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sabato 21 agosto 2010

La porta stretta della conoscenza del «dove»

Incomunicabilità
(dal sito http://www.giovannirapiti.it/)
Una delle cose che mi riempiono di fiducia nella presenza dello Spirito Santo è constatare la genialità (inconscia?) con cui il liturgista ci propone l’accostamento delle letture. Così esse assumono una luce nuova e ciascuna aiuta la comprensione dell’altra… Per questo oggi la prima lettura assume un ruolo discriminante per cogliere in profondità l’annuncio nuovo della liturgia che la chiesa ci propone, soprattutto nel compimento evangelico.

Infatti apparentemente, leggendo il brano di Isaia che ci è proposto, noi ricaviamo un sentimento di consolazione per la salvezza universale… Questo è certamente vero, almeno per noi, ma se poniamo il brano nel suo contesto, le cose cambiano non poco e notiamo che questa parola non ha minimamente una intenzione consolante ma semmai per coloro a cui è destinata, doveva risuonare come un rimprovero acerrimo!
Precisamente, il brano in esame che conclude tutto il libro di Isaia, e precisamente la terza parte, detta del Terzo-Isaia, che fu un discepolo (o discepoli) della scuola isaiana (che resta quindi storicamente sconosciuto, si sa solo che ha vissuto due secoli dopo il profeta Isaia storico del sec. VIII a. C.), si pone in contrasto con il primo gruppo degli esiliati a Babilonia che ritornano a Gerusalemme (537 a.C.), i quali si considerano dei privilegiati – perché a loro era data la possibilità di sperimentare l’antico esodo – fino a disprezzare coloro che erano rimasti in Palestina e non erano mai andati in esilio. Il brano si riallaccia a Is 56,1-3 dove, lo stesso autore, già introduce il tema del ripudio da parte di Dio di coloro che si credono puri e santi: nel Tempio di Gerusalemme (!) entrano stranieri e pagani per celebrare la liturgia con la stessa dignità di Israele.
È importante sottolineare che il discorso non è rinviato alla fine dei tempi, ma intende parlare concretamente dell’«oggi» storico della storia di Israele. Se dal punto di vista teologico noi sappiamo che la piena realizzazione di questa parola appartiene alla Storia di Dio e alla realizzazione del suo regno, la valenza “inaudita” di questo brano sta tutta nella espressa volontà di Dio che tutto ciò accada nell’«oggi» di Israele: infatti ciò che si compie alla fine dei tempi, può compiersi solo se ha avuto un inizio nell’oggi della storia!

Un brano quindi che per noi “pagani” suona di consolazione, non doveva suonare così per i suoi originari destinatari… Ora è quest’ultimo l’insegnamento originario e rivelativo del brano: la necessità di superare una visione meschina della fede, che vuole “l’altro”, il diverso (colui che ha una “storia” diversa dalla nostra), il non fedele, il non puro… escluso, non tanto dalla misericordia di Dio, ma escluso dal culto “attuale” nel “tempio di Gerusalemme”: dalla sua stessa liturgia.

Il brano acquista così una valenza tutta nuova e di grande provocazione per noi “fedeli” nell’oggi della nostra storia italiana, europea e occidentale… Noi che ci crediamo gli autentici depositari della fede e i veri araldi del vangelo… fino a impedire “agli altri”, agli “stranieri” (di coloro che hanno una storia e quindi una cultura diversa dalla nostra), di …vivere la loro liturgia nel nostro tempio.

Insomma, l’autore della terza parte del libro di Isaia, che ha vissuto la deportazione dell’esilio, ha sviluppato i grandi temi del profeta Isaia capovolgendo questa prospettiva “autoreferenziale” e auto-assolutoria della fede. Nella sua prospettiva – in aperta polemica con i confratelli che ritornano dall’esilio babilonese – l’esilio a Babilonia, lungi dall’essere un privilegio è semmai il segno del rifiuto di Dio perché esso è stato la conseguenza del peccato e del ripudio di Dio, come il ritorno è frutto solo della sua misericordia.

È a questa prospettiva – peccato/punizione, liberazione/misericordia – che attinge anche il discorso dell’autore della seconda lettura, che come sappiamo è un giudeo convertito e ancora legato ai propri schemi culturali e cultuali e che la riflessione più cristocentrica della comunità credente (lo stesso vangelo di Luca nel brano di oggi), risolve piuttosto – soprattutto nel primo binomio – nella responsabilità personale dell’uomo: Dio non punisce nessuno, piuttosto è l’uomo che si autodistrugge nel non accogliere il progetto di giustizia del Padre.

Coloro pertanto che tornano da Babilonia nonostante la lodevole iniziativa di voler ricostruire la città santa e il tempio, non possono considerarsi degli avvantaggiati (anche se storicamente rivivono le gesta degli antichi fuggitivi dall’Egitto), ma devono fare penitenza e riconoscere il “castigo di Dio” come strumento purificatore della fede.

