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domenica 12 settembre 2010

XXIV Domenica del Tempo Ordinario: Il bisogno di sicurezza

Le letture che la Chiesa ci offre per questa ventiquattresima domenica del Tempo Ordinario, oltre ad essere molto lunghe, hanno anche un contenuto talmente denso, che su di esse bisognerebbe stare molto più che una settimana. Molte infatti sono le piste di indagine che esse dischiudono e su cui sarebbe bello avventurarsi, ma inevitabilmente, a me, qui, è possibile percorrerne solo una, quella che subito mi ha fatto sussultare, leggendo: e cioè l’umano bisogno di sicurezza che fa da sottofondo a tutti i testi proposti.

Leggendo il brano dell’Esodo infatti – un brano già chissà quante altre volte ripercorso – per la prima volta mi è venuto da guardare le cose non dal punto di vista di Dio – col quale così facilmente e impropriamente ci sentiamo solidali nell’indignazione per il peccato altrui –; non dal punto di vista di Mosè – col quale altrettanto facilmente e altrettanto impropriamente ci sentiamo solidali nell’eroismo da “salvatori della patria” o dell’anima altrui –; ma dal punto di vista di chi stava giù dal monte, del popolo peccatore ed idolatra. E mi è venuto da dire: “Io questi qui li capisco proprio!”.

Sono nel deserto (metafora fin troppo chiara di tanti dei momenti della nostra vita), Mosè è salito sul monte a colloquio col Signore, ma tarda a scendere (quindi anche chi fino a quel momento gli aveva suscitato – in maniera più o meno convincente – un po’ di sicurezza, non c’è)… è normale che si spaventino e cerchino – in un terreno che gli frana inesorabilmente sotto i piedi – di trovare qualcosa che “tenga”, che sia (o almeno sembri) solido… qualcosa che dia sicurezza… qualcosa a cui attaccare la vita, la propria vita, che altrimenti pare dissolversi nel niente. Ecco perché il vitello! Ed ecco perché io li capisco così tanto…

Noi forse non facciamo più idoli d’oro, ma il bisogno di sicurezza e di trovare qualcosa a cui attaccare la vita, che altrimenti – ci pare – si sfalda, è il medesimo di allora: da questo punto di vista i millenni non hanno scalfito l’animo dell’uomo, e – ora come allora – attraversiamo questa storia con un crescente senso di inquietudine e paura, che ci porta a mietere vittime tra le cose che ci circondano, le persone, Dio stesso. Tutto diventa una possibile stampella per il mio incedere zoppicante, ferito originariamente dalla consapevolezza che un giorno finiremo stesi e immobili in una cassa; tutto diventa possibile cibo, da assumere voracemente per calmare almeno un po’ quello stomaco affamato di infinito, di assoluto, di totale, che ci hanno dato purtroppo con un difetto di fabbrica (ha dentro un buchino, che – come per i palloncini di plastica – non gli permette mai di essere pieno); tutto diventa mezzo per il mio bene, la mia sicurezza, la mia pace, la mia salvezza… perfino Dio…

Esattamente come per quel fratello maggiore della parabola, che non era diverso – nella struttura di fondo – da quell’altro che tanto biasimava: mentre il più giovane infatti, aveva messo la sua sicurezza nella sua spavalderia “da giovane”, appunto – quindi nell’avventura di prendere i suoi soldi, di uscire di casa e andare sulla sua strada – lui aveva perseguito lo stesso scopo – di possedere una sicurezza esistenziale – nel seguire a puntino la legge paterna, sperando così – come si evince bene dalle sue rimostranze («Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici») – di averne qualcosa in contraccambio, qualcosa su cui – appunto – appoggiarsi, sostenersi… qualcosa di sicuro da avere.

Ciò che distingue i due fratelli e che istintivamente ci rende più simpatico quello scapestrato, è che la ricerca di sicurezza di quest’ultimo, anzi la sua certezza di trovarla fondandosi solo su se stesso, fallisce (come la nostra)… mentre il primo vive ancora nell’illusione di bastare a se stesso… nell’illusione che i suoi calcoli alla fine si riveleranno giusti…

Anche noi in alcune fasi della vita ci siamo sentiti (o ci sentiamo) “giusti” come il maggiore, coi “calcoli che tornano”, che devono tornare, altrimenti ce la prendiamo sul serio anche noi (!) con gli altri; in altre invece ci siamo sentiti come il piccolo, sperimentando davvero di non farcela e comprendendo come la sicurezza fondata su noi stessi (per mezzo degli altri, cioè che ha gli altri come mezzi) non tiene. È come il vitello d’oro. È un’illusione: promette vita, ma porta alla morte.

Sono come due anime entrambe presenti in ciascuno e come sempre poste in circolarità l’una con l’altra… prima del “fallimento” delle nostre illusioni di bastare a noi stessi, credevamo davvero in esse… e – purtroppo – anche dopo aver sperimentato il loro “fallimento” torniamo a crederci, quando – ricomposta un po’ la ferita della “rovina” precedente – ci rimettiamo a costruire qualcosa in cui ritorniamo sempre ad essere noi i protagonisti… fino al prossimo rovinare per terra come un castello di carte…

La parabola mostra come ciò che può arrivare a rompere questa circolarità sia la presa di coscienza (mai definitiva e sempre da riportare a consapevolezza) che l’esperienza del non bastare a se stessi non è contingente, non è “perché stavolta mi è andata male, ma la prossima volta faccio meglio i calcoli”… ma è la condizione esistenziale della nostra vita, che difatti ha la sua chiave di volta nell’affidamento ad un altro: «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre». Dove la differenza sta appunto nel riconoscimento dell’impossibilità di darsi una sicurezza da sé – foss’anche usando gli altri, le altre cose, Dio come mezzi per sé – e nel consegnarsi nelle mani di un Altro.

È sottile la differenza tra consegna e utilizzo dell’altro per fondare la propria sicurezza (anche linguisticamente parlando), soprattutto nella relazione con Dio, ma la questione sta tutta qua, come ben dice Paolo nella seconda lettura di questa domenica: «Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti (la vecchia traduzione diceva: sicura!): Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io»; ma chi la accoglie – chi dunque vince la paura di non tenersi in mano – stando al Vangelo, non trova l’abisso del dissolvimento nel niente, ma un padre che «Quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. […] disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciano a far festa».

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