religione civile che la religione greco-romana svolgeva nella società di allora. Quando il cristianesimo venne man mano soppiantando la funzione pubblica che svolgeva in seno all’impero romano la religione tradizionale, è chiaro che dovette fare i conti con la necessità di riconfigurarsi nel suo rapporto con la società, un rapporto che non poteva essere quello di una religione minoritaria e per di più “fuori legge”, com’era stata fino agli inizi del IV secolo. Questa funzione venne svolta, prima dell’età moderna, nelle diverse forme del regime di “cristianità”. La “sinfonia” tra chiesa e potere imperiale dell’Oriente cristiano, non è esattamente quella dell’epoca carolingia in Occidente, né quella ierocratica di Innocenzo III o quella delle “nazioni” cristiane tardomedievali. Possiamo tuttavia dire che il nesso essenziale tra cristianesimo e società civile rimane anche in epoca moderna, nell’epoca del confessionalismo (Cuius regio et religio: Pace di Augusta del 1555) e delle riforme settecentesche, quando i principi prendono l’iniziativa di rinnovare essi stessi la disciplina esterna delle chiese perché si adeguassero alle mutate situazioni storiche, a cominciare dal caso estremo in Russia di Pietro il Grande. Si davano certamente tensioni tra chiesa e stato nella gestione di questa funzione, ma la funzione era comunque ascritta al cristianesimo storico nella forma concreta che esso aveva assunto all’interno di ogni società.
Nella storia occidentale ad un certo punto avviene tuttavia una cesura che si manifesta in una duplice forma. Le chiese infatti, siano esse quelle protestanti che quella cattolica, perdono il controllo della funzione pubblica della dimensione religiosa. Ma ciò avviene diversamente nell’Europa che man mano farà suoi i risultati della Rivoluzione francese, rispetto all’America. In Europa gli Illuministi avevano anticipato in questo caso il futuro. Infatti, prima ancora che le rivoluzioni settecentesche traducessero in realtà politica la nuova concezione della “religione civile”, erano stati loro a delinearne il nuovo soggetto responsabile nello stato. E questo avveniva perché nessuno più degli Illuministi, Voltaire in prima fila, era convinto della funzione necessaria della religione per la coesione sociale. Non si trattava però della religione dogmatica o dei preti - era questo il loro vocabolario - ma di una religione sottratta al controllo delle chiese. In America, prima ancora che la Rivoluzione del 1789 in Europa traducesse in atto la previsione illuminista, non fu tuttavia lo stato ad assumersi la gestione della religione civile. La memoria delle persecuzioni ad opera della chiesa inglese di stato era troppo viva nei padri fondatori perché essi potessero pensare di affidare allo stato qualsiasi responsabilità, sia pure larvata, nella gestione della religione. Il primo Emendamento della Costituzione Americana stabiliva perciò l’incompetenza del Congresso ad emettere leggi che riguardassero o l’istaurazione della religione o la proibizione del suo libero esercizio. Ma questo stava a significare, nella situazione di pluralismo religioso che connotò fin dagli inizi la storia degli Stati Uniti d’America, che l’insieme dei valori che fondavano la coesione sociale e che variamente venivano collegati alla fede biblica, aveva una sua esistenza autonoma nel consenso dei vari componenti la società civile. L’una e l’altra forma tuttavia entrarono variamente in crisi per lo meno a ridosso della seconda guerra mondiale. Sta qui la pertinenza del detto citato sopra di Böckenförde che fotografa la crisi del ‟patriottismo costituzionale”. Ma già Courtney Murray in un articolo del 1955 si rendeva conto che non esiste più negli USA quell’”idioma comune” che aveva permesso il sorgere della Costituzione americana e che era costituito da una “filosofia pubblica” che includeva “un intero corpo di concetti, principi e precetti concernenti la vita politica dell’uomo”.