Al contrario, quei popoli considerati impuri, chiamati sprezzantemente “genti” (goìm), ora portano offerte in «vasi puri nel tempio del Signore» (Is 66,20) e quindi sono abilitati a celebrare la liturgia nel tempio di Yhwh: «anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti» (Is 66,21). Notare il paradosso: sono leviti coloro che leviti non sono! A cui non bisogna escludere, nella logica del brano, gli stessi persiani e gli stessi egiziani! Gli antichi e nuovi nemici.

È il capovolgimento radicale dell’immagine di Dio, del Dio liberatore e un po’ nazionalista dell’esodo e dell’esilio: nessun popolo è estraneo alla sua Presenza. La funzione di Israele lungi dall’essere di privilegio è quella di mettersi al servizio di questo culto universale: liberati dalla schiavitù forzata, per imparare a mettersi liberamente al servizio del regno di Dio (cfr Magnificat).

“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (Lc 13,26).
Il Gesù di Luca, si colloca perfettamente in questa linea isaiana come attualizzazione e compimento ulteriore.

Il brano del Vangelo si inserisce all’interno di un contesto polemico dei giudei nei confronti di Gesù. Contesto che a sua volta si incardina nella grande struttura del Vangelo di Luca che descrive, nella sua seconda parte, un Gesù itinerante nel suo cammino teologico-esistenziale verso Gerusalemme (qui v. 22) vista come “luogo metastorico” del compimento delle scritture (Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme), e che ci suggerisce un ulteriore orizzonte a cui attingere per cogliere il senso del brano di oggi e soprattutto della risposta di Gesù.

Infatti la domanda del “tale” si inserisce in questo quadro e si colloca nella stessa prospettiva che il Terzo-Isaia ha stigmatizzato: è “ovvio” che lui si salva! La sua domanda verte necessariamente sugli altri! Soprattutto quelli non appartenenti al suo “gruppo” (cfr invece Lc 18,18). Gesù non risponde alla domanda, ma risponde alla “prospettiva” da cui nasce la domanda, capovolgendola (stesso metodo ad es. in 10,33)! Ancora una volta nonostante le apparenze! Proprie di una lettura di chi vuole restare all’interno dello schema della domanda e non si vuole sforzare a “entrare per la porta stretta” della prospettiva nuova inaugurata dalla risposta di Gesù (anche la Parola è «una porta stretta» anzi è la Prima)!

Gesù infatti allarga l’orizzonte per togliere ogni sicurezza a coloro che fanno dell’appartenenza alla religione “vera” (o da loro ritenuta tale, poco importa se a ragione o a torto), la garanzia dei propri privilegi. Nella fede (relazione/affidamento a Dio e al prossimo) – dice Gesù – non ci sono automatismi. Non basta più una religiosità del “dovere” (il fare “materiale” dell’imperativo kantiano della coscienza), ora è tempo della fede personale e coinvolgente, della “fede del rischio” che mette in gioco la vita nella dinamica interiore della relazione che si fonda sulla conoscenza sperimentale: non basta avere mangiato e bevuto in sua presenza e ascoltato la sua parola (Giuda, non solo per i cristiani, in questo è paradigmatico)…
Il mangiare e il bere, seppur gesti dell’intimità familiare e conviviale, quindi della consuetudine amichevole e confidenziale, non bastano…

Infatti nella nostra vita quotidiana facciamo l’esperienza che si può «stare» insieme, senza «essere» insieme, senza conoscersi. È una esperienza drammatica che mette lo scompiglio nella nostra vita, rivela false le nostre sicurezze e fa riemergere le paure rimosse e mai veramente superate. Lo stesso può accadere nelle “strutture religiose”: Gli ambienti chiusi che non interagiscono con il mondo circostante (cfr “il camminare” del Gesù lucano), sono destinati a produrre personalità fragili, paurose e spesso narcisistiche…
Di fronte ad un conflitto (anche positivo), ad un confronto, ad una interazione, è facile cedere all’istinto «solipsistico» e rinchiudersi nel rifiuto della relazione reale per non mettere in discussione se stessi e il castello di certezze su cui abbiamo costruito i bastioni della nostra falsa sicurezza. Il religioso che vive la comunità come rifugio e protezione, non come progetto dinamico di attuazione del regno di Dio, è un immaturo condannato a vivere “solitario” anche in mezzo agli altri. Vivere la vita di comunità (anche parrocchiale) vuol dire impegnarsi a vivere pienamente la propria umanità in modo armonico, perché solo nella pienezza dell’umanità può risplendere l’abbondanza della grazia e lo splendore della «solitudine» scelta come dimensione di vita di comunione. La «solitudine» infatti è la capacità di stare con se stessi nella profondità del proprio io abitato dalla presenza del Signore. La “solitudine” così intesa è vera comunione che si oppone a «solitarietà». Il credente «solitario» è radicalmente estraneo alla storia che vive (cfr invece Santa Teresa d’Avila: lo scopo del suo stare insieme è cambiare la storia) e si trova «solo» anche in mezzo alla propria gente. Uno così anche quando sta «insieme» agli altri, ne è parte esteriore, non è immerso nell’intima unione della vita ma ne resta – per usare le parole di Luca – “fuori”!: vive la famiglia o il lavoro – solo per fare un esempio – come incidenti o come condanne da scontare, non come «sacramenti di alleanza» e «altari di comunione» da condividere con tutti in vista dell’accoglienza del regno di Dio.
Vivere sotto lo stesso tetto, mangiare alla stessa mensa, pregare nella stessa cappella, eseguire scrupolosamente la stessa «regola», vivere gli stessi orari e impegni, non mette al riparo dal rischio della vita di relazione. Conventi, monasteri, seminari, famiglie, ambiti così fortemente qualificanti, dovrebbero allora diventare luoghi in cui le persone possano ritrovare se stesse e ritrovarsi. Il collante religioso da solo non basta infatti a creare le condizioni della vita comune: occorre che il nostro vivere diventi il luogo dove le nostre ferite (vecchie e nuove), possano trovare un unguento per essere guarite. Perché se siamo immaturi, se siamo non risolti, lo saremo dovunque vivremo e attorno a noi costruiremo rapporti e condizioni di vita immaturi.
Ora il Vangelo ci dice che le ferite dell’anima si curano con la presenza dell’abitare reciproco (cfr Gv 14,21ss e paralleli).

