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domenica 23 gennaio 2011

III Domenica del Tempo Ordinario: Una luce è sorta

In questa terza domenica del Tempo Ordinario, il brano di vangelo che la Chiesa ci propone, tratto dal testo di Matteo, è quello dell’inizio concreto del ministero pubblico di Gesù. Dopo il vangelo dell’infanzia (Mt 1-2) e dopo il cosiddetto trittico sinottico (e cioè quei tre episodi che inaugurano la vita da adulto di Gesù in tutti i vangeli sinottici: predicazione di Giovanni Battista, Battesimo di Gesù, tentazioni nel deserto – Mt 3,1-4,11), eccoci infatti ai primi atti, alle prime parole e ai primi spostamenti di Gesù tra la gente.


È un’attività che viene collocata in un momento preciso, «Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato»; un momento che in qualche modo muove la coscienza di Gesù a prendere il posto che gli compete sulla scena (aveva detto infatti Giovanni: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire», Gv 3,30), ad assumersi la responsabilità pubblica della sua identità e della sua missione.

Ecco quindi i primi movimenti («lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao») le prime parole dell’annuncio («Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»), le prime chiamate (Pietro e Andrea; Giacomo e Giovanni), i primi gesti di liberazione dal male («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»)… quasi un concentrato sintetico di tutta la sua attività in Galilea: come un condensato che poi le pagine successive del vangelo srotoleranno, narrandoci gli episodi, gli incontri, i gesti, le parole… ma che già qui si propone nel suo sguardo d’insieme.

Ciò su cui però vorrei innanzitutto focalizzare la nostra attenzione, è la luce sotto cui l’evangelista pone la sintesi di tutta questa attività gesuana. All’inizio infatti Matteo – citando il profeta Isaia (precisamente il passo che la liturgia pone questa domenica come prima lettura) – mette come una chiave di lettura a tutto quanto sta per dire: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

L’evangelista cioè, appena prima di iniziare a raccontare le vicende della vita di Gesù, ci dice già come guardare a quell’uomo di cui sta per raccontare la storia: è lui la luce (grande) che arriva per il popolo che abita nelle tenebre; è lui la luce per quelli che abitano in regione e ombra di morte!

E per comprendere bene questa “anticipazione del senso” che Matteo ci fornisce all’inizio, dobbiamo far riferimento soprattutto a due elementi: il primo è la questione del “genere letterario vangelo”; il secondo è il significato che quelle parole, messe come incipit, hanno per il lettore di oggi (e di sempre).

Innanzitutto la questione del genere letterario: mentre leggiamo il vangelo, non dobbiamo mai dimenticare che non siamo di fronte ad una biografia di Gesù. Cioè non siamo davanti alla cronaca della sua vita, al racconto “minuto per minuto” di tutto ciò che Gesù ha fatto e ha detto. Non siamo nemmeno di fronte ad una “presa diretta”. Non è che Matteo (o chi per lui) era lì col taccuino degli appunti a prendere nota (“in diretta” appunto) i vari atti di Gesù… appunti che poi risistemati avrebbero costituito il vangelo!

Siamo piuttosto di fronte alla ricostruzione teologica della vicenda di Gesù, quand’essa aveva già esaurito la sua parabola storica. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che chi scrive lo fa quando Gesù ha già vissuto tutta la sua vita, è già morto ed è già risorto; dunque a partire da un punto di vista che tiene in mano la totalità dell’esperienza storica di Gesù (e non mentre questa esperienza è ancora in divenire). In più dal punto di vista di chi, a partire dallo svolgersi completo di questa vicenda, ha già deciso di sbilanciarsi verso una fede/fiducia in essa: chi scrive, lo fa a partire dal riconoscimento che quella vicenda storica è la vicenda del Figlio di Dio, del Salvatore del mondo. E – proprio per questo – lo scopo di chi scrive è quello di portare altri al medesimo sbilanciamento.

Dentro questo quadro allora, forse, è più facile capire perché Matteo senta la necessità di porre già subito – in apertura del suo vangelo – un’indicazione riguardo allo sguardo da usare per leggere ciò che seguirà: perché la sua intenzione è quella di far sapere e convincere che la luce del mondo attesa dalle genti, loro l’hanno trovata, è quel Gesù di cui sta per raccontare la storia!

Il “come” Gesù sia questa luce grande lo si scoprirà strada facendo, leggendo tutto il prosieguo del vangelo, ma già adesso – ed è il secondo elemento che citavamo – è necessario dirne una parola…

Il problema è cioè chiarire fin da subito quali aspettative, quale senso, Matteo metta in campo di fronte al suo lettore: Cosa vuol dire quando esordisce dicendo «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» riferendo tutto ciò a Gesù?

