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mercoledì 23 luglio 2014

XVII Domenica del Tempo ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 3,5.7-12)
In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».
 
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 8,28-30)
Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
 
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 13,44-52)
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
 
I testi che la liturgia ci propone per questa Diciassettesima Domenica del Tempo ordinario si aprono, nella prima lettura tratta dal libro dei Re, con una domanda, già da sola, capace di far sussultare mente e cuore di chi legge; infatti «In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: “Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda”».
«Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda» è l’inaspettato che irrompe nella storia, la richiesta che tutti, specialmente in alcuni momenti della vita, vorremmo sentirci porre, in special modo da Dio...
Certo, non potendolo fare abbiamo elaborato tutta una teologia capace, se non di rendere ragione, almeno di acquietare l’animo di fronte a questa impossibilità, e dunque tutta una schiera di ben pensanti – a ragione – si solleverebbe a ricordarci che Dio non è una bacchetta magica, che dunque non ci si può rapportare a lui come ad una macchina dei desideri... Eppure, anche se queste indicazioni sono vere e ci aiutano a non avere un approccio di fede ingenuo, ciò che in esse viene taciuto è che nel fondo del cuore di ogni uomo, anche il più istruito o teologicamente preparato, rimane l’atavico, arcaico e forse infantile anelito di poter esprimere e veder realizzati i propri desideri in modo facile: senza la fatica di una storia, la preoccupazione di un esito mai certo, la complessità delle situazioni in gioco...
È lo stesso anelito che sta alla base di tutte le storie e leggende che ci parlano di geni che escono dalle lampade coi famosi tre desideri, di fate con le loro bacchette magiche e via discorrendo...
Esse però non devono ingannarci sulla portata della domanda. Sono storie per bambini, è vero, ma, a ben guardare, nelle loro versioni originali, non sono mai banali e per questo sono anche “storie per i grandi”.
Dico “nelle loro versioni originali” perché poi effettivamente si è andati incontro, per mezzo della satira e dell’ironia (quante barzellette hanno i “tre desideri della lampada”), ad un uso ridicolo della domanda «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».
Essa invece – come dicevamo – è molto più pregnante di quanto le sue volgarizzazioni mostrino. Essa infatti presenta il profilo del volere («Chiedimi ciò che vuoi») nel suo legame stretto a quello dell’essere: Cosa vuoi? Dunque chi sei? Sintetizzabili nella domanda: Chi vuoi essere?

