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venerdì 26 dicembre 2008

Saper Vivere è saper morire

La lettura dal libro della Genesi e l’ultima parte del secondo capitolo del vangelo di Luca, ci presentano, in questa prima domenica dopo Natale, le figure di due anziani: Abramo e Simeone.
Entrambi, nei testi, parlano, facendo quasi un bilancio della loro vita, e ciò che colpisce è il contrasto tra le loro parole.
Abramo infatti, sconfortato, si trova ad esclamare davanti al Signore che pure gli sta promettendo «un ricompensa grande»: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco. Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede».
È interessante quanto un testo cronologicamente così lontano da noi, riesca a esprimere con quel «Signore Dio, che cosa mi darai?», la situazione interiore che l’uomo di sempre, e anche di oggi, sperimenta in vita: quando sembra che neanche più Dio possa dire o possa fare qualcosa che risolva il nostro dramma interiore. «Signore Dio, che cosa mi darai?».
È l’impossibilità della vita, del ritornare a credere alla vita, alla sua sensatezza, alla sua bellezza... Sotto l’onda delle ferite che la storia ci ha inferto, delle disillusioni, delle amarezze, delle umiliazioni, delle infedeltà, davvero non si riesce più a fare come Sara, di cui la Lettera agli Ebrei dice: «ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso». Noi ci ritroviamo invece a non ritenere più degni di fede coloro che ci hanno promesso la vita, che ci hanno detto che c’era una felicità da cercare e che, per avvalorare la loro promessa, dicevano che qualcuno l’aveva anche trovata. Che si tratti di Dio o degli uomini, di chi c’ha messo al mondo o di chi ci ha amato, dandoci l’illusione di un mondo buono... non li riteniamo più degni di fede e con il salmista sempre più ci sentiamo di dire «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10).
Ecco il dramma! Il dramma di Abramo, che non lamenta tanto la semplice mancanza di un figlio, ma in esso, di un futuro, di una consistenza che duri, di un non finire nel niente... che è anche il dramma del salmista, che parla di dileguarsi... e di noi, che così spesso, ci pensiamo come meteore, destinate a una parabola che si consuma ed esaurisce.
Un dramma di fronte al quale non abbiamo risposte adeguate (possibili) e che ci trova perciò sempre arrabattati a inseguirne qualcuna, divisi tra chi si consegna all’angoscia, chi si rifugia nel magico (religioso), chi sceglie il nichilismo, chi la superficialità...
Ma poi c’è Simeone... un uomo che di fronte al finire della vita, dice cose diverse... e bellissime: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Sono le parole di un uomo dalla vita compiuta, che può andarsene in pace perché ha visto la salvezza, la sensatezza, la felicità, diremmo noi.
Ma cos’è che fa discrimine tra le parole di questi due uomini? E tra le nostre situazioni umane, che contemplano l’esperienza di entrambe queste condizioni? Forse “solo” la consapevolezza di essere nelle mani di un Altro.
Non tanto nel senso spiritualoide e moralistico che noi spesso diamo a affermazioni come questa; quando di fronte al dolore e al dramma di chi ci sta accanto non sappiamo che dire e ci limitiamo a un’ipocrita e deresponsabilizzante pacca sulla spalla accompagnata da un banale “Affidati al Signore”.
Piuttosto nel senso di ritenere degno di fede colui che ci ha promesso che l’uomo non è destinato a finire nella tomba e a restarci, non è destinato a esaurirsi nei suoi insuccessi, nei suoi fallimenti, nelle sue infedeltà, nel suo peccato... ma è tenuto, nella sua qualità specificamente umana, nella sua identità di amato, anche quando lui stesso dovesse disperderla.
È perché è fondata su un Altro infatti che la mia vita – impossibile (nel superamento delle ferite e dell’annichilimento dell’anima e del corpo) – diviene possibile per me. È perché – come dice Molari – ho imparato a fidarmi così tanto della Vita, che posso perderla per ritrovarla; è perché non devo salvarla io, pestando i piedi in testa a chiunque la metta in pericolo, che posso Viverla.
Ma qualcuno potrebbe dire che questa è fantasia: è la favola consolatoria a cui Simeone, e poi tanti dopo di lui, hanno voluto credere, per sopportare l’atrocità di un destino di solitudine, morte e non-senso eterno.
Eppure Simeone – come tanti dopo di lui – non fonda sulle nuvole il suo saper morire (che equivale al saper vivere!), ma su una promessa, su un’attesa e su un bambino in carne e ossa. Tanto quanto Abramo, che dopo le parole sconsolate di cui abbiamo detto, accoglie invece una promessa, un’attesa, un figlio... Anche noi – come ha recentemente ribadito p. Giuliano Bettati durante il ritiro a Cassano Valcuvia – di questa luce che rifulge in terra tenebrosa possiamo avere in qualche momento esperienza, se facciamo attenzione alle sue scintille fioche e molto intermittenti: incontri, sofferenze, gioie... riconoscenza! [...] Esperienze profonde non catturabili e indimostrabili, e tuttavia presenti nel fondo dell’animo. [...] Possiamo solo riceverle e custodirle, tentare di rendere queste scintille più continue tra di loro attraverso singoli atti di fede, operazioni concrete di obbedienza; attraverso il ritenere degna di fede la promessa che hanno iscritta in se stessi. Ricordando che di tutti i cani che corrono per inseguire la preda, solo quelli che ne hanno sentito davvero l’odore, non desistono!
Ma perché a pochissimi giorni da Natale, dalla scintilla intermittente più decisiva dell’umanità, quella a cui sono riconducibili tutte le altre, ci ritroviamo a riflettere sul morire? Perché, come dice ancora Molari, la morte non è un incidente, bensì il criterio supremo della vita. La decisività di Gesù sta qui: nel dare senso al morire, e dunque al dare la vita, al Vivere! Infatti è solo se – in Lui – non avremo paura di morire, che non avremo anche paura di Vivere!

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