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martedì 4 giugno 2013

X Domenica del Tempo Ordinario


Dal primo libro dei Re (1Re 17,17-24)

In quei giorni, il figlio della padrona di casa, [la vedova di Sarepta di Sidòne,] si ammalò. La sua malattia si aggravò tanto che egli cessò di respirare. Allora lei disse a Elìa: «Che cosa c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?».

Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò nella stanza superiore, dove abitava, e lo stese sul letto. Quindi invocò il Signore: «Signore, mio Dio, vuoi fare del male anche a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore, mio Dio, la vita di questo bambino torni nel suo corpo».

Il Signore ascoltò la voce di Elìa; la vita del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: «Guarda! Tuo figlio vive». La donna disse a Elìa: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità».

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 1,11-19)

Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri.

Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.

In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore.

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 7,11-17)

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.

Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.

Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.

Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo».

Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

 

Con questa Decima Domenica del Tempo Ordinario, riprende – anche per la liturgia domenicale – il Tempo Ordinario vero e proprio. È finito il tempo delle grandi feste su cui ci siamo soffermati in queste ultime settimane e il testo che la Chiesa ci propone è la seconda parte del capitolo 7 del vangelo di Luca, il vangelo di riferimento per questo anno C.

Lo avevamo lasciato, prima della Quaresima, al capitolo 5con l’episodio della pesca miracolosa, uno dei primi segni della vita pubblica di Gesù, che Luca aveva iniziato a raccontare nei capitoli 3 e 4 (con il trittico sinottico: predicazione di Giovanni, battesimo di Gesù e tentazioni nel deserto; con Gesù a Nazaret e le prime liberazioni dal male). Poi appunto i capitoli 5 e 6, con la pesca miracolosa, cui fa seguito la chiamata dei primi discepoli; altre liberazioni dal male e i primi insegnamenti (con il discorso della montagna, nella versione di Luca, che colloca le beatitudini e le altre parole di Gesù “in pianura” e che quindi si dovrebbe chiamare “il discorso della pianura”…).

Si approda poi al capitolo 7, i cui primi 10 versetti narrano la guarigione del servo del centurione a Cafarnao e la lode per la fede di questo pagano.

È proprio a questo punto che è inserito il testo odierno.

Siamo a Nain, un villaggio a sud-est di Nazaret: siamo perciò sempre in Galilea. Ricordo infatti che il vangelo di Luca è organizzato in questo modo: fino al capitolo 9 c’è una sorta di presentazione della missione/identità di Gesù in Galilea, cui fa seguito la seconda parte del testo, inaugurata dalla decisione di Gesù di dirigersi a Gerusalemme.

Siamo dunque ancora nella prima parte del Terzo vangelo, quella che – in qualche modo – dicevamo – nell’intenzione dell’autore – ha lo scopo di presentare chi è Gesù di Nazaret, figlio di Adamo, figlio di Dio.

Il nostro brano è particolarmente significativo perché – dopo la narrazione di diverse liberazioni dal male (l’uomo posseduto da un demonio impuro, Lc 4,31; la suocera di Pietro, Lc 4,38; il lebbroso, Lc 5,12; il paralitico, Lc 5,17; l’uomo dalla mano paralizzata, Lc 6,6; il servo del centuriore, Lc 7,1) – qui per la prima volta Gesù riporta in vita una persona morta: il figlio unico di una donna vedova.

Nei vangeli sono solo 3 gli episodi che narrano questo tipo di liberazione dal male, dal male radicale che è la morte: il figlio della vedova di Nain, la figlia di Giairo (Lc 8,40), l’amico Lazzaro (di cui parlerà Giovanni).

Non è un episodio totalmente inaudito: come ci ricorda la prima lettura, la Scrittura faceva memoria della rianimazione di un altro figlio unico di una donna vedova, per opera del profeta Elia a Sarepta di Sidone. Tant’è vero che proprio ad un profeta viene paragonato Gesù dalla folla che assiste a questo suo richiamare in vita il giovinetto di Nain: «Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi”».

Certo però, indubbiamente, questo tipo di liberazione dal male ha echi particolari in noi… In gioco c’è la questione cruciale della vita e della morte. Del potere sulla morte. Della vittoria sulla morte.

Forse anche per questo, i testi evangelici, che raccontano nel loro insieme più di 30 miracoli, ne riferiscono solo 3 di questo tipo.

Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, come magistralmente annota Pagola nel suo Gesù: «Quel che maggiormente differenzia Gesù da altri guaritori è il fatto che, per lui, le guarigioni non sono fatti isolati, ma fanno parte della sua proclamazione del regno di Dio. È il suo modo di annunciare a tutti questa grande notizia: Dio viene, e i più sventurati possono già sperimentare il suo amore compassionevole. Queste sorprendenti guarigioni sono un segno umile, ma reale, di un mondo nuovo: il mondo che Dio vuole per tutti».

Dunque “gesti”, “segni” non estemporanei rispetto alla sua identità e alla sua missione di far vedere che faccia ha Dio: non a caso il testo lucano tratteggia questa rianimazione del ragazzetto di Nain con particolare cura nel mostrare contemporaneamente alla narrazione dei fatti, anche i tratti del volto di colui che li compie. Chi legge questo testo in qualche misura vede come è fatto Gesù, chi è Gesù (e dunque chi è Dio): Gesù arriva a Nain, insieme ai suoi discepoli e a una gran folla. Probabilmente l’atmosfera è quella dell’allegra convivialità (siamo ancora nella fase della vita di Gesù in cui l’indice di gradimento della gente nei suoi confronti è alto), del vociare, camminando insieme. Vicino alla porta della città però, la “comitiva” si imbatte in un funerale. Sulla scena cala un velo di silenzio, di tristezza, di rispetto per la sofferenza altrui. È la medesima esperienza che abbiamo fatto molte volte anche noi in vita, quando – la morte che riguardava qualcun altro – s’impatta con la nostra tranquilla quotidianità.