Ecco perché non si tratta di storie da bambini ed ecco perché sono inadeguate tutte quelle risposte che non vanno a toccare il vero nucleo dell’io: “cosa voglio” è infatti ben più di “quale cosa voglia”; “cosa voglio” è cosa voglio essere, chi voglio diventare!
Salomone in questo senso dà la risposta “giusta”: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Non si tratta della richiesta della leggendaria “saggezza”; non è una dote o una virtù che Salomone vuol sviluppare! È piuttosto un modo nuovo di volersi, un disporsi nuovo di fronte a se stesso e per questo di fronte agli altri: la docilità del cuore, per saper rendere giustizia!
E in questo la sua risposta è “giusta” e dunque esemplare: non nel senso che sia l’unica “giusta” e dunque da imitare in modo pedissequo (come se tutti dovessero rispondere «un cuore docile...»), ma giusta e dunque esemplare perché “all’altezza” della domanda. È una risposta infatti che onora la portata di verità di sé implicata nella domanda, la portata di autenticità di fronte alla propria interiorità e alla vita.
Questi infatti sono i due segnali della giustezza di una risposta: la verità verso il nucleo fondante e appassionato di noi stessi e il compimento di questo nucleo nel suo essere-per-gli-altri.
E proprio perché risposta adeguata alla domanda “Cosa voglio?” è solo quella che riesce a tenere il profilo alto del “Chi voglio essere (di fronte a me e per gli altri)?”, è inevitabile che ognuno abbia (e possa avere solo) la sua risposta! Non in un’accezione solipsistica, ma nel senso che, come per la morte, si è di fronte a qualcosa in cui nessuno ci può sostituire, nemmeno un modello! Sta a noi (e solo a noi) l’avventura del determinarci, dello scegliere il tesoro su cui porre il nostro cuore (cfr Mt 6,21: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore»).
Ma, proprio perché è così stretto il legame tra tesoro e cuore, tra senso e vita, tra fondamenta e costruzione, tra volontà e identità, è necessario un tesoro all’altezza, un senso per cui valga la pena, delle fondamenta stabili, una volontà appassionata!
È l’esperienza delle prime due parabole evangeliche: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».
Per il vangelo dunque “tesoro all’altezza”, “senso per cui valga la pena”, “fondamento stabile”, “volontà appassionata” è «il regno dei cieli», quello che Paolo nel suo caratteristico gergo chiama l’«essere conformi all’immagine del Figlio».
Ma non dicevamo che non poteva esserci una risposta univoca per tutti, anzi che ognuno aveva la sua? E che nessuno (nemmeno un modello, neppure quello di Cristo) poteva sostituirci nell’avventura di determinarci nella vita?
Già... ma appunto: “regno dei cieli” e “conformità all’immagine del Figlio”sono tutt’altro risposte omologate, libretti di istruzioni su come vivere la vita (con buona pace di chi tenta di generazione in generazione di liofilizzare il Vangelo in percorsi ascetici, itinerari spiritualistici, o codici etici).
Il regno dei cieli è anzi – ci dice la parabola – imbattersi in un tesoro nascosto, in una perla di grande valore: lasciarsi cioè incontrare, nel vivere quotidiano, nella fatica del crescere, nei tentativi di scoprire, nello sforzo di capire, nella delusione del regredire, nell’avvilimento del soffrire, nel provare ad amare... nell’impasto di confusione e ordine che siamo... da qualcosa che si rivela al nostro cuore come promettente per una vita bella.
Qualcosa di così promettente da accordargli un credito, spenderci passione e sudore, fino a giocarci la vita!
Se poi questo tesoro non è un qualcosa, ma un qualcuno si capisce ancora meglio quanto non si possa trattare di un canovaccio già scritto per tutti!
E l’idea di “conformità a Cristo” non è altro che la relazione trasformante con Lui. Proprio perché la Verità è una persona con cui si entra in relazione essa non è un insieme di dottrine e norme, valide per tutti, da sapere e da applicare; piuttosto un qualcuno con cui imbattersi (con cui ciascuno personalissimamente di imbatte), che ci appare promettente, come un tesoro per cui si vende tutto e si compra il campo in cui è sepolto o come una perla di gran valore per comprare la quale si vendono tutti i propri averi. Un imbattersi promettente a cui si dà credito, proprio perché appare senso fondato per la vita, e proprio per questo fonte di gioia!
Il NT sembra dunque suggerirci che il tesoro per cui vale la pena spendere la passione della nostra vita, sia la relazione col Signore (personalissima e non omologabile – come del resto sono tutte le relazione: anche quella di una mamma con 10 figli, con ciascuno dei suoi figli!) e con gli umani, tutti suoi figli, tutti nostri fratelli. A noi, alla nostra personalissima fantasia creativa di esistere, la costruzione di questa relazione.
Ma…
… il vangelo non include solo le due parabolette del tesoro e della perla… propone infatti anche quella della rete, che – a prima vista – ci piace un po’ meno, per quel riferimento ai buoni e cattivi da dividere…
Innanzitutto perciò, una precisazione: la cernita viene fatta dopo la pesca, non durante… Anzi – durante – il Regno dei cieli è simile ad una rete che tira su tutti! Tutti i pesci, cioè tutti gli uomini («vi farò pescatori di uomini» Mt 4,19), cioè tutti i suoi figli, cioè tutti i nostri fratelli.
In secondo luogo, va notato come la finale («i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi»), ha la valenza tipica della “minaccia pedagogica”, come la mamma che dice “guarda che se non fai i compiti, non ti voglio più bene!”; dove l’accento non è sulla minaccia (fasulla), ma sulla preservazione della cosa importante e bella che si deve custodire (“fare i compiti!” o “essere pesci buoni”, dove appunto, l’essere “buoni” coincide esattamente con la conformazione a Cristo, e cioè “costruirsi dentro come figli… come fratelli” personalissimamente!).
Il problema storicamente è stato che nella cultura è stata veicolata maggiormente la minaccia (“Guarda che se fai così o non fai così vai all’inferno!”) – che aveva solo uno scopo pedagogico – piuttosto che il nucleo incandescente da custodire (la buona notizia di Gesù) e così spesso ne son venuti fuori cristiani impauriti, che sceglievano non per adesione a qualcosa che riconoscevano come bello (un tesoro, una perla!), ma per evitare una punizione minacciata (l’inferno!)… cristiani moralistici e non evangelici! Che in più si sono messi a far la morale anche agli altri, dividendo già nell’aldiqua i pesci buoni dai pesci cattivi secondo i loro criteri!
L’invito di Gesù invece – attraverso il genere letterario della minaccia che sottolinea qualcosa di importante – è quello di rendersi conto che “durante la pesca”, cioè in questa vita qua che c’è donata, in gioco c’è qualcosa di radicale, di assoluto… in gioco ci siamo noi… nella nostra vita è di noi che ne va! L’essere “buono” o “cattivo” dunque non ha un senso morale, ma esistenziale e sempre recuperabile! Perché in ogni istante a ciascuno è chiesto di scegliere chi essere!
Ad ogni istante a ciascuno è chiesto di lasciarsi imbattere in una perla, in un tesoro, nella relazione col Signore!
Ad ogni istante a ciascuno è chiesto di guardare all’impasto umano che ha davanti (foss’anche un impiastro) come a un fratello…

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