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venerdì 5 dicembre 2008

La necessità di un precursore

I testi che la liturgia ci propone per questa seconda domenica di Avvento, in particolare la prima lettura e il Vangelo, ci pongono di fronte alla figura del precursore, alla sua importanza, al suo ruolo, alla sua necessità.
Per quanto riguarda il Libro del profeta Isaia, scelto non a caso dal liturgista proprio perché ripreso dal Vangelo stesso, ci troviamo nei primi versetti del capitolo 40. Questo riferimento, che può suonare semplicemente come un’annotazione puntigliosa, in realtà è necessario per capire il contesto del discorso profetico qui portato avanti. Proprio con questo capitolo 40 infatti si inaugura la produzione di quello che gli studiosi chiamano il Deuteroisaia (il II Isaia), cioè il profeta anonimo vissuto ai tempi dell’esilio in Babilonia (perciò circa II secoli dopo il I Isaia), il cui lavoro è stato poi redazionalmente unito a quello del profeta dell’VIII secolo a.C.
Per capire la situazione storica in cui si collocano le sue parole è utile sapere che «durante l’esilio in Babilonia, l’abbattimento, la sfiducia e la tristezza opprimevano il cuore dei deportati. Ci si domandava se il Signore si fosse dimenticato del suo popolo, se la sua parola contasse ancora, se vi fosse ancora speranza» (Rota Scalabrini don Patrizio, in “Scuola della Parola 1997”).
Ecco dunque l’importanza del profeta: a lui è chiesto di farsi portatore dell’annuncio del Signore: «un annuncio che è “vangelo”, perché porta consolazione a un popolo debole e schiavo». La consolazione consiste proprio nel fatto che «la tribolazione di Gerusalemme è compiuta», il popolo ha sofferto troppo («ha ricevuto il doppio per tutti i suoi peccati»), è l’ora della venuta del Signore.
Compito del profeta (del precursore) è quello di preparare la via di questa venuta.
Quest’ultima immagine la si «capisce meglio se si ricorda come il profeta in quegli anni aveva visto le processioni che si svolgevano a Babilonia durante l’Akitu (capodanno) lungo la Via Sacra, che conduceva fino alla splendida porta della dea Ishtar. Similmente il popolo dovrà concorrere ad approntare una via sacra, una strada piana, diritta, dove potrà camminare, guidato dal Signore, come un esercito guidato dal suo condottiero, come un gregge condotto al pascolo dal suo pastore».
Fuor di metafora perciò si tratterà di preparare il cuore (reso come un terreno accidentato dalle prove, dalle sofferenze, dalle delusioni e dalle infedeltà) all’incontro col Signore.
È proprio in questa preparazione che gioca il suo ruolo fondamentale il profeta/precursore, colui cioè che è reso annunciatore di un paradossale amore, infinitamente potente da un lato («Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio») e tenerissimo dall’altro («porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri»).
«Tale paradosso rivela la natura intima dell’amore di Dio, di una potenza estrema che si nasconde nella debolezza. [...] L’intervento di Dio non sarà quindi sul modello dei trionfatori umani, ma la sua forza si rivelerà nel rispetto profondo della libertà dell’uomo».
Evidentemente, l’associazione di tutto quanto detto finora con la figura del Battista e la venuta di Gesù era troppo forte perché gli evangelisti non la notassero e “sfruttassero”! Ecco perché di Giovanni è esplicitamente detto: «Come sta scritto nel profeta Isaìa: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati».
Ma perché così tanta importanza al ruolo del precursore? Che senso ha soprattutto per noi che conosciamo già Gesù (che potremmo dunque ormai “saltare” i preamboli...)? Perché invece anche liturgicamente (in Avvento sempre ci si sofferma sul Battista) è così sottolineata la necessità di “passare per di qua”?
La risposta – come scrive Bettati p. Giuliano in “Con Marco in cammino verso il Regno” – è che «l’esperienza di Dio non viene mai prima», la nostra conoscenza di Gesù, il nostro contatto con lui sia sempre storico: «Niente noi possiamo avere di non storico». E storico vuol dire carnale, temporale, mescolato a sudore e sangue... Vuol dire – riferito al rapporto col Signore – che esso non è mai scioglibile dalla nostra umanità, fatta anche di limiti, inadeguatezze, stanchezze, ritardi, infedeltà...
L’annuncio del Battista mette in luce proprio questo: il desiderio di arrivare a Lui e, inestricabilmente legato, la nostra impossibilità di produrre questo incontro.
L’esperienza che fa Giovanni infatti è proprio quella di desiderare la venuta del Signore e allo stesso tempo di esserne incolmabilmente distanti. Ecco perché, insieme a tutta una tradizione di asceti, mette in atto tutta una serie di tentativi che dicano il desiderio di colmare questa distanza: vesti di peli di cammello, digiuno, deserto... in una parola «quelle regioni sacre, le possibilità di vita umana che noi riteniamo meno compromesse con la storia, con la malvagità, con la distanza da Dio».