Innanzitutto vediamo che senso avevano in origine quelle parole. Abbiamo già detto che sono una citazione del profeta Isaia. Il professor Patrizio Rota Scalabrini, la commenta così: «La struttura di questi versetti è abbastanza semplice: si presentano i giorni oscuri che si abbatteranno sulle tribù del Nord (Zabulon, Neftali, Galilea), che verosimilmente possono alludere alla seconda discesa di Tiglatpileser, che occupa i territori delle tribù del Nord. Successivamente si annuncia la salvezza che sarà basata sulla nascita (o intronizzazione?) di un Re liberatore, discendente della casa di Davide. In ogni caso ciò che è descritto è un momento in cui non c’è più speranza alcuna, né nella terra, né nell'autorità, né nella fede; ma ecco che la situazione si modifica radicalmente, proprio col tono esultante dei vv. 9,1-6 («Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce…»). Il brano esprime quindi la speranza di un superamento radicale di una tragica situazione, caratterizzata da guerra, oppressione e fame. Questa speranza è riposta in un personaggio storico e concreto, non in una figura mitica o escatologica. Si tratta, probabilmente di un erede al trono. Il contenuto di questa speranza è in parte politico, ma la contrapposizione di termini come “oscurità” e “luce-pace”, fa pensare a una modificazione più sostanziale della vita del popolo. Il mutamento riguarda innanzitutto chi è maggiormente nel buio e nella confusione: così i primi destinatari sono Zabulon e Neftali, le due tribù più settentrionali, più distanti dal centro, Gerusalemme, che è solitamente la beneficiaria delle promesse. In questo territorio passa la famosa “via maris”, la strada che in quei tempi collegava le due regioni più importanti della mezzaluna fertile: l’Egitto con la Mesopotamia e la Persia. Proprio per la presenza di questa strada le regioni del Nord ed in particolare la Galilea erano spesso oggetto di passaggio di eserciti, che vi compivano scorribande e saccheggi frequenti (come solitamente succedeva al passaggio di un esercito, anche non nemico). Era questo un distretto di periferia, nel quale vivevano numerosi gruppi di popolazioni non ebree; gli Ebrei stessi la chiamavano la “regione delle Genti”. Questa terra viveva pertanto nella confusione sociale, politica, militare e anche religiosa. La condizione difficile di tale regione è paragonata dal profeta ad una zona avvolta da tenebre perenni, e sottoposta a continua umiliazione. Ma l’arrivo del Signore, il compimento delle sue promesse attraverso la nascita (o intronizzazione) di quel misterioso personaggio regale, strapperà tale regione dalla tenebra, simbolo di caos e immagine di morte. L’intervento divino, reso manifesto dalla nascita del bambino regale, sarà come luce repentina, come l’inizio di una nuova creazione, come qualcosa di non spiegabile e di miracoloso. All’umiliazione subentrerà la gloria, alla tristezza una gioia piena e una letizia immensa. Tale gioia è espressa dal profeta attraverso l’immagine di un esercito vittorioso che si spartisce il bottino. Per una terra, oggetto di scorrerie e di prevaricazioni, l’annuncio di una vittoria con bottino costituisce la promessa di un radicale cambiamento. La terra del nord, terra di guerre e di sangue, diventerà terra di pace e di libertà. Nella “notte” di queste regioni lontane e apparentemente maledette, Dio interverrà, sconfiggendo il nemico: la sua vittoria non sarà su un popolo, contro un gruppo di uomini, ma su una condizione umana, contro una mancanza di senso e di gioia, nel superamento di un’umiliazione che rende buie tutte le giornate».

Dopo queste note esplicative, forse, è più chiaro anche il senso che Matteo vuole dare alla sua citazione: ai suoi lettori, di ieri e di oggi, infatti l’evangelista sta dicendo: “Guardate che è arrivato quello che ci può tirar fuori dalle tenebre e dall’ombra della morte. Se anche voi, se anche tu, ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali (e chi non si sente come la terra di Zabulon e di Neftali? Chi non si sente campo di battaglia? ‘Botte vuota in cui si sciacqua la storia del mondo’ [Etty]? Chi di fronte a un mondo che pare andare a rotoli (quello grande, di tutti; ma anche quello piccolo, nostro) – a volte – non pensa che non ci sia più speranza alcuna? Chi non si sente nel buio e nella confusione? Lontano dai beneficiari della promessa, che son sempre gli altri? Chi non si sente in tenebre perenni, sottoposto a continua umiliazione – foss’anche solo per il fatto che prima o poi lui e i suoi cari dovranno morire?)… bene, se anche tu ti senti come la terra di Zabulon e di Neftali guarda che – sembra dire Matteo – io ho trovato uno che illumina tutto! Io ho trovato uno che fa nuove tutte le cose, che ri-crea l’uomo («Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo»), che riempie il cuore di gioia e di letizia immensa, che trasforma terra di guerre e sangue (come è la nostra interiorità) in terra di pace e di libertà! Vuoi andargli dietro?”.

È la domanda che Matteo – tranchant – mette lì all’inizio. È la domanda che la Chiesa – all’inizio di un nuovo anno liturgico – ripropone a tutti i discepoli del Signore… è la domanda a cui noi – terre di Zabulon e Neftali – siamo chiamati a rispondere, sapendo che «ogni suo seguace diventa discepolo quando sperimenta di essere a sua volta pescatore dei suoi fratelli: testimone della gioia dello spirito quando qualche piccolo, malato, ferito, soggiogato dalla paura, è preservato dal male, davanti ai nostri occhi, perché questa è la forza propulsiva, umile ma incoercibile, del minuscolo seme di amore che il Padre in Gesù ha seminato nel mondo…» [Giuliano]. Questa è la luce che Lui ha fatto sorgere.

1 commento:

maria sole ha detto...

Sei in ritardo di qualche giorno, il tuo commento è atteso........
è quel piccolo seme di amore che il Padre in Gesù ha seminato nel mondo....

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