La chiesa cattolica nel Vaticano II, soprattutto con la Dichiarazione sulla libertà religiosa, fece un’operazione di estrema importanza, che tuttavia saldava i conti con il passato più che attrezzarla ai compiti che già allora si profilavano all’orizzonte. La scelta più gravida di conseguenze fu quella della prospettiva di filosofia civile fondamentalmente ispirata da Cortney Murray e Maritain. In maniera un pò brutale potremmo dire che venne accettata la soluzione di Locke: lo Stato è tollerante, le chiese al loro interno possono essere intolleranti (cf. la ricerca di Silvia Scatena (La fatica della libertà, Il Mulino, Bologna). Escludendo una prospettiva teologica, perché essa avrebbe chiamato in causa la dottrina eleborata nel corso dell’Ottocento (Paolo VI viveva nella paura che gli si potesse addebitare una rottura con la dottrina “tradizionale”), di fatto la chiesa cattolica a livello magisteriale omise, nel trattare la problematica della libertà religiosa, di ri-pensarsi anche nei suoi equilibri interni, quelli imposti dalla libertà stessa e dell’assoluta gratuità dell’atto di fede. E non è un caso che a mio avviso, di fronte alla richiesta che adesso sorge dalla società postsecolare essa rispolveri, con la variante del rispetto del pluralismo democratico che ha assunto la sua formulazione più esplicita nel famoso dialogo tra Ratzinger e Habermas, i termini dell’ottocentesco diritto pubblico ecclesiastico. Esistono principi “non negoziabili”, quelli del diritto naturale, che la chiesa è tenuta a far valere anche nella società attuale.

È possibile una presenza evangelica?
Ho già accennato ad una soluzione possibile che sembra accettabile oggi alle varie parti: quella della costruzione di un’etica comune, in cui di fatto convergerebbero tutte le religioni mondiali e la stessa etica autonoma della cultura secolarizzata, sbracciandosi tutti assieme, per così dire, nel dare una mano al collasso di quest’etica stessa. Non voglio discutere il fatto che questo in qualche modo, al di là della consapevolezza voluta delle religioni, già di fatto avvenga. Anzi la convinzione di questo fatto, il suo carattere scontato, mi fa capire che non va ricercato qui lo snodo del problema. Inoltre va fatta a questo proposito una considerazione: la dimensione etica di ogni religione è inseparabile e fa tutt’uno con le convinzioni religiose più profonde. E sono queste convinzioni più profonde che condizionano e fungono da filtro all’etica. Le religioni non fanno opera di distillazione tra etica e religione. E quindi difficilmente presteranno in maniera asettica la loro collaborazione. Sarebbe facile avvalorare questa considerazione con un’analisi del rapporto tra etica comune e principi “rivelati” non solo dell’Islam, ma della storia stessa del cristianesimo. Lo stesso dibattito protestante su Legge e Vangelo iniziato a partire da Barth nel Novecento, a mio avviso lo prova a sufficienza. Ma, al di là dei dibattiti teologici, è la storia concreta che dimostra come la violenza faccia parte della storia delle religioni nella difesa dei loro principi. Abbandonando quindi ogni considerazione generica mi limito a qualche riflessione interna alla tradizione cristiana. Una soluzione posta oggi dalla situazione postsecolare va affrontata dai cristiani all’interno di una lettura credente della storia come luogo dell’interpellazione di Dio. Il parlare di Dio all’uomo, nella convinzione dei cristiani, non è solo quello del passato, ma anche quello del presente. Se abbandoniamo una lettura catastrofica della storia stessa, se ne facciamo il luogo dove vivere la speranza degli uomini caricandosi delle sue contraddizioni, allora la richiesta di una “religione civile” che viene dalle società postsecolari va interpretata criticamente. Si tratta di una richiesta che viene fatta adesso, dopo la parentesi di una fase storica, dall’Ottocento fino ad una gran parte del Novecento, in cui la laicità si è declinata come tolleranza neutrale rispetto al fatto