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venerdì 16 gennaio 2009

Cristianesimo e sessualità

Tutte e tre le letture di questa seconda domenica del Tempo Ordinario contengono spunti interessantissimi per il possibile sviluppo di una riflessione. Facendo solo qualche accenno, si può infatti vedere come la prima lettura proponga per esempio il tema della fedeltà di Dio: i versetti iniziali del capitolo 3 del primo libro di Samuele– omessi della liturgia della Parola – descrivono infatti la situazione precaria del rapporto tra Dio e il suo popolo, «La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti». Eppure in questa situazione Dio torna a parlare... proprio a Samuele... l’unico che, seppur cresciuto da Eli, sacerdote del Signore, non era suo figlio...
Ma anche il brano del vangelo di Giovanni sarebbe densissimo, in particolare nelle corde toccate nel dialogo tra Gesù e i due che lo seguono: «Che cosa cercate?» - «dove dimori» - «Venite e vedrete»!
Eppure la nostra attenzione vuole concentrarsi oggi un po’ azzardatamene sul testo della seconda lettura, tratto dal sesto capitolo della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Questa scelta – azzardata tanto per i temi trattati (la sessualità) quanto per l’intrinseca difficoltà sempre presente nei testi di Paolo – è dettata soprattutto dalla percezione che ancora troppo diffusamente in ambito cattolico la tematica dell’affettuosità (anche corporea) sia mal-intesa.
Spesso infatti essa sembra essere vittima di due “estremi” (opposti, ma speculari): o viene demonizzata e, anche se in forme sempre più raffinate, considerata negativamente, diventando dunque “argomento tabù”, elemento di vergogna, fonte perenne di sensi di colpa per la “sporcizia” che ci arrecherebbe; o, per converso, viene vissuta liberamente... di nascosto; creando la paradossale situazione per cui mentre il Magistero continua a ribadire l’indicazione di non avere rapporti sessuali prematrimoniali, di non utilizzare gli anti-concezionali, di vivere da fratelli e sorelle tra divorziati risposati e coppie omosessuali, la maggior parte della Chiesa di base ignora abitualmente tutto ciò, chi mettendosi il cuore in pace, chi trascinandosi fortissimi sensi di colpa.Entrambe le situazioni ovviamente non possono essere giudicate come la risposta ideale (nel senso di fondata evangelicamente) alla questione della sessualità. Anche il secondo approccio infatti, quello della risposta “silenziosa” della Chiesa di base che sostanzialmente sceglie di andare per la sua strada, pur trovando la nostra solidarietà (perché davvero attualmente non paiono emergere altre vie percorribili), non è una soluzione adeguata: non rende ragione del libero esercizio della sessualità. Essa anzi, importa lo stesso difetto della posizione da cui si vuole dissociare: quello della negatività della sessualità! Non a caso infatti è una risposta “silenziosa”, cioè occultata, nascosta, impronunciabile.
Ma veniamo all’oggetto che più direttamente interessa la nostra riflessione, e cioè il primo versante della questione, quello che abbiamo chiamato “il moralismo sessuofobo” che aleggia ancora nella nostra società post-moderna; esso è prescelto come tema di discussione per tre motivi: innanzitutto perché anche il secondo versante (quello della risposta “silenziosa” della Chiesa di base), essendo semplicemente la reazione ad esso, può sciogliersi, se si scioglie il primo; in secondo luogo perché esso riguarda in generale la cultura cattolica in cui siamo immersi e dunque tutti i cristiani, quelli “irregolari” cui si faceva riferimento prima, ma anche le cattolicissime coppie di sposati “regolari”; in più perché da più parti esso è stato in qualche modo attribuito proprio all’apostolo Paolo.
Prima di venire però direttamente ai testi di quest’ultimo, sono necessarie due premesse, una che fa riferimento alla storia del pensiero, l’altra ad un’analisi fenomenologica sull’oggi.