«Voi, non so di dove siete» (Lc 13,27).
La risposta di Gesù infatti è articolata e composta nella sua drammaticità. Egli per prima cosa dice di «non conoscere» cioè di «non sapère», il cui significato etimologico rimanda al parallelo del mangiare e bere (come anche al divorare la Parola ascoltata): anche se abbiamo gustato il cibo “non ci siamo gustati”… io non vi conosco perché non ho gustato, non ho potuto sperimentare il «sapore» della vostra presenza, nonostante abbiate condiviso con me cibo e bevanda. Il secondo rilievo è ancor più tragico: non conosco il vostro «dove», cioè il luogo dove voi esistete e diventate voi stessi; non conosco la vostra consistenza, l’abitazione del vostro cuore e quindi la profondità della vostra vita. Siete dissolti, dissipati, siete “altrove”. Siete zombie. Senza il «dove» della propria esistenza, noi siamo inesistenti: ciò che “non è da nessuna parte” semplicemente non esiste, anche se crede di esistere. Il «dove» indica la consapevolezza della prospettiva da cui si guarda alla vita, al futuro, al regno. La prima parola che Dio rivolge ad Adamo è infatti «Dove sei?» (Gen 3,9). La risposta del primo uomo è la consapevolezza della propria nudità (cfr Gen 3,10).

Gesù parla a persone per cui l’appartenenza religiosa esteriore era garanzia della propria identità. Al tempo di Gesù, tempo turbolento e di grandi trasformazioni, passaggio di due secoli e di due millenni, tempo di confusioni e di trapassi epocali, la religiosità era vissuta in maniera materiale: ma un ritrovarsi insieme nel Tempio, in casa, in chiesa, non vuol dire abitare l’uno nell’altro, accogliersi reciprocamente… per questo Luca definisce coloro che vivono così le relazioni umane e rituali «… operatori di ingiustizia!» (Lc 13,27).

L’espressione tradotta letteralmente è «lavoratori d’ingiustizia – ergàtai adikìas» che è una connotazione più forte perché il termine «lavoratore» indica lo stato abituale e quindi l’impegno, l’intelligenza e la dedizione che bisogna mettere nel fare il proprio lavoro è cioè un’adesione sistematica e non occasionale! L’operatore può essere occasionale, il lavoratore è abituale. Il termine «ingiustizia» descrive la natura di chi non vuole instaurare una relazione vera: chi vive una religiosità di comodo è «ingiusto»; chi si accontenta di esteriorità è «ingiusto»; chi non è autentico nella verità di Dio è «ingiusto»; chi pretende di rinchiudere Dio nella prigione del proprio pensiero è «ingiusto»; chi non ama è «ingiusto»… La giustizia di Dio invece è la realizzazione del piano di salvezza e di pace nell’oggi della storia di ogni uomo. Il “lavoratore di ingiustizia” considera un Dio così come proprio nemico e mette tutto il suo “sforzo” (cfr sull’impegno dei figli delle tenebre Lc 16,8) perché il suo regno non si realizzi ma si realizzi il proprio (cfr il “Padre nostro”).

Ancora una volta ciò che Gesù descrive ed esige non è qualcosa che dovrà accadere (anche! cfr quanto detto sopra…), ma è qualcosa che è domandato all’oggi del credente. Infatti nel regno di Dio, il passato è già futuro perché «Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio» siederanno a mensa con tutti coloro che «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno» (Lc 13,28-29). Nella storia dei patriarchi infatti è già contenuto in “seme” il futuro di tutta l’umanità che è invitata alle “nozze dell’Agnello”. È di questo futuro che il credente è invitato a farsi nella sua storia concreta a sua volta “seme” (cfr Gv 12,24).

[nota: i riferimenti esegetici sono presi dalle opere di Paolo Farinella]

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