Giovanni Battista infatti ha come prima caratteristica quella di essere il profeta penitente. Questo termine nella Bibbia non ha propriamente il significato di mortificazione che ha assunto ai giorni nostri; piuttosto con penitenza si intende «il tentativo umano – che nasce dalla coscienza di peccato, di inadeguatezza, di distanza da Dio – per riprendere coscienza del luogo del vero obiettivo: Dio, la sua giustizia, la sua pace, la sua fraternità. E di girarsi verso di Lui. Per questo il termine greco dice piuttosto “convertirsi”».
Giovanni vuole dunque preparare il cuore del popolo all’avvento del Messia, convincendosi e convincendolo della sua distanza da Dio e dunque della necessità della conversione. In questo senso il suo annuncio suonerebbe più o meno come un: “Guardate che siamo lontani da Dio, bisogna cercare di arrivarci!”.
È quanto anche noi spesso tentiamo di mettere in atto quando ci accorgiamo che le cose non vanno: facciamo un po’ di violenza su noi stessi in modo da scuoterci e dire: “No. Adesso basta. È ora di cambiare. Di rivolgerci al Signore”.
«Ma la coscienza che c’è dentro è che tutto ciò che l’uomo può fare e che questo istinto di conversione suggerisce, anche violento, è sterile, è inutile. Giovanni Battista ne aveva coscienza acuta. Per questo finisce col dire: “Io battezzo solo con acqua”; ma questa è solo una purificazione esterna, il cuore non cambia: “Dopo di me verrà uno che battezzerà in Spirito Santo e fuoco”». La penitenza dunque è sterile, inutile, addirittura inacidente, se è fine a se stessa, se non mantiene sempre la consapevolezza di essere pedagogica: di servire perciò a preparare sé e gli altri ad accogliere Qualcuno.
Ecco perché il Battista oltre a essere il profeta penitente è anche il profeta “ultimo”, perché «uno che ha ricevuto il Vangelo [l’annuncio del possibile incontro tra Dio e l’uomo per volontà e ad opera di Dio in persona!] non può più illudersi che ci sia ancora spazio per salvarsi con questa penitenza: [...] il Signore ha rivelato che dopo Giovanni Battista le penitenze, se non sono dirette al Signore, non servono a niente, non cambiano il cuore di fronte a Lui. Il Vecchio Testamento è finito con il Battista».
Gesù in Matteo 11,11 ribadisce proprio questo: «Tra i nati di donna non è sorto mai nessuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo nel Regno dei cieli è più grande di lui»: è (solo) il più grande del Vecchio Testamento, non era possibile fare di più, infatti il più piccolo del Nuovo Testamento è più grande di lui. «E si capisce perché: ha ricevuto in regalo Dio nella sua storia, nella sua vita!».
Ma anche per noi, uomini del “dopo Cristo” «Giovanni Battista è contemporaneo, la penitenza, la necessità di conversione, il senso della lontananza da Dio, di sforzo, di coscienza dell’inadeguatezza. [...] Giovanni Battista è una parte necessaria della vita sempre. [Infatti] c’è come un crinale che divide, attraversa i popoli, la storia, la Chiesa, i gruppi, le famiglie e il cuore dell’uomo e che separa e unisce il mondo della necessità e il mondo della grazia, il Vecchio e il Nuovo Testamento. Gesù si è inserito nel tessuto di tutta l’umanità nel paesino di Nazareth, vivendo storicamente, accettando i ritmi biologici, l’economia, la religione, la politica del suo paese; in questa realtà necessaria, dove le cose vanno avanti perché sono sempre andate avanti così o poco diversamente, con la possibilità nuova che noi chiamiamo grazia. Si chiama GRAZIA perché è GRATIS. Non è la conseguenza del meccanismo delle cose, non è la conseguenza dell’economia, né della santità di sua madre, né della bravura del maestro che gli ha insegnato la Bibbia; non è la conseguenza di tutte queste cose, neanche le più alte. Neanche di Giovanni Battista. È un puro regalo. [...] Allora è indispensabile stare a testa alta nelle difficoltà economiche, affettive, politiche, anche ingiuste; facendo penitenza della loro necessaria ingiustizia e portando il peso della loro sterilità. Siamo uomini e nessuno può illudersi di farne a meno. [...] Essere fedeli alla contemporaneità di Giovanni Battista vuol dire allora portare avanti in questa realtà senza disperazione, seppur con tanta sofferenza, l’inutilità, la sterilità, l’ambiguità delle nostre realtà economiche, politiche affettive. [...] Perché il Signore ha portato un’altra parola che riavvolge tutta questa difficile, contraddittoria realtà della storia, la riavvolge nella paternità di Dio e con la sua avventura umana personale ci dice che la risurrezione di tutta questa storia è già decisa. [...] Gesù non è un grande profeta, un grande fondatore di religione... altrimenti lo si confonde con un Giovanni Battista. [...] Gesù è un’altra cosa! È quello che dà la possibilità all’uomo di vivere veramente da uomo».

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