La prima premessa è questa: questo moralismo sessuofobo che segna ancora oggi la cultura, nonostante si continui a far finta che non sia così, è molto più il figlio dell’eredità filosofica greca tipicamente dualistica (per la quale delle coppie corpo-anima, carne-spirito, naturale-soprannaturale, la dimensione più profonda dell’uomo è quella espressa dai secondi membri – anima, spirito, intelligenza – mentre la materia in cui si “incarna” è un involucro da cui evadere o una tappa da cui decollare) che della mentalità evangelica (e anche genuinamente paolina!)... Questa annotazione – che andrà chiarita – permette però già da ora di affrontare forse un po’ più serenamente il tutto, perché ci libera dal timore di una contrapposizione diretta alla dottrina ecclesiastica: dare valore al corpo e alla sua espressività non vuol dire infatti andar contro al dato neotestamentario («il Signore è per il corpo», dice Paolo), ma al dualismo greco, anche se bisogna ammettere che da esso a volte la chiesa si è fatta influenzare...
La seconda precisazione invece è riferita al fatto che si diceva che lo scenario descritto con la formula “moralismo sessuofobo” è ancora oggi molto presente in ambito cattolico, nonostante si tenti in tutti i modi di oscurare tale dato. A tal riguardo è necessario notare come se da un lato è vero che nessuno forse oggi dice più che fa l’amore “perché deve” – fare figli – come facevano le nostre nonne in ottemperanza a tutti i documenti magisteriali che fino alla Gaudium et spes del Vaticano II hanno sostanzialmente sempre identificato nella procreazione il fine primario del matrimonio, considerato ovviamente una stato di vita di serie B rispetto alla vita casta degli uomini di chiesa, dato che esso era definito remedium concupiscentiae, resta invece ancora vero per molti – in particolare per le donne – l’orizzonte di senso che per secoli questi insegnamenti hanno depositato nella cultura in cui siamo immersi. È quanto Concita de Gregorio delinea molto chiaramente nell’introduzione al suo libro Malamore: «“Le femmine servono ai cuccioli” dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: “Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare”. Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non “servono” solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. “Servono a far più bella la vita” mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante. Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire – a sopportare – in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare?».
Ma veniamo a Paolo... e proviamo a delineare la sua prospettiva, di modo che possa davvero illuminare la situazione presente finora descritta...
Siamo nel sesto capitolo della prima lettera ai Corinzi. Nel capitolo immediatamente precedente, Paolo, dopo una serie di ammonimenti in particolare sulle divisioni all’interno della comunità, affronta la questione di un caso grave di immoralità presente fra i cristiani di Corinto: un uomo che convive con la moglie di suo padre. Ed è proprio sull’onda di questo argomento (che qui non possiamo affrontare per limiti spazio-temporali), che il discorso di Paolo va a finire sul corpo. Sorprendentemente (forse) Paolo inaugura questa tematica con una frase di un’apertura tale, che probabilmente nessuna delle nostre nonne attribuirebbe al Nuovo Testamento (all’idea di Nuovo Testamento che – poverine – gli hanno messo in testa...): «il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo»! Cioè: la corporeità umana “fa coppia” adeguatamente con Dio! Non la sua anima, la sua parte spirituale, la sua intelligenza... Ma il suo corpo! Certo indubbiamente Paolo non sta qui escludendo tutti questi ambiti dell’umano, eppure non ha nessuna remora a usare la parole “corpo” (σωμα) come correlato adeguato di Dio, così come lo sono il ventre e i cibi: «I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi» ha infatti appena finito di dire. E come per essi anche la nostra coppia è biunivoca: non solo «il corpo è per il Signore», frase che potrebbe ancora essere ricondotta ad una modalità di pensiero moralistica, ma anche «il Signore è per il corpo»! E qui cade ogni speranza per chi vuole fondare nel messaggio cristiano la visione negativa della corporeità umana (non a caso i catari sono considerati un gruppo ereticale dalla Chiesa)!
