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venerdì 2 novembre 2007

Dalla mediocrità all’eccellenza: lo “scambio”

Le affermazioni di James Watson, premio Nobel della medicina, sulla inferiorità della capacità intellettiva dei Neri rispetto agli Occidentali, giustificato, a parer suo, geneticamente, al di là dell’indignazione e della provocazione che possono suscitare come del fiume di inchiostro che hanno scatenato nel riesumare gli stereotipi razziali e l’ideologia che le caratterizza, sollecitano una riflessione profonda sulla natura e la struttura dei rapporti tra gli uomini in vista di un tentativo di raccogliere, in una sintesi necessariamente limitata, le condizioni di possibilità di un’intesa condivisa per una convivenza pacifica tra i popoli, tra le culture… tra di noi… in un mondo determinato più che mai, da un pluralismo radicale delle culture, delle religioni e dei valori.

Il problema principale è quello dell’accoglienza della diversità, sempre esaltata come ricchezza, come ciò che mi completa, sorgente di scambio, di innovazione e di creatività per il genere umano. La mia identità può, nella sua formazione e manifestazione dipendere dell’altro? Il diverso è forse alienante? Perché l’altro ci destabilizza, ci spaventa, ci provoca, ci “ruba spazio” e ci toglie il “muro di sicurezza” che ci circonda?

Il Vangelo, la narrazione credente del fatto Gesù, che non è solo un luogo del credo, ma la storia di un uomo, (senza escludere altri linguaggi storicamente dati), nello svelare l’originaria energia comunicativa dell’evento linguistico, ci offre spunti per radicarci in una prospettiva nuova in vista dell’accoglienza-ascolto dell’altro, dove è l’altro a dirmi la verità su me stesso.
In questa prospettiva una tale verità non si difende, proprio perchè è disarmata e quindi si testimonia e si comunica con la vita… infatti una tale maturazione non si acquisisce con discorsi moralistici e terapie psicologiche, ma in un vissuto autentico dell’esperienza di fede.
L’alterità per non cadere nella reificazione assolutista dell’altro, presuppone una reciprocità, segno di complementarità e di accoglienza vicendevole, perché l’alterità è una componente essenziale della reciprocità. Quindi trattandosi dei “volti” che si incontrano è preferibile l’uso del termine di “scambio” per sottolineare la sete di complementarità dell’altro che mi compie e mi determina…
Nella fede si radica, (si rende operante) l’alterità che Dio opera in me, le fede intesa qui come anticipazione dell’indisponibile. Nella fede infatti noi accogliamo la diversità di Gesù come riferimento ultimo di noi stessi. Più propriamente ancora, la fede costituisce l’esperienza di un lasciarsi accogliere nella diversità di Cristo, come anche afferma san Paolo: “non sono io che vivo, è Cristo che vive in me”. Questo è il senso della nostra consacrazione battesimale o religiosa.
Nella narrazione neotestamentaria dell’evento cristologico, questo rapporto tra le diversità, viene descritto con linguaggi diversi. Si usano così, tra l’altro, le metafore del riscatto e della liberazione… Laddove tuttavia il rapporto assume la sua massima intensità, per cui non c’è soltanto un operare da parte di Cristo qualcosa nell’altro e per l’altro (riscattare, liberare, ecc.), e nemmeno soltanto un generico far propria la realtà dell’altro da parte del Figlio di Dio (“divenne carne”, dove, se carne implica senz’altro debolezza e fragilità, non sembra tuttavia contenere ancora per se stessa il peccato), ma c'è la immedesimazione alla “ultima” diversità dell’altro, cioè il peccato (che suppone quindi una diversità alternativa rifiutante il rapporto stesso). Emerge allora la metafora dello scambio (katallagê) come descritto in 2Cor 5,17-21 :

Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. E' stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.”

La comunione di amicizia che la presenza della diversità divina stabilisce tra di noi, evidenzia la manifestazione stessa di ciò che Dio è: la sua “epifania”. Il motivo dell’accoglienza della diversità ultima, non è quindi un adattamento estrinseco a un altro, ma è proprio ciò che ne mette allo scoperto l’identità ultima.

Il compito della fede cristiana è quindi per sua stessa natura un’assunzione di alterità, un rifacimento di soggettività attraverso uno “scambio”. Il rapporto tra due realtà radicalmente diverse, tra quella di Dio e quella dell’uomo, è il fondamento stesso della fede ed è costitutivamente un’assunzione dell’alterità.

Assimilato questo ci eviteremo tante guerre e discordie...

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