religioso. Adesso, questa laicità, al di là di questa semplice tolleranza, viene declinata come garanzia del pluralismo delle presenze negli spazi pubblici della convivenza civile. In questa sua connotazione essa chiede implicitamente ai vari soggetti religiosi un contributo alla costruzione di una convivenza nella pace. Come lo storpio al tempio questa società chiede l’elemosina, ma non del soldo, bensì di un supplemento d’anima. O come il paralitico di Cafarnao che viene calato dal tetto per essere guarito, la società civile chiede di essere aiutata a camminare. Ma né lo storpio nè il paralitico ricevono quello che chiedono, in ambedue i racconti neotestamentari, ma qualcosa di più. Il contributo del cristianesimo alla storia degli uomini è il vangelo di Gesù Cristo, nella sua specificità, senza sconti. Ché questo vangelo assuma e contenga quindi alcuni principi di etica comune, va da sé. Che coloro i quali se ne lasciano conquistare abbiano anche una precisa responsabilità etica nei confronti della società va anche da sé. Se tuttavia si vuole approfittare della richiesta che viene fatta dalla società civile per riprendere una vecchia posizione di privilegio, allora si svilisce e riduce il vangelo a prospettiva etica e lo si strumentalizza in funzione dell’autoaffermazione delle chiese. Il senso profondo della richiesta da parte della società è se le varie centrali religiose, riconoscendo la totale autonomia, la laicità, della convivenza sociale in un’epoca postsecolare e multiculturale, possano collocarsi creativamente dentro il divenire di una società sempre più frantumata. C’è in questa richiesta qualcosa che mette in discussione la pretesa religiosa sull’etica. Le centrali religiose sono chiamate cioè a prestare un contributo per la formazione di un consenso che esse non possono controllare o dominare. I primi cristiani, nella loro testimonianza pubblica, non si sentivano responsabili dei destini del mondo. “Questo” mondo e i suoi elementi erano infatti destinati a finire e la salvezza stava “altrove” (l’osservazione è di von Campenhausen). I cristiani di oggi invece accettano la responsabilità comune per una umanizzazione della società mondana e delle sue strutture. Ma questa responsabilità non è più quella configurata secondo i vari regimi di cristianità preottocenteschi. Essa va cioè esercitata non solo “laicamente”, bensì anche “cristianamente”. Si tratta di sapere se la loro fede è in grado di mettersi al servizio di qualcosa che essa non può e non deve integrare, fuori quindi dall’orizzonte disegnato dal diritto pubblico ecclesiastico dell’Ottocento all’insegna del potere indiretto della chiesa sulla società.
Il compito
Di proposito ho evitato di procedere fino adesso da definizioni di principio e ho scelto un registro prevalentemente narrativo. La radice ultima dei problemi che sorgono nel chiarire il nesso tra cristianesimo e laicità sta nel rapporto che entrambe le due grandezze hanno con l’etica. Giacché la laicità, come autosufficienza dello Stato nel definire i rapporti tra i cittadini, contiene un riferimento a valori condivisi, quelli che Rousseau chiamava i sentimenti di sociabilità, e il vangelo a sua volta implica un’etica, se non altro nella formula paolina del “portare gli uni i pesi degli altri per adempiere la legge di Cristo”. Usando tuttavia il termine etica noi spesso lo identifichiamo nell’uno e nell’altro caso con un determinato sistema di norme, ignorando che la dimensione etica dell’uomo resta per sé indeterminata e che solo nella storia l’uomo la esplica dentro obbligazioni precise (questo è almeno a mio avviso il pensiero di Tommaso, ma anche quello di Kant). La dimensione etica dell’uomo non vive se non in una forma determinata, ma trascende questa forma. Si pensi soltanto al rispetto della vita che assume varie forme nel diritto di guerra a partire dalle forme arcaico-religiose dello herem e fino alle convenzioni di Ginevra, nella difesa dell’innocente, nell’uso della violenza riservata allo Stato etc.