Eppure su quella premessa «il corpo non è per l’impurità... ma per il Signore» e – sempre nella nostra seconda lettura – nell’espressione seguente, «State lontani dall’impurità», come in tante altre frasi di questo genere di Paolo, è stata fondata l’idea che l’esercizio della sessualità, sia ipso facto legata all’impurità e dunque vada fuggito. Non a caso per tutto il Medioevo ma anche oltre, fino davvero ai nostri giorni, religiosamente congelati all’orizzonte di senso del Concilio di Trento, l’ideale di vita cristiana è quella del monaco, di colui che esercita il controllo sulle passioni, che rinuncia alla concupiscenza. Non a caso, come già accennato, il matrimonio è visto nell’ottica del remedium concupiscentiae. Non a caso intere generazioni di cristiani, e soprattutto di cristiane, ha avuto un cattivo rapporto con il suo corpo e con la sua sessualità (pensiamo alle penitenze corporali, all’impurità legata al ciclo mestruale o al parto, ecc...).
Anche Paolo cadrebbe dunque nella scia, anzi ne sarebbe addirittura il “fondatore”, del moralismo sessuofobo...
In realtà se si guardano senza questa lente di ingrandimento distorcente le sue frasi, ci si accorge che esse potrebbero dire anche qualcosa di diverso... come infatti è! La prospettiva corretta la dà un’altra espressione sempre contenuta nella nostra seconda lettura: «il corpo lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi». Il corpo non è mio dunque, ma non nel senso che è una prigione di cui devo liberarmi per accedere finalmente ad un altrove puro e spirituale, piuttosto “non è mio” nel senso che su di esso non posso rivendicare il diritto di possesso, né io, né nessun altro. In esso, proprio perché donato, può abitare solo la coscienza di chi vi è ospitato. Ecco perché Paolo condanna l’impurità. Essa non è ipso facto l’esercizio della sessualità, ma l’esercizio di quella sessualità che mi fa possesso di me stessa o dell’altro, se non violenza e morti-ficazione. Invece proprio perché è di Dio e non mio, esso può essere abitato, può essere il luogo dell’amore, dove «al braccio che si distende e si prolunga per prendere e dire “è mio”, si sostituisce la mano che accoglie» [Carmi de Sante, L’io ospitale]. Di conseguenza, mentre per il moralismo sessuofobo il corpo va reso muto, la sessualità negata e la passione contenuta, per poter così passare al mondo spirituale e superiore (che l’immaginario colloca nell’aldilà temporale e spaziale), nell’interpretazione qui proposta il vero discrimine è nel modo di vivere la sessualità. Il passaggio è dunque esistenziale e riguarda la soggettività dell’io: esso consiste nell’uscire dalla logica dell’avere e del possedere per accedere a quella dell’essere accolti e ospitati. Ma quanti cristiani e cristiane, nella loro intimità fanno questa esperienza? Sentite cosa racconta un avvocato della cattolicissima Roma: «Mi chiamo Tiziana Pomes, faccio l’avvocato da vent’anni. Lavoro in un quartiere borghese, a Roma. Le mie clienti sono soprattutto donne. Vengono da me principalmente per cause di divorzio. Divorziano in molti casi per storie di violenza. La violenza in famiglia è diffusa in un modo che non si può immaginare. Le mie stesse clienti, per la maggior parte, non ne parlano. Alludono, se proprio alle strette minimizzano. Se ne vergognano. Al principio quasi sempre la giustificano. In ogni caso la sopportano molto a lungo e in forme sempre più gravi. Sono pochissime quelle che riescono a farsi aiutare dalle loro famiglie o dagli amici. In genere sono sole con la loro storia...». Forse davvero è qualcosa a cui ri-pensare...