Qui l’esperienza non è quella di quando la morte ce l’hai in casa tu (più simile a questa situazione sarà l’episodio di Lazzaro); qui la situazione è quella di chi viene a sapere che il figlio di un amico di un amico è morto di tumore, di chi tornando a casa contento perché ha comprato la macchina nuova incrocia un funerale, di chi non riesce mai ad avere il cuore in pace perché sa che qualcuno, nemmeno troppo lontano da lui, sa che il suo amato deve morire. È la morte che ha in casa qualcun altro che – chissà perché? – raggiunge anche noi, che siamo in quella parte di mondo che rispetto a quelli in lutto, devono “portare avanti il mondo”, perché “la vita va avanti”, perché a noi non si è fermato il respiro come a quelli che il morto ce l’hanno in casa.

Il funerale in cui si imbatte Gesù, poi, è particolarmente straziante: è il funerale di un ragazzino (come quei tanti che non siamo riusciti a portare avanti con noi nella vita, ma che si sono fermati prima) e dietro alla sua bara c’è la sua mamma sola (perché il suo papà era già morto anche lui), anche se circondata da tanta gente.

Gesù la vede. Vede lei, non il funerale, o la bara, o la gente. Vede questa mamma, questa donna, di cui il testo non riferisce null’altro se non la sua disgrazia: nel testo ella coincide con la sua disgrazia. E come potrebbe essere diverso? E quante volte noi di questo ci lamentiamo? Quante volte ci lamentiamo di quei fratelli o sorelle che non sanno non coincidere con le loro disgrazie? E vorremmo che reagissero, che vedessero altro, oltre… Forse perché abbiamo solo paura che abbiamo ragione loro a identificarsi con la loro disperazione… atteggiamento che noi, forti delle nostre finte sicurezze, non abbiamo il coraggio di incarnare.

Gesù poi le parla. Le dice: «Non piangere». Che è una frase terribile. Che bisognerebbe farsi soffocare in bocca ogni volta che ci viene alle labbra: non piangere!?! Come “non piangere”? Come ci permettiamo di dirla (io l’ho detta stamattina!) dal di fuori di quel dolore? Cosa vogliamo fare? Chiedere a chi soffre di far finta di non soffrire per non tirar dentro anche noi nella sua disperazione?

Perché Gesù si permette di dirla?

Perché appena prima e appena dopo averla pronunciata fa 2 cose che cambiano totalmente la sua posizione (interiore ed esteriore): «fu preso da grande compassione» e «si avvicinò».

Ecco chi è colui che sta per rianimare il ragazzino: colui che di fronte alla disperazione altrui non mette uno schermo per non farsene invadere l’anima, ma la lascia entrare tutta («fu preso da grande compassione», vuol dire che patisce dentro quello che sta patendo lei) senza scappare («si avvicinò»). Gesù è colui che non scappa mai… Dio è colui che non scappa mai…

Ma non è tutto, perché dopo aver toccato la bara – altro gesto bellissimo (che di per sé, nell’economia del racconto della rianimazione poteva anche non esserci, visto che poi è con la voce che Gesù richiama in vita il fanciullo, e invece c’è… perché appunto non si tratta della cronistoria di un evento prodigioso, ma del tratteggiare il volto di Dio) – si dice che «glielo restituì». Altra bellissima immagine. Tolto alla morte, per essere restituito alla vita, nelle mani della matrice della sua vita.

Ecco che allora la folla dice: «Dio ha visitato il suo popolo». In quell’uomo che fa quei gesti, che dice quelle parole, che dice chi è, facendo quei gesti e quelle parole, la gente riconosce il volto di Dio.

Luca ha centrato il suo obiettivo: attraverso le sue parole, ci ha riconsegnato il volto di Dio: che non è quello del potente che fa prodigi, addirittura richiamando in vita i morti… ma è colui che non scappa di fronte alla disperazione (senza senso e senza consolazione) degli uomini e agisce sempre e solo per liberare dal male. Mai per infliggerlo. E in questo suo modo di essere è più forte della morte.

È questo l’annuncio che ci è consegnato nelle mani, non privo del modo in cui è stato annunciato nella vita di Gesù e poi nelle parole dei suoi evangelisti: non si possono cioè solo dire cose su Dio, come troppo spesso noi cristiani facciamo… non si può solo dire un insieme di verità… ma il volto di quel Dio va tratteggiato nella vita, con la vita… provando anche noi a farci invadere l’anima dalle sofferenze altrui, senza scappare. Che – sia detto tra parentesi – è possibile solo quando con la gente ci vivi insieme anche quando non è in lutto: perché non ci si inventa fratelli, solo quando c’è da dire il funerale.

 

Non possiamo ridare figli… ma raccogliere brandelli di carne umana straziata dal dolore, riconsegnando briciole di vita sì. Testimoniando fino allo spasimo, che non è Dio che ci porta via i figli!

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