Il vangelo del Regno predicato da Gesù e dalla chiesa, se implica un’etica e se storicamente assume la configurazione storica dei codici etici (ricordo soltanto i codici familiari assunti da Paolo o l’istituto della schiavitù così come di fatto è stato per le meno tollerato dalla chiesa) tuttavia trascende questa configurazione e al tempo stesso la reinterpreta. Le chiese cristiane debbono questo e nient’altro agli uomini. Per le chiese si tratta di offrire alle società postsecolari quella continua risignificazione dell’etica comune, storicamente determinata, risignificazione che è possibile a partire dalla vita in Cristo. Ma questo implica che esse per un verso offrano questa loro testimonianza, che è non solo prassi ma altresì ermeneutica e quindi dottrina, e per altro verso la offrano secondo lo stile specifico che è essenziale alla testimonianza stessa del vangelo: la misericordia, la gratuità, la libertà. L’etica degli uomini non sorge dal vangelo, ma è risignificata dal vangelo. Senza questa risignificazione (esemplarmente espressa nella lettera di Paolo a Filemone a proposito dell’istituto della schiavitù) l’apporto della chiesa è nullo. Il compito così delineato presuppone tuttavia alcune condizioni: la povertà (nel senso medievale del termine dove il pauper si oppone al potens) in primo luogo e la conversione continua della chiesa alle esigenze del vangelo nel tempo degli uomini e delle donne. Tutto questo può apparire utopico. Si aggiuna inoltre un’altra complicazione che è di sempre. Infatti il vangelo predicato delle chiese, storicamente e sempre, vive da “estraneo” dentro un sostrato religioso (quello dell’ebraismo prima, poi quello della religiosità greco-romana e via via fino ai nostri giorni dentro quella dimensione religiosa segnata dalla crisi della società secolare). Come fa una chiesa a non essere una “chiesa di popolo”, disattenta quindi alle esigenze religiose della cultura in cui si colloca? Come fa ad essere “povera” quando la religione stessa è sempre storicamente componente costitutiva del potere?
L’urgenza della povertà come via ecclesiae è stata proclamata in un sofferto passo della Lumen gentium, ma è praticamente rimasta lettera morta, anzi spesso censurata, a livello istituzionale. E tuttavia il riconoscimento formale di una presenza povera porta alla costatazione di un’obiettiva tensione fra due stati di cose altrettanto reali nel contesto presente. Il primo è che le chiese, in misura diversa, nella congiuntura attuale, si dimostrano incapaci di sfuggire allo scambio politico che offre loro la società postsecolare. Si pensi alla rappresentazione simbolica di questo scambio in alcune liturgie, come quella dei funerali ai poveri soldati caduti a Nassiria, ma più concretamente alla legislazione scolastica, a quella della famiglia etc. Il secondo, non meno forte, è che le chiese, in quanto luogo della memoria credente di Gesù Messia, offrono realmente la possibilità stessa e l’alimento della testimonianza e della predicazione del vangelo, custodendo così nel proprio seno quell’energia del Regno che offre una speranza al cammino degli uomini e delle donne nella storia della creazione, ricca di mistero, che attende con impazienza la “rivelazione dei figli di Dio”. Utopico è allora soltanto il tentativo di sfuggire alla tensione fra questi due stati di cose.


Cf. adesso l’edizione italiana a cura di M. Nicoletti, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Brescia 2006, che tuttavia qui non viene seguita, soprattutto nella resa di freiheitlich (che Nicoletti traduce con “liberale”, mentre io preferisco “libertario”).
Per una prima introduzione alla problematica storica della “cristianità” mi permetto di rimandare al mio saggio introduttivo in: G. Ruggieri, a cura di, La cattura della fine. Variazioni dell’escatologia in regime di cristianità, Bologna 1992, VII-XXXI.
J. Courtnay Murray, Catholics in America - A creative minority - yes or no?, in Catholic Mind 53 (1955), qui riportato sec. Kenneth L. Grasso, We held these truths: The transformation of American pluralism and the future of American democracy in John Courtenay Murray and the American civil conversation, ed. by R. B. Hunt and K. L. Grasso, Grand Rapids Michigan 1992, 89-115.
Cf. G. Ruggieri, Evangelizzazione e stili ecclesiali. Lumen Gentium 8,3, in Annuncio del Vangelo, forma ecclesiae, a cura di D. Vitali, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, 225-256.

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