8 commenti:

Danila ha detto...

Il discorso è veramente complesso. Da un lato S. Paolo è stato frainteso. C'è un altro passo in cui l'Apostolo predilige la castità alla sessualità, e si riferisce ai sacerdoti e Vescovi, che fino ai primi secoli avevano l'opportunità di sposarsi, e quindi di vivere anche la sessualità. Dice loro che se sono sposati dovranno vivere fedelmente il loro matrimonio, ma che "sarebbe meglio" scegliessero il celibato. Ora il concetto di celibato viene immediatamente collegato alla castità. Non mi pare sia esattamente la stessa cosa. S. Paolo parla dei rapporti contro natura,e prega le comunità cristiane di abbandonare queste vie perverse. Butto là una provocazione: anche la totale castità è cosa contro natura, o no? Il cibo è fatto per essere mangiato (non per ingozzarci!), l'acqua ed il vino per essere bevuti. Ed l'amore per essere condiviso. La sessualità non deve essere mai separata dall'affetto che lega la coppia. Molti uomini invece pensano che alcune donne servono solo per un certo scopo, ed altre invece vanno rispettate, trascurandole anche sotto il punto di vista sessuale. Ridicolo!!! Nell'amore non deve incorrere violenza: deve essere un mutuo donarsi, e come non ci si deve abbuffare di cibo e ubriacarsi di alcoolici, così deve sussistere anche la castità e la moderazione nei rapporti sessuali (che non significa negazione assoluta).

Danila ha detto...

Aggiungo solo un breve aneddoto capitatomi alcuni anni fa, quando ero catechista. I miei ragazzini mi chiesero se ero sposata e quanti figli avessi. Risposi loro affermativamente, dicendo di essere madre di una ragazza e di due ragazzi. Il più sveglio di tutti, undicenne, con fare furbetto sorrise sotto i (non) baffi e facendo intendere che lui la sapeva lunga, disse: "Allora l'hai fatto 3 volte!". Bravo, gli risposi, allora sai contare (1+2 = 3)! Ma mi sono sentita poi in dovere di spiegar loro, perchè non crescessero con idee preconcette o, peggio, errate, che un figlio non si concepisce al primo tentativo, e spesso trascorrono anni prima che il Signore permetta il fiorire di una vita nuova. Ma ho anche aggiunto che molte coppie non sono gratificate da una nuova vita,e non per questo devono rinunciare ad una comunione profonda tra loro. Certi tabù devono davvero cadere, ma senza che si corra il rischio di finire dalla padella alla brace: totale inibizione o totale disinibizione, con le conseguenze letali che tutti conosciamo. Sono convinta che Dio sia la persona più saggia dell'Universo, e se ha dettato certe leggi, lo ha fatto unicamente per il bene dell'umanità, ma forse l'umanità ha un po' frainteso i Suoi suggerimenti, venuti anche attraverso gli uomini da Lui ispirati.

chia ha detto...

la questione non è porre paletti: fin dove arrivare, dosare sessualità e castità, ecc...
la qestione è che detro lì per tutti e due sia più importante la faccia dell'altro che qualsiasi altra cosa...
questa è la castità dell'amore...

Danila ha detto...

Non intendevo piantare paletti, davvero! Abbiamo tutti noi cristiani una nostra idea,sviluppata dalla lettura della Parola, credo, ognuna valida. La tua è illuminante in quanto sintetica. Non ho questo dono, purtroppo, ma concordo che il rispetto della persona, nell'altro, sia essenziale. La sua faccia è questo, no?

Mario ha detto...

Abbiamo tutti noi cristiani una nostra idea,sviluppata dalla lettura della Parola, credo, ognuna valida... Il problema è sapere se la nostra idea ha un fondamento sulla sua Parola o si fonda sulle nostre precomprensioni culturali... Il post di chia ci mostra non solo che spesso non lo è stato e non lo è, ma ci guida, con un esempio concreto, in quale modo noi possiamo arrivare a trovare il fondamento scritturistico. Grazie chia per quanto condividi aiutandoci a "volare"...

Danila ha detto...

Come mio solito, non riesco ad esprimere al meglio ciò che voglio dire. Spesso le Scritture, lasciate in mano ai profani, vengono fraintese. Ma non è ciò che intendevo. Io parlo di lettori maturi nella fede, ai quali le Scritture ispirano riflessioni diverse fra loro. Basti pensare alle omelie dei sacerdoti sulla stessa pagina evangelica. Ognuno dice quello che l'ha maggiormente colpito e le riflessioni che gli sono sorte. Ciò non significa che le une fanno a pugni con le altre. Ognuna arricchisce spiritualmente chi le ascolta. Non mi sono messa in contrapposizione con Chia, di cui apprezzo la profondità di quanto scrive,ho solo voluto aggiungere un mio pensiero che, da quanto ho da te appreso, ha la libertà di esprimersi anche su questo blog. Ringrazio anch'io Chia per averci prestato le sue ali.

Mario ha detto...

Nessuno ha pensato minimamente Danila che tu volessi contrapporti a Chia, conosciamo troppo bene la tua affabilità per pensarlo... E tanto meno io cercavo di prendere le difese di Chia che sa dare ragione delle proprie argomentazioni meglio di me! Cercavo semplicemente di esprimere un mio parere... È inoltre altrettanto vero quello che dici a proposito dell’arricchimento reciproco... Ma (continuando ad esprimere il mio parere) credo che qui si voglia dire altro e si intenda inoltre qualcosa che io stesso ho più volte espresso anche in qualche scritto dentro e fuori dal Blog: Non si tratta tanto di fede più o meno matura (e chi può giudicare la maturità della fede propria o altrui!), ma di fede che sappia «emanciparsi» dai propri schemi mentali filosofico-culturali per imbeversi del pensiero più autenticamente biblico (l’unico «fondante»!)... Cristiani «maturissimi» nella fede, fino ad essere proclamati santi e/o dottori della chiesa, spesso non hanno saputo esercitare (almeno in parte e soprattutto qui nell'ambito della corporeità-sessualità) un adeguato senso critico sulle categorie culturali con cui questa fede è stata storicamente espressa nella propria epoca... Non se ne fa loro una colpa, semplicemente non se ne vuole ripetere l’errore! Tra le varie acquisizioni acritiche all’interno del pensiero cristiano (cattolico e protestante soprattutto) c’è la mentalità dualista greca, che per tante ragioni (che qui non è caso di ricordare) ha fatto (e fa!) da «filtro» a una corretta comprensione del pensiero biblico in genere e paolino in specie... Non è certo il solo ostacolo culturale ma non è un caso che la conversione (anche questa fraintesa culturalmente in senso morale!) biblicamente è intesa invece come metanoia: cioè conversione di mentalità... In una parola, non basta essere santi (per questo non ci sarebbe nemmeno bisogno del cristianesimo visto che di «santi», sono piene le epoche e le religioni) né basta una santità che faccia riferimento alla persona di Cristo... occorre ripensare a una santità che faccia propria (diventandone espressione culturale vivente) la modalità specificatamente espressa dell’esperienza biblica... E mi sembra che su questo soprattutto gli ultimi papi cerchino, per quanto loro compete, di aprirne la strada... A livello pratico (in ambito laico e/o religioso) invece la strada non appare ancora imboccata...

Danila ha detto...

Mah!! Credo che qualcosa cominci a muoversi, e proprio tra le file del Carmelo!!!Certo sarà una "rivoluzione" che non dobbiamo aspettarci accadrà dall'oggi al domani. Ma ci sono Padri e sacerdoti coraggiosi che - e non propriamente su questo argomento specifico - cominciano a chiarire certi equivoci trascinati da...secoli! Anche a costo di passare da eretici o, alla meno peggio,da rivoluzionari. L'Incarnazione del Cristo è la Verità che abbatte il dualismo greco. Se il corpo a causa della sua sessualità è elemento di vergogna, allora per quale motivo Cristo che è Dio se ne è rivestito? dovrebbe essere una domanda che include già la sola risposta: Dio ama l'uomo nella sua interezza. E' sempre stato il mio pensiero e da parecchio sento esprimersi in questo senso molti sacerdoti...sono i laici che pensano che la Chiesa sia ancora tutta ottusamente chiusa in una mentalità